Recentemente sono apparsi due contributi che analizzano il
problema della mancata crescita dell’Italia e il peso-ruolo degli
investimenti, associata alla bassa produttività del lavoro, di
Alberto Quadrio Curzio sul Sole 24 ore (4 ottobre 2015) e di
Innocenzo Cipolletta in Lavoce.info (2 ottobre 2015). Sono
contributi che possono aiutare la discussione generale perché
trattano del nocciolo duro della crisi nella crisi che attraversa il
nostro Paese.
Quadrio Curzio solleva una questione che interessa l’Europa nel suo insieme: ottobre sarà un mese importante per verificare se vi sarà almeno un cambio di tonalità per una politica degli investimenti in Europa, cioè se il rigore formale del Fiscal Compact potrà mai cedere il passo alla prospettiva dell’Investiment Compact, cosa di cui noi dubitiamo.
A questo proposito sono enucleate le cosiddette flessibilità introdotte in gennaio 2015 dell’UE.
Innocenzo Cipolletta introduce domande circa la dinamicità (produttività) del sistema produttivo e la qualità del lavoro. Cipolletta giunge a riconoscere che le riforme del marcato del lavoro – da Treu in poi – hanno creato lavoro a margine, in attività a basso valore aggiunto e bassa produttività.
L’aspetto originale, non certo per chi scrive, è l’utilizzo di alcune informazioni statistiche che aiutano la comprensione del posizionamento internazionale dell’Italia. Tra l’altro, nessuno dei due interlocutori utilizza come indicatore di crisi dell’Italia il costo del lavoro e, in particolare, il peso del cuneo fiscale. Un punto tutt’altro che banale vista la discussione che il Parlamento e il governo devono affrontare con la Legge di Stabilità, e le continue e reiterate sollecitazioni sulla necessità di ridurre le tasse per favorire la crescita.
Il richiamo di Quadrio Curzio per una mutata politica europea è, sottotraccia, abbastanza chiaro. L’Europa deve decidere se avere più paura del debito pubblico o della crescita. La sollecitazione a investire meglio e di più, viste le recenti tendenze, e preoccuparsi meno delle esigenze contabili sarebbe un buon punto di partenza. Molto discutibile rimane il riferimento al piano Juncker che moltiplica, per chi ci crede, a 315 mld i 21 mld disponibili per investimenti, quando la caduta degli investimenti in rapporto al PIL da conto meglio di altri indicatori dello «stato di malattia» di un Paese e, più in generale, di un’area economica integrata.
Cipolletta solleva il tema della produttività con una domanda che vale una politica economica: Di cosa parliamo quando parliamo di produttività? (il punto interrogativo è nostro). La variazione percentuale del PIL per addetto dell’Italia è maledettamente più bassa rispetto a quella dei paesi presi a riferimento – Germania, Francia, area Euro –, con il «paradosso» di un prodotto per addetto dell’Italia più alto della Germania, rispettivamente 72.500 e 71.400 nel 2013.
Ma questo è un effetto ottico. Infatti, il tasso di occupazione dell’Italia è così contenuto da modificare il peso specifico di questo indicatore. Diversamente, sarebbe inspiegabile il basso valore del PIL pro-capite dell’Italia (25.500) rispetto a Germania, Francia e area Euro, rispettivamente pari a 34.400, 32.100 e 29.500.
Gli investimenti concorrono alla crescita, ma non tutti gli investimenti hanno lo stesso impatto. Infatti, prima della crisi del 2007, il sistema produttivo nazionale non ha investito meno della media europea, ma ciò non ha prodotto una crescita del PIL uguale a quella dei paesi presi a riferimento. Infatti, tanto più il paese investiva, tanto più il gap di crescita dell’Italia aumentava. Quindi, la storia nazionale degli investimenti dovrebbe essere letta nel suo insieme e non solo durante la recente crisi.
Rimane peraltro vero il crollo degli investimenti intervenuto nel periodo successivo, maggiore di quello di altri paesi, ma la possibilità di conseguire una crescita del PIL uguale a quella della media europea attraverso dei nuovi investimenti è tutta da dimostrare. Inoltre, la caduta della domanda causata dalle scellerate politiche d’austerità europee, hanno concorso alla contrazione-ricomposizione degli investimenti. Se la domanda latita, perché una impresa dovrebbe realizzare nuovi investimenti, quando già investiva male prima?
Nel frattempo la composizione quali-quantitativa della domanda e degli investimenti è cambiata in profondità. Primo, la componente investimenti della domanda ha oggi una intensità tecnologica molto più alta degli anni pre-crisi, così come la componente domanda di consumo. Non basta investire di più per crescere e aumentare la produttività, occorre che gli investimenti siano coerenti con il cambio di paradigma produttivo intervenuto.
Il punto su cui Quadrio Curzio e Cipolletta sorvolano è il tipo di investimenti necessari per aumentare la produttività e, quindi, la crescita economica.
L’impresa italiana ha sempre incorporato ricerca e sviluppo, proveniente da altri Paesi, negli investimenti. Sostanzialmente non ha mai guidato il cambiamento tecnologico, subendolo ogni volta che si presentava nel consesso internazionale: adozione ed imitazione, più che invenzione, Anche per questa ragione la produttività dell’Italia è così bassa. Per non parlare del lavoro, ambito nel quale quanto a qualità dello stesso e pratiche innovative nell’organizzazione non abbiamo né adottato né imitato, men che meno inventato.
Rimane la «questione» sollevata che per noi è un trinomio: crescita, produttività, innovazione. Un inedito che potrebbe diventare anche una discussione quasi seria delle politiche economiche che possiamo (dobbiamo) intraprendere, sapendo bene che le politiche europee non sono ininfluenti, che siano quelle giuste, rare, o quelle sbagliate che vanno purtroppo per la maggiore.
Quadrio Curzio solleva una questione che interessa l’Europa nel suo insieme: ottobre sarà un mese importante per verificare se vi sarà almeno un cambio di tonalità per una politica degli investimenti in Europa, cioè se il rigore formale del Fiscal Compact potrà mai cedere il passo alla prospettiva dell’Investiment Compact, cosa di cui noi dubitiamo.
A questo proposito sono enucleate le cosiddette flessibilità introdotte in gennaio 2015 dell’UE.
Innocenzo Cipolletta introduce domande circa la dinamicità (produttività) del sistema produttivo e la qualità del lavoro. Cipolletta giunge a riconoscere che le riforme del marcato del lavoro – da Treu in poi – hanno creato lavoro a margine, in attività a basso valore aggiunto e bassa produttività.
L’aspetto originale, non certo per chi scrive, è l’utilizzo di alcune informazioni statistiche che aiutano la comprensione del posizionamento internazionale dell’Italia. Tra l’altro, nessuno dei due interlocutori utilizza come indicatore di crisi dell’Italia il costo del lavoro e, in particolare, il peso del cuneo fiscale. Un punto tutt’altro che banale vista la discussione che il Parlamento e il governo devono affrontare con la Legge di Stabilità, e le continue e reiterate sollecitazioni sulla necessità di ridurre le tasse per favorire la crescita.
Il richiamo di Quadrio Curzio per una mutata politica europea è, sottotraccia, abbastanza chiaro. L’Europa deve decidere se avere più paura del debito pubblico o della crescita. La sollecitazione a investire meglio e di più, viste le recenti tendenze, e preoccuparsi meno delle esigenze contabili sarebbe un buon punto di partenza. Molto discutibile rimane il riferimento al piano Juncker che moltiplica, per chi ci crede, a 315 mld i 21 mld disponibili per investimenti, quando la caduta degli investimenti in rapporto al PIL da conto meglio di altri indicatori dello «stato di malattia» di un Paese e, più in generale, di un’area economica integrata.
Cipolletta solleva il tema della produttività con una domanda che vale una politica economica: Di cosa parliamo quando parliamo di produttività? (il punto interrogativo è nostro). La variazione percentuale del PIL per addetto dell’Italia è maledettamente più bassa rispetto a quella dei paesi presi a riferimento – Germania, Francia, area Euro –, con il «paradosso» di un prodotto per addetto dell’Italia più alto della Germania, rispettivamente 72.500 e 71.400 nel 2013.
Ma questo è un effetto ottico. Infatti, il tasso di occupazione dell’Italia è così contenuto da modificare il peso specifico di questo indicatore. Diversamente, sarebbe inspiegabile il basso valore del PIL pro-capite dell’Italia (25.500) rispetto a Germania, Francia e area Euro, rispettivamente pari a 34.400, 32.100 e 29.500.
Gli investimenti concorrono alla crescita, ma non tutti gli investimenti hanno lo stesso impatto. Infatti, prima della crisi del 2007, il sistema produttivo nazionale non ha investito meno della media europea, ma ciò non ha prodotto una crescita del PIL uguale a quella dei paesi presi a riferimento. Infatti, tanto più il paese investiva, tanto più il gap di crescita dell’Italia aumentava. Quindi, la storia nazionale degli investimenti dovrebbe essere letta nel suo insieme e non solo durante la recente crisi.
Rimane peraltro vero il crollo degli investimenti intervenuto nel periodo successivo, maggiore di quello di altri paesi, ma la possibilità di conseguire una crescita del PIL uguale a quella della media europea attraverso dei nuovi investimenti è tutta da dimostrare. Inoltre, la caduta della domanda causata dalle scellerate politiche d’austerità europee, hanno concorso alla contrazione-ricomposizione degli investimenti. Se la domanda latita, perché una impresa dovrebbe realizzare nuovi investimenti, quando già investiva male prima?
Nel frattempo la composizione quali-quantitativa della domanda e degli investimenti è cambiata in profondità. Primo, la componente investimenti della domanda ha oggi una intensità tecnologica molto più alta degli anni pre-crisi, così come la componente domanda di consumo. Non basta investire di più per crescere e aumentare la produttività, occorre che gli investimenti siano coerenti con il cambio di paradigma produttivo intervenuto.
Il punto su cui Quadrio Curzio e Cipolletta sorvolano è il tipo di investimenti necessari per aumentare la produttività e, quindi, la crescita economica.
L’impresa italiana ha sempre incorporato ricerca e sviluppo, proveniente da altri Paesi, negli investimenti. Sostanzialmente non ha mai guidato il cambiamento tecnologico, subendolo ogni volta che si presentava nel consesso internazionale: adozione ed imitazione, più che invenzione, Anche per questa ragione la produttività dell’Italia è così bassa. Per non parlare del lavoro, ambito nel quale quanto a qualità dello stesso e pratiche innovative nell’organizzazione non abbiamo né adottato né imitato, men che meno inventato.
Rimane la «questione» sollevata che per noi è un trinomio: crescita, produttività, innovazione. Un inedito che potrebbe diventare anche una discussione quasi seria delle politiche economiche che possiamo (dobbiamo) intraprendere, sapendo bene che le politiche europee non sono ininfluenti, che siano quelle giuste, rare, o quelle sbagliate che vanno purtroppo per la maggiore.
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