“Pochi credevano possibile il miracolo. Ma questo paese è forte,
solido, autorevole. La nostra è un’Italia coraggiosa, che non scappa
davanti alle sfide, ma le affronta e le vince” sono le parole
pronunciate da Renzi su facebook alla vigilia della chiusura dell’Expo,
ma presenti anche nei suoi innumerevoli discorsi. Frasi che, pronunciate
da un paziente in un ospedale psichiatrico, darebbero motivo ai medici
di diagnosticare, al paziente in questione, un’evidente schizzofrenia.
Tuttavia, non è la prima volta che fuoriescono determinate
affermazioni. Lo stesso subdolo gioco linguistico è avvenuto per il Jobs
Act, per cui il primo ministro affermò che finalmente si andava
incontro a “una riforma che agevola l’occupazione giovanile”,
dimenticando però di aggiungere un aggettivo importante.. “Temporanea”.
Tale è la condizione di mi
ioni di giovani i quali lottano quotidianamente per guadagnare una parvenza economica dal loro periodico sfruttamento. Spesso,invece, chi ha un posto stabile è minacciato continuamente di licenziamento ed è perciò sottoposto a condizioni di lavoro disumane.
Negli ambienti della Milano bene targata Expo, si è argomentato nei modi più svariati il ritorno alla terra, al contatto dell’uomo con la natura, promuovendo il settore agrario come fattore di rinascita del paese. Per ironia della sorte, si tratta del settore che invece risulta maggiormente compromesso e arretrato, sia dal punto di vista dello sviluppo, sia in materia di diritti. Soprattutto nelle regioni del centro-Sud quali Puglia, Basilicata e Calabria, i ritmi lavorativi sono estenuanti: una giornata media di un bracciante inizia alle sei di mattina e termina alle 12, con una sola ora di pausa, per poi ricominciare alle 13 e finire alle 19. Il tutto avviene sotto la rigida sorveglianza del caporalato, il quale, nel periodo di raccolta, esige anche la preparazione delle cassette ortofrutticole da presentare al mercato estero. Dunque, in quel contesto le ore lavorative aumentano da 12 a 15/16, ripagate con un compenso in nero fra i 500 e gli 800 euro, pagamento non sempre puntuale, anzi spesso tardivo. Gli agricoltori non osano lamentarsi eccessivamente, poiché sono a conoscenza del rischio di un probabile licenziamento. E’ palese la condizione di schiavitù economica e psicologica cui lavoratori italiani ed extracomunitari sono sottoposti, situazione per la quale, nell’estate del 2015, sono avvenuti ben tre decessi di braccianti agricoli nella sola regione Puglia: le cause di morte sono ovviamente riconducibili alle insostenibili temperature estive.
Per non parlare della situazione in cui versano stabilimenti quali l’Ilva, in cui gli impiegati, mal retribuiti, operano in situazioni di sicurezza precaria e coperture assicurative minime, in balia di rovinose strutture e apparati industriali risalenti agli anni ’70 e mai messi a norma.
L’esplosione del caporalato e dello sfruttamento, la schiavitù dell’eterna precarietà e flessibilità e il totale (oramai legalizzato) svilimento dei diritti dei lavoratori sono i sintomi evidenti della neo-restaurazione di un potere oligarchico, molto simile a quello dell’alta borghesia industriale o i padronati latifondisti di fine ‘800, ma molto più evoluto e celato dietro organismi finanziari dalle logiche apparentemente razionali quale la stessa Unione Europea. L’Italia, fra tutti i paesi del continente, è quello che più si è inchinato e asservito dinanzi al liberismo capitalista e alla sua opera di impoverimento collettivo, cedendo a qualsiasi diktat europeo per merito dell’attuale presidente Renzi, fregiato, tra l’altro, dell’appellativo di “scolaretto”. Non è finita qui, dal momento che, nonostante tutti i danni subiti, il paese ha offerto il proprio fondoschiena politico ed economico per ospitare una manifestazione come l’Expo, della quale fruiranno esclusivamente gli organizzatori o la partnership imprenditoriale, non la gente comune. Non è questione di ideologismi di sinistra o nazionalismi, come tanta stampa liberale vuol bollare queste dure critiche, bensì è un invito alla rivendicazione dei diritti e delle risorse di pura ed esclusiva appartenenza popolare.
ioni di giovani i quali lottano quotidianamente per guadagnare una parvenza economica dal loro periodico sfruttamento. Spesso,invece, chi ha un posto stabile è minacciato continuamente di licenziamento ed è perciò sottoposto a condizioni di lavoro disumane.
Negli ambienti della Milano bene targata Expo, si è argomentato nei modi più svariati il ritorno alla terra, al contatto dell’uomo con la natura, promuovendo il settore agrario come fattore di rinascita del paese. Per ironia della sorte, si tratta del settore che invece risulta maggiormente compromesso e arretrato, sia dal punto di vista dello sviluppo, sia in materia di diritti. Soprattutto nelle regioni del centro-Sud quali Puglia, Basilicata e Calabria, i ritmi lavorativi sono estenuanti: una giornata media di un bracciante inizia alle sei di mattina e termina alle 12, con una sola ora di pausa, per poi ricominciare alle 13 e finire alle 19. Il tutto avviene sotto la rigida sorveglianza del caporalato, il quale, nel periodo di raccolta, esige anche la preparazione delle cassette ortofrutticole da presentare al mercato estero. Dunque, in quel contesto le ore lavorative aumentano da 12 a 15/16, ripagate con un compenso in nero fra i 500 e gli 800 euro, pagamento non sempre puntuale, anzi spesso tardivo. Gli agricoltori non osano lamentarsi eccessivamente, poiché sono a conoscenza del rischio di un probabile licenziamento. E’ palese la condizione di schiavitù economica e psicologica cui lavoratori italiani ed extracomunitari sono sottoposti, situazione per la quale, nell’estate del 2015, sono avvenuti ben tre decessi di braccianti agricoli nella sola regione Puglia: le cause di morte sono ovviamente riconducibili alle insostenibili temperature estive.
Per non parlare della situazione in cui versano stabilimenti quali l’Ilva, in cui gli impiegati, mal retribuiti, operano in situazioni di sicurezza precaria e coperture assicurative minime, in balia di rovinose strutture e apparati industriali risalenti agli anni ’70 e mai messi a norma.
L’esplosione del caporalato e dello sfruttamento, la schiavitù dell’eterna precarietà e flessibilità e il totale (oramai legalizzato) svilimento dei diritti dei lavoratori sono i sintomi evidenti della neo-restaurazione di un potere oligarchico, molto simile a quello dell’alta borghesia industriale o i padronati latifondisti di fine ‘800, ma molto più evoluto e celato dietro organismi finanziari dalle logiche apparentemente razionali quale la stessa Unione Europea. L’Italia, fra tutti i paesi del continente, è quello che più si è inchinato e asservito dinanzi al liberismo capitalista e alla sua opera di impoverimento collettivo, cedendo a qualsiasi diktat europeo per merito dell’attuale presidente Renzi, fregiato, tra l’altro, dell’appellativo di “scolaretto”. Non è finita qui, dal momento che, nonostante tutti i danni subiti, il paese ha offerto il proprio fondoschiena politico ed economico per ospitare una manifestazione come l’Expo, della quale fruiranno esclusivamente gli organizzatori o la partnership imprenditoriale, non la gente comune. Non è questione di ideologismi di sinistra o nazionalismi, come tanta stampa liberale vuol bollare queste dure critiche, bensì è un invito alla rivendicazione dei diritti e delle risorse di pura ed esclusiva appartenenza popolare.
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