Diretto a
Washington per ritirare il Premio Speciale della National Italian
American Foundation (Niaf) - riservato a chi raggiunge particolari
traguardi nella propria professione e già attribuito a personalità come
Lee Iacocca, Giovanni Agnelli, Sergio Marchionne, Gianni Versace, Robert
De Niro, Al Pacino, Leon Panetta e tanti altri in 43 anni di storia -
il Presidente della Confindustria Vincenzo Boccia ha tenuto una lecture
alla New York University per offrire un'immagine dell'Italia diversa da
quella che potrebbe apparire leggendo le cronache di questi giorni.
Invece che
soffermarsi sulle divisioni e sulle incomprensioni che fanno del nostro
Paese, almeno nell'immaginario collettivo, uno dei posti più litigiosi e
meno governabili del globo, Boccia è partito dalla narrazione dei
prodotti bellissimi che esporta e di quegli uomini, gli imprenditori
appunto, che anche negli anni più bui della storia hanno trovato la
forza e il coraggio, il modo attraverso infinite difficoltà, di creare
ricchezza e benessere fino a spingerci a diventare la seconda
manifattura d'Europa e la settima potenza industriale al mondo.
Vista con altri
occhi, quelli che ci guardano e ci giudicano per quello che abbiamo
saputo fare e ancora sappiamo fare in campo industriale con una bravura
che ci viene largamente invidiata, l'Italia da scolara svogliata e
ripetente diventa maestra. E infatti dalla meccanica alla moda,
dall'agroalimentare all'arredamento, sono almeno otto i settori nei
quali il nostro Paese eccelle piazzandosi al primo, al secondo o al
terzo posto delle classifiche internazionali. Dati che si possono
leggere nelle statistiche del Wto, ma che con molta difficoltà sono
oggetto di dibattito e approfondimento.
E infatti
l'Italia divide con il Brasile l'antipatico primato delle nazioni che si
considerano peggio di come sono valutate dagli altri. A furia di
parlarci male addosso, di accusarci l'un con l'altro delle difficoltà e
dei problemi che abbiamo, di usare l'estero come palcoscenico per
attaccare i nemici interni, abbiamo cominciato a credere per primi noi
stessi alle cattiverie che ci scambiavamo - e continuiamo imperterriti a
scambiarci - perdendo la fiducia reciproca. E se non riusciamo a
difendere i nostri valori e le nostre capacità, perché dovrebbe farlo
qualcun altro?
Ecco il punto. È
come se l'Italia scommettesse continuamente contro se stessa esaltando i
suoi punti peggiori che diventano oggetto di dileggio e nascondendo
quelli migliori che faticano a farsi riconoscere mentre invece
meriterebbero di essere evidenziati con giusto orgoglio. Non si tratta
di fare gli sbruffoni, come altri Paesi invece fanno esagerando in senso
opposto, ma di trovare anche nella sfera pubblica quell'equilibrio che
ci ha reso famosi nelle forme dell'arte e nel design. Dobbiamo cioè
imparare, ma questo è stato già detto, a volerci un po' più di bene.
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