martedì 10 novembre 2015

Il capitalismo delle diseguaglianze e del debito

Due "fatti stilizzati" sono propri del capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze distributive e l'esplosione del debito pubblico su scala globale[1]. Si tratta di fenomeni correlati, nel senso che, come si proverà a mostrare, è proprio la diseguaglianza a generare crescente indebitamento pubblico e, in più, è il crescente indebitamento pubblico a generare, attraverso misure di redistribuzione del carico fiscale, crescenti diseguaglianze distributive.
Sul piano empirico, l'OCSE rileva un significativo aumento dell'indice di Gini in tutti i Paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni, in particolare a partire dal 2007. Al tempo stesso, come mostrato nell'immagine sottostante, si registra un continuo aumento del debito pubblico su scala globale.
L'aumento delle diseguaglianze distributive riduce il tasso di crescita fondamentalmente attraverso due canali, che operano rispettivamente sulla domanda aggregata e dal lato dell'offerta.
a) Dal lato della domanda. La riduzione della quota dei salari sul Pil determina una caduta dei consumi e, a parità di investimenti pubblici e privati, della domanda aggregata e del tasso di crescita. L'effetto è amplificato dal fatto che, di norma, le famiglie con più basso reddito esprimono una propensione al consumo maggiore di quelle con redditi più elevati. Vi è poi un nesso fra dinamica dei consumi e dinamica degli investimenti, dal momento che la compressione dei consumi, derivante dalla riduzione dei salari, tende a disincentivare gli investimenti privati, con effetti, anche in questo caso, di segno negativo sulla domanda aggregata.
b) Dal lato dell'offerta. La riduzione dei salari (e del costo di tutela dei diritti dei lavoratori da parte delle imprese) pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l'introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività[3]. I seguenti ulteriori meccanismi amplificano questa dinamica.
Primo: la riduzione della domanda interna (imputabile, in primis, alla caduta dei salari e, dunque, dei consumi), in quanto riduce i mercati di sbocco, riduce i profitti monetari, a danno innanzitutto delle imprese che operano sul mercato interno[4], con conseguente compressione degli investimenti e del tasso di crescita della produttività del lavoro.
Secondo: la riduzione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e ne accresce il grado di dipendenza dal settore bancario. La compressione dei margini di profitto, in quanto accresce il rischio di insolvenza, induce le banche a ridurre l'offerta di credito generando, anche per questa via, riduzione degli investimenti e della produttività.
Con ogni evidenza, la moderazione salariale in atto, mentre può generare crescita attraverso un aumento delle esportazioni per un singolo Paese, non può generare questo effetto su scala globale, essendo il commercio internazionale un gioco a somma zero[5].
Sono due i principali canali attraverso i quali la crescita delle diseguaglianze contribuisce a generare incrementi del debito:
i) in quanto la crescita delle diseguaglianze è anche associata ad aumenti del tasso di disoccupazione, ciò genera un aumento della spesa pubblica per i c.d. stabilizzatori automatici (in primis, i sussidi di disoccupazione)
ii) la crescita delle diseguaglianze è associata a un aumento del potere politico del capitale con conseguente riduzione dell'imposizione fiscale sui profitti[6].
Dunque, maggiori diseguaglianze distributive tendono ad associarsi a maggiori spese di 'legittimazione' del sistema (ovvero spese finalizzate a preservare la coesione sociale) e a minori entrate fiscali derivanti dal pagamento delle imposte da parte di famiglie con redditi elevati. E da ciò segue che la crescita delle diseguaglianze distributive, riducendo il tasso di crescita, contribuisce ad accrescere l'indebitamento pubblico[7].
Le misure di politica economica adottate per ridurre il debito (le c.d. politiche di austerità), in particolare nell'Unione Monetaria Europea, non hanno prodotto e non producono altri effetti se non generare esiti esattamente opposti a quello desiderati e soprattutto peggiorano ulteriormente la distribuzione del reddito, soprattutto nei Paesi periferici dell'Eurozona, per le seguenti ragioni:
1) La riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta un aumento dell'onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell'onere degli interessi.
2) La riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda interna, contribuisce ad accrescere il tasso di disoccupazione, a ridurre conseguentemente il tasso di crescita e ad accrescere il rapporto debito pubblico/Pil.
Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, a ragione del fatto alquanto ovvio che una forza-lavoro poco istruita e con difficile accesso a cure sanitarie è potenzialmente poco produttiva. E anche per questa via, minore spesa può implicare più debito[8].
A ragione di questi meccanismi, le politiche di austerità hanno di fatto contribuito a far aumentare il rapporto debito pubblico/Pil, rendendo necessario l'aumento della pressione fiscale.
Nell'impossibilità di "monetizzare" il debito, l'accresciuto onere del debito richiede incrementi di tassazione. La monetizzazione del debito, resa impossibile dai Trattati europei, consiste nell'acquisto diretto da parte della Banca Centrale di titoli di Stato, ovvero nello "stampare moneta". Occorre chiarire che la ripartizione dell'onere fiscale, così come la distribuzione dei tagli di spesa, risente del potere contrattuale dei lavoratori e delle imprese nella sfera politica e, in tal senso, non risponde a criteri di efficienza di sistema.
In una condizione di elevata disoccupazione, è dunque lecito aspettarsi che il maggior peso della tassazione (e dei minori trasferimenti pubblici) venga fatto gravare sul lavoro, accreditando la tesi di Marx secondo la quale "la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell'alta finanza [è] l'indebitamento continuamente crescente dello stato".
In altri termini, una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro genera una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nell'arena politica e, dunque, la loro sostanziale impossibilità di modificare a loro vantaggio le scelte di politica economica[9].
In questo scenario, le diseguaglianze distributive tendono ad autoalimentarsi. Le misure di austerità, da un lato, accrescono il tasso di disoccupazione e, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori, riducono la quota dei salari sul Pil; l'aumento del debito pubblico che ne consegue si traduce nella necessità di reperire risorse tramite tassazione, prevalentemente a danno del lavoro dipendente.
Da cui una seconda conclusione: le politiche finalizzate a ridurre il debito (in quanto si associano a un aumento della tassazione sui redditi più bassi e, dunque, a maggiore diseguaglianza distributiva) determinano un trasferimento netto di ricchezza alla rendita finanziaria.
Come scriveva Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte:
"L'indebitamento dello stato è l'interesse diretto dell'aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all'aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, mantenuto artificialmente sull'orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli".

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