Nei suoi
pensieri sparsi, Ludwig Wittgenstein, annotò che: «Niente è così
difficile come non ingannare se stessi». Quale migliore spiegazione
del perché il legislatore italiano ha inserito due anni fa nella
nostra Costituzione il principio del pareggio di bilancio,
modificandone l’articolo 81? Ma l’inganno non può durare
all’infinito. Sotto i colpi della crisi e di qualche ripensamento
anche nel campo mainstream, la spavalda sicurezza con cui una
maggioranza – un tempo si sarebbe detto bulgara – di parlamentari
votò nel 2012 la nuova norma costituzionale, pare vacillare non
poco.
Eppure le avvertenze alla prudenza vennero fatte anche allora, ma non furono ascoltate. Nel luglio del 2011 sei premi Nobel per l’economia (Kennet Arrow, Peter Diamond, Charles Schultze, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) rivolsero un appello al Presidente Obama a non piegarsi alla regola del raggiungimento del pareggio di bilancio annuale, considerandola del tutto disastrosa per una corretta politica economica.
Più modestamente, un’assemblea indetta da giuristi democratici a Roma, in prossimità del voto finale in quarta lettura al Senato, avvenuto nell’aprile 2012, invitava i parlamentari del Pd, facenti parte della maggioranza che sosteneva il governo Monti, benché favorevoli al pareggio di bilancio, ad abbandonare l’aula al momento del voto in modo da non fare scattare la maggioranza dei due terzi che avrebbe impedito la convocazione del referendum cosiddetto confermativo. Un referendum che si applica alle norme di revisione costituzionale che non sono approvate in entrambe le camere con la maggioranza dei due terzi e che – stranezza della nostra legislazione – non prevede, a differenza dei referendum abrogativi di leggi ordinarie, alcun quorum. D’altro canto non era l’Europa a chiedercelo. Infatti quest’ultima si mostrava indifferente al tipo di norma che i paesi membri avrebbero adottato al riguardo, se di livello costituzionale o meno. La Francia ad esempio non seguì la prima strada.
Se il consiglio fosse stato seguito si sarebbe avuta almeno una larga discussione di politica economica nel nostro paese e ogni forza politica sarebbe stata costretta a pronunciarsi apertamente, non potendo ricorrere all’astensione nel voto referendario.
Rispose Anna Finocchiaro, presente all’assemblea nella sua qualità di Presidente del gruppo senatoriale Pd, con un cortese ma fermo discorso, nel quale precisava la diversità dei punti di vista e soprattutto la sua appartenenza ad un partito che non tollerava che, una volta presa una decisione, i suoi parlamentari si comportassero in modo discorde. Motivazione davvero incauta se messa a confronto con quanto sarebbe avvenuto di lì a non molto, quando oltre cento deputati nel segreto dell’urna disobbedirono alla indicazione di voto del loro partito sulla elezione del Presidente della Repubblica.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. La applicazione della norma tanto invocata prima da Berlusconi, poi da Monti e santificata da maggioranze senza precedenti, inizialmente anticipata addirittura al 2013, è stata poi posticipata da Renzi al 2017. Né sono state da aiuto le elucubrazioni susseguenti alla presentazione del Def 2015 sulla misurazione del Pil potenziale da cui si deriverebbe il c.d output-gap in base a cui si valuterebbe la distanza dal raggiungimento del pareggio strutturale. I contorcimenti sulle differenze fra Pil reale e Pil potenziale, fra pareggio di bilancio contabile e quello strutturale nascondono solo la cattiva coscienza di chi ha compreso che la norma non sta in piedi ma non si rassegna alla brutta figura di fare marcia indietro.
Ma anche questo gioco a nascondino ha il fiato corto. Venerdì un articolo molto puntuale del Sole24Ore gettava la maschera ed affermava chiaramente che “è tempo di ripensare l’utilità del pareggio di bilancio”, fino a definire che l’idea di diminuire il numeratore del rapporto Debito/Pil, su cui si basa tutta la politica di austerità e il famigerato fiscal compact, è “una concezione priva delle più elementari basi logico-razionali”.
Quindi quella norma va abolita.
Eppure le avvertenze alla prudenza vennero fatte anche allora, ma non furono ascoltate. Nel luglio del 2011 sei premi Nobel per l’economia (Kennet Arrow, Peter Diamond, Charles Schultze, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) rivolsero un appello al Presidente Obama a non piegarsi alla regola del raggiungimento del pareggio di bilancio annuale, considerandola del tutto disastrosa per una corretta politica economica.
Più modestamente, un’assemblea indetta da giuristi democratici a Roma, in prossimità del voto finale in quarta lettura al Senato, avvenuto nell’aprile 2012, invitava i parlamentari del Pd, facenti parte della maggioranza che sosteneva il governo Monti, benché favorevoli al pareggio di bilancio, ad abbandonare l’aula al momento del voto in modo da non fare scattare la maggioranza dei due terzi che avrebbe impedito la convocazione del referendum cosiddetto confermativo. Un referendum che si applica alle norme di revisione costituzionale che non sono approvate in entrambe le camere con la maggioranza dei due terzi e che – stranezza della nostra legislazione – non prevede, a differenza dei referendum abrogativi di leggi ordinarie, alcun quorum. D’altro canto non era l’Europa a chiedercelo. Infatti quest’ultima si mostrava indifferente al tipo di norma che i paesi membri avrebbero adottato al riguardo, se di livello costituzionale o meno. La Francia ad esempio non seguì la prima strada.
Se il consiglio fosse stato seguito si sarebbe avuta almeno una larga discussione di politica economica nel nostro paese e ogni forza politica sarebbe stata costretta a pronunciarsi apertamente, non potendo ricorrere all’astensione nel voto referendario.
Rispose Anna Finocchiaro, presente all’assemblea nella sua qualità di Presidente del gruppo senatoriale Pd, con un cortese ma fermo discorso, nel quale precisava la diversità dei punti di vista e soprattutto la sua appartenenza ad un partito che non tollerava che, una volta presa una decisione, i suoi parlamentari si comportassero in modo discorde. Motivazione davvero incauta se messa a confronto con quanto sarebbe avvenuto di lì a non molto, quando oltre cento deputati nel segreto dell’urna disobbedirono alla indicazione di voto del loro partito sulla elezione del Presidente della Repubblica.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. La applicazione della norma tanto invocata prima da Berlusconi, poi da Monti e santificata da maggioranze senza precedenti, inizialmente anticipata addirittura al 2013, è stata poi posticipata da Renzi al 2017. Né sono state da aiuto le elucubrazioni susseguenti alla presentazione del Def 2015 sulla misurazione del Pil potenziale da cui si deriverebbe il c.d output-gap in base a cui si valuterebbe la distanza dal raggiungimento del pareggio strutturale. I contorcimenti sulle differenze fra Pil reale e Pil potenziale, fra pareggio di bilancio contabile e quello strutturale nascondono solo la cattiva coscienza di chi ha compreso che la norma non sta in piedi ma non si rassegna alla brutta figura di fare marcia indietro.
Ma anche questo gioco a nascondino ha il fiato corto. Venerdì un articolo molto puntuale del Sole24Ore gettava la maschera ed affermava chiaramente che “è tempo di ripensare l’utilità del pareggio di bilancio”, fino a definire che l’idea di diminuire il numeratore del rapporto Debito/Pil, su cui si basa tutta la politica di austerità e il famigerato fiscal compact, è “una concezione priva delle più elementari basi logico-razionali”.
Quindi quella norma va abolita.
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