L’Italia si avvia con passo lento verso la società del lavoro
povero, a termine e pieno di scoraggiati. I dati Istat sugli
occupati e disoccupati a settembre hanno registrato il primo
arresto del lieve incremento, dovuto essenzialmente ai 15 (forse 20)
miliardi erogati a pioggia dal governo Renzi alle imprese con la
decontribuzione nel Jobs Act. La stima degli occupati è diminuita
dello 0,2% (-36 mila) e riguarda sia i dipendenti (-26 mila) sia gli
indipendenti (partite Iva e parasubordinati: –10 mila). Dato
confermato ieri dall’Inps secondo il quale gli iscritti alla gestione
separata sono diminuiti di 49 mila unità nell’ultimo anno e
addirittura del 233 mila dal 2011. In generale, il tasso di
occupazione diminuisce dello 0,1% attestandosi al 56,5%, il più
basso tra i paesi europei colpiti dalla crisi. Si lavora sempre meno
e, nel perimetro degli attivi, si lavora sempre peggio.
Così andrebbe interpretato il dato sui lavoratori inattivi: +53 mila persone a settembre. Il tasso di inattività è pari al 35,8% in aumento di 0,2% causato del primo calo tra gli occupati giovani (-11 mila). Questo significa che, pur avendo cercato lavoro nel perimetro del lavoro povero e precario, queste persone si sono arrese. Su base annuale, il tasso di inattività è calato (-39 mila persone). I dati confermano una tendenza: le politiche occupazionali non creano nuovo lavoro, trasformano solo i contratti esistenti in altre tipologie che vengono poi rinnovate infinite volte. Questa è la «stabilità» occupazionale. Molto precaria, in realtà.
Parliamo di «crescita»
Si dice che ci sia la crescita. Esiste, ma è necessario capire di quale natura sia. Le stime dell’Istat registrano un decremento minimo del tasso di disoccupazione (-0,1%), pari all’11,8%. Nell’ultimo anno le persone occupate sono aumentate di 192 mila unità (+0,9%), mentre è calata la disoccupazione giovanile al 40,5% (-0,2%). Sono notizie positive, e come tali sono state accolte dalle fanfare di Palazzo Chigi. Per Renzi basta vedere un segno più e tutto va bene. «Il Jobs Act ha creato opportunità e posti di lavoro stabili. È la volta buona, l’Italia riparte. non dimentichiamo che eravamo sopra al 13% di disoccupazione a livello generale e oltre il 46% per i giovani. Sono percentuali e numeri, certo, ma sono anche persone, vite, famiglie, destini»» ha detto. Il ministro del lavoro Poletti ha aggiunto: «C’è un miglioramento strutturale del mercato del lavoro».
In realtà è in corso una strutturazione del mercato sul modello del lavoro stabilmente precario, non un suo «miglioramento». Almeno il 70% dei nuovi posti di lavoro è stato creato dal decreto Poletti che ha modificato profondamente la disciplina sui contratti a termine, prima dell’approvazione del Jobs Act come ha osservato il segretario confederale della Cgil, Serena Sorrentino, secondo la quale «più che una macchina da corsa il Jobs Act si conferma un’utilitaria che ha bisogno di molta manutenzione».
La lenta, e ondivaga, crescita dell’occupazione conferma uno scenario generale di stagnazione. «Di questo passo – commenta il centro studi Adapt — si potrà tornare a livelli pre-crisi, se non vi saranno incidenti di percorso, intorno al 2020». Quanto alla dinamica strutturale avviata dal Jobs Act fa questa valutazione: «Settembre ci ha riportati alla dura realtà del mercato del lavoro italiano: su base annua, i contratti a tempo indeterminato crescono dello 0,8%, sempre distaccati dall’aumento del 4,6% di quelli a tempo determinato, la modalità preferenziale con la quale assumono le imprese».
Emerge una fotografia parziale, ma efficace, degli effetti del Jobs Act: «A fronte di 790 mila contratti che hanno usufruito della decontribuzione prevista dalla legge di stabilità del 2015 sono solo 101 mila i posti di lavoro in più a tempo indeterminato – sostiene l’Adapt — Questi fondi sono stati quindi utilizzati unicamente per conversioni e sulla base di una idea di stabilità che manca tanto nella legge quanto nella realtà del mercato del lavoro».
Il senso dell’inattività
A settembre, al termine del boom del lavoro stagionale estivo, si conferma la flessione degli effetti degli incentivi annunciata, qualche tempo fa da Guglielmo Loy (Uil) che ieri ha indicato come «drammaticamente critico soprattutto il fronte giovanile che «conferma la mancanza di interventi mirati ai giovani che purtroppo, non troviamo» nemmeno nella Legge di Stabilità». La «Garanzia giovani» ha prodotto un numero volatile di tirocini e, visti gli scoraggiati, non produce risultati.
Confermato anche il divario netto tra l’occupazione povera degli adulti e quella misera dei giovani. Ieri è stato largamente celebrato l’arretramento della loro disoccupazione dal 41,5 al 40%. Bisogna intendersi: l’Italia supera la media europea di disoccupazione giovanile del 20%. Lo «statistical noise» prodotto da un lieve decremento non muta la struttura che si è formata dal 2008. Continuare a farlo è una beffa per i ragazzi italiani. «Servirebbero delle politiche che creino posti di lavoro – sostiene Susanna Camusso, segretaria generale Cgil — ma purtroppo si è scelta ancora una volta la strada della riduzione fiscale a pioggia». «I giovani italiani che hanno perso le speranze di poter trovare un impiego sono 22 mila in più — fa notare Luigi Di Maio dei Cinque Stelle — Strano ma vero e c’è anche chi festeggia. Questa è la dittatura dell’ottimismo».
In un intervento all’assemblea dell’Anci il presidente della Repubblica Mattarella ha denunciato gli «insostenibili indici di disoccupazione che assumono talvolta caratteri di emergenza». Un giorno toccherà stabilire anche l’indice dell’insostenibilità del lavoro povero, intermittente e senza garanzie.
Così andrebbe interpretato il dato sui lavoratori inattivi: +53 mila persone a settembre. Il tasso di inattività è pari al 35,8% in aumento di 0,2% causato del primo calo tra gli occupati giovani (-11 mila). Questo significa che, pur avendo cercato lavoro nel perimetro del lavoro povero e precario, queste persone si sono arrese. Su base annuale, il tasso di inattività è calato (-39 mila persone). I dati confermano una tendenza: le politiche occupazionali non creano nuovo lavoro, trasformano solo i contratti esistenti in altre tipologie che vengono poi rinnovate infinite volte. Questa è la «stabilità» occupazionale. Molto precaria, in realtà.
Parliamo di «crescita»
Si dice che ci sia la crescita. Esiste, ma è necessario capire di quale natura sia. Le stime dell’Istat registrano un decremento minimo del tasso di disoccupazione (-0,1%), pari all’11,8%. Nell’ultimo anno le persone occupate sono aumentate di 192 mila unità (+0,9%), mentre è calata la disoccupazione giovanile al 40,5% (-0,2%). Sono notizie positive, e come tali sono state accolte dalle fanfare di Palazzo Chigi. Per Renzi basta vedere un segno più e tutto va bene. «Il Jobs Act ha creato opportunità e posti di lavoro stabili. È la volta buona, l’Italia riparte. non dimentichiamo che eravamo sopra al 13% di disoccupazione a livello generale e oltre il 46% per i giovani. Sono percentuali e numeri, certo, ma sono anche persone, vite, famiglie, destini»» ha detto. Il ministro del lavoro Poletti ha aggiunto: «C’è un miglioramento strutturale del mercato del lavoro».
In realtà è in corso una strutturazione del mercato sul modello del lavoro stabilmente precario, non un suo «miglioramento». Almeno il 70% dei nuovi posti di lavoro è stato creato dal decreto Poletti che ha modificato profondamente la disciplina sui contratti a termine, prima dell’approvazione del Jobs Act come ha osservato il segretario confederale della Cgil, Serena Sorrentino, secondo la quale «più che una macchina da corsa il Jobs Act si conferma un’utilitaria che ha bisogno di molta manutenzione».
La lenta, e ondivaga, crescita dell’occupazione conferma uno scenario generale di stagnazione. «Di questo passo – commenta il centro studi Adapt — si potrà tornare a livelli pre-crisi, se non vi saranno incidenti di percorso, intorno al 2020». Quanto alla dinamica strutturale avviata dal Jobs Act fa questa valutazione: «Settembre ci ha riportati alla dura realtà del mercato del lavoro italiano: su base annua, i contratti a tempo indeterminato crescono dello 0,8%, sempre distaccati dall’aumento del 4,6% di quelli a tempo determinato, la modalità preferenziale con la quale assumono le imprese».
Emerge una fotografia parziale, ma efficace, degli effetti del Jobs Act: «A fronte di 790 mila contratti che hanno usufruito della decontribuzione prevista dalla legge di stabilità del 2015 sono solo 101 mila i posti di lavoro in più a tempo indeterminato – sostiene l’Adapt — Questi fondi sono stati quindi utilizzati unicamente per conversioni e sulla base di una idea di stabilità che manca tanto nella legge quanto nella realtà del mercato del lavoro».
Il senso dell’inattività
A settembre, al termine del boom del lavoro stagionale estivo, si conferma la flessione degli effetti degli incentivi annunciata, qualche tempo fa da Guglielmo Loy (Uil) che ieri ha indicato come «drammaticamente critico soprattutto il fronte giovanile che «conferma la mancanza di interventi mirati ai giovani che purtroppo, non troviamo» nemmeno nella Legge di Stabilità». La «Garanzia giovani» ha prodotto un numero volatile di tirocini e, visti gli scoraggiati, non produce risultati.
Confermato anche il divario netto tra l’occupazione povera degli adulti e quella misera dei giovani. Ieri è stato largamente celebrato l’arretramento della loro disoccupazione dal 41,5 al 40%. Bisogna intendersi: l’Italia supera la media europea di disoccupazione giovanile del 20%. Lo «statistical noise» prodotto da un lieve decremento non muta la struttura che si è formata dal 2008. Continuare a farlo è una beffa per i ragazzi italiani. «Servirebbero delle politiche che creino posti di lavoro – sostiene Susanna Camusso, segretaria generale Cgil — ma purtroppo si è scelta ancora una volta la strada della riduzione fiscale a pioggia». «I giovani italiani che hanno perso le speranze di poter trovare un impiego sono 22 mila in più — fa notare Luigi Di Maio dei Cinque Stelle — Strano ma vero e c’è anche chi festeggia. Questa è la dittatura dell’ottimismo».
In un intervento all’assemblea dell’Anci il presidente della Repubblica Mattarella ha denunciato gli «insostenibili indici di disoccupazione che assumono talvolta caratteri di emergenza». Un giorno toccherà stabilire anche l’indice dell’insostenibilità del lavoro povero, intermittente e senza garanzie.
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