L’ultimo studio dell’Eurostat sulla mobilità del lavoro
in Europa lancia l’allarme: nonostante la fame generata dalla crisi e
le umiliazioni inflitte da disoccupazione e precarietà, i senza lavoro
italiani sono restii ad abbandonare il loro Paese per trovare
un’occupazione all’estero. Solo 7 disoccupati su 100 si dicono
disponibili a lasciare l’Italia per cercare lavoro in un altro paese
europeo. Il dato preoccupa le istituzioni comunitarie per un motivo
preciso: l’Europa che hanno in mente è un enorme mercato, ed il lavoro
deve comportarsi come tutte le altre merci, spostandosi lì dove ne
emerge il bisogno. Se il disoccupato resta nel suo Paese quel meccanismo
si inceppa: i suoi affetti, la sua cultura, il suo radicamento sociale,
le sue scelte di vita sono ostacoli al libero dispiegarsi delle forze
di mercato, un sintomo – gravissimo – di inefficienza del sistema. Le
merci, è noto, seguono una sola regola: vanno dove il prezzo è più alto,
e secondo le istituzioni europee quella stessa regola dovrebbe
governare anche la vita della popolazione europea, forza lavoro
destinata a spostarsi da un Paese all’altro a seconda delle oscillazioni
del mercato. Un disoccupato non sarebbe altro che una merce abbandonata
in magazzino, destinata a spostarsi ovunque possa trovare un mercato di
sbocco. Pertanto, questo il messaggio implicito nei dati pubblicati
dall’Eurostat, i disoccupati italiani devono imparare a rispettare la
ferrea legge del mercato, sradicandosi dal proprio Paese alla ricerca di
un’occupazione in giro per il continente. In questo modo, essi
contribuirebbero a realizzare quella “trinità perfetta” di diverse
libertà di movimento che sono alla base del progetto europeo: quella
delle merci, quella dei capitali e quella delle persone.
Proveremo ad argomentare che questo ideale europeo di mobilità del lavoro, poggia su una premessa assolutamente discutibile e prefigura uno spregiudicato disegno politico: si presume – come fosse un fatto di natura e non un’opinabile scelta politica – un preciso modello di sviluppo fondato su una persistente disoccupazione di massa, e si progetta uno stato permanente di guerra tra poveri, con i disoccupati di tutta Europa indotti a trasferirsi nelle regioni economicamente più sviluppate in modo da fare concorrenza agli occupati e contenere, in questo modo, il costo del lavoro per le imprese. Al di là della retorica sull’Europa come terra senza confini e sulle “infinite” possibilità che si aprono ai giovani disposti a viaggiare (retorica sublimata nell’esaltazione della cosiddetta “generazione Erasmus”), quello della mobilità dei lavoratori non è altro che un meccanismo di difesa dei profitti. Perché questo quadro emerga in tutta la sua chiarezza, occorre fare un passo indietro ed illustrare alcune nozioni economiche utili a smascherare l’operazione politica che si cela dietro alle fredde statistiche dell’Eurostat.
In economia si usa distinguere essenzialmente tra due tipologie di disoccupazione, quella involontaria e quella frizionale. La disoccupazione involontaria è quella che tutti abbiamo in mente, e rappresenta la disoccupazione di chi cerca un lavoro, ma non riesce a trovarlo, pur essendo disposto ad accettare il salario vigente sul mercato. Se invece un individuo si ritrova disoccupato per il tempo appena necessario a passare da un’occupazione ad un’altra (magari ha cambiato città di residenza, o ha scelto lui stesso di abbandonare il vecchio lavoro per uno nuovo), dunque solo temporaneamente, allora si imputa quella particolare forma di disoccupazione alle frizioni del mercato del lavoro, ovvero ad un fisiologico ritardo nella determinazione dell’equilibrio tra domanda e offerta: ci vuole del tempo – ricerca, colloqui, periodi di prova – perché il lavoratore trovi la sua giusta collocazione sul mercato del lavoro, così come ci vuole del tempo perché un consumatore scelga, sullo scaffale del supermercato, il particolare modello di prodotto che più lo aggrada.
Questa distinzione riveste una fondamentale importanza per l’interpretazione dei fenomeni economici, perché la disoccupazione involontaria può essere combattuta mentre quella frizionale deve essere accettata come una caratteristica strutturale, e dunque ineliminabile, del sistema. La disoccupazione involontaria è il frutto dell’assenza di domanda di beni e servizi: se non ci sono sufficienti consumi, investimenti e spesa pubblica, non ci sarà un livello di produzione tale da occupare tutta la popolazione che vorrebbe lavorare. Questo tipo di disoccupazione può essere combattuto stimolando consumi ed investimenti, attraverso una redistribuzione delle risorse dai profitti ai salari (perché i lavoratori hanno una maggiore propensione al consumo dei capitalisti), l’aumento della spesa pubblica e la riduzione delle tasse (senza contestuali riduzioni della spesa pubblica). La disoccupazione frizionale è invece il frutto delle imperfezioni del mercato, e costituisce quindi una forma di disoccupazione che si può pensare di limare ma non di eliminare: vi sarà sempre bisogno di un certo lasso di tempo per far incontrare un lavoratore dotato di particolari qualifiche con un’azienda in cerca di quelle specifiche caratteristiche in quel dato momento e in quel preciso luogo. Non a caso, la teoria economica dominante parla a tal proposito di disoccupazione ‘naturale’, come se non si trattasse di un fenomeno storico-sociale ma di un inevitabile dato di natura.
La distinzione appena illustrata tra disoccupazione involontaria e frizionale serve a chiarire meglio il punto di vista delle istituzioni europee: l’idea che i disoccupati italiani debbano trasferirsi in altri paesi europei per trovare lavoro presuppone che in quei paesi vi sia tutto il lavoro che non c’è in Italia, ovvero presuppone che tutta la disoccupazione europea sia mera disoccupazione frizionale. Quei 19 milioni di disoccupati registrati alla fine del 2017 nell’Unione Europea si troverebbero semplicemente nel paese sbagliato al momento sbagliato: basterebbe fare le valigie ed espatriare per trovare nel mercato unico del lavoro europeo infinite opportunità di lavoro. Proviamo ad immaginare il viaggio dei 2,9 milioni di disoccupati italiani in giro per l’Europa in cerca di fortuna. Più che un lavoro, troverebbero la stessa disperazione da cui fuggono in tanti altri disoccupati come loro: 3,9 milioni di disoccupati in Spagna, 2,8 milioni di disoccupati in Francia, 1,6 milioni di disoccupati in Germania e così via, in un tragico tour che ben descrive l’ideale europeo di mobilità del lavoro. Perché la favola del disoccupato errante abbia un lieto fine, è bene sottolinearlo, ci sarebbe bisogno di un’impresa che lo stia aspettando con un lavoro da qualche altra parte d’Europa. Ma è davvero curioso che quella impresa debba aspettare proprio lui: un’impresa spagnola avrebbe 3,9 milioni di pretendenti nel suo territorio, una francese 2,8 milioni, una tedesca 1,6 milioni. Possibile che, tra tutti questi milioni di disoccupati, nessuno abbia le caratteristiche giuste per occupare quel posto di lavoro, e che dunque vi sia bisogno di maggiore mobilità dei disoccupati europei per far incontrare domanda e offerta di lavoro? Possibile, in altre parole, che tutta la disoccupazione europea – oggi 19 milioni di persone in cerca di lavoro – sia un banale problema di corretta allocazione delle ‘risorse umane’?
Si tratta, è del tutto evidente, di una visione delirante del funzionamento dell’economia che non ha alcun appiglio nella realtà, ma che viene ostinatamente sostenuta solo per nascondere la vera – inconfessabile – funzione svolta dalla mobilità del lavoro all’interno del modello di sviluppo europeo: il motore di una guerra tra poveri che è la migliore difesa dei profitti costruita sulla disperazione della disoccupazione.
L’Europa del pareggio di bilancio è disegnata in modo tale da rendere strutturalmente impossibile il perseguimento della piena occupazione: rinunciando per legge alla spesa pubblica in disavanzo e allo strumento del debito pubblico, si rinuncia agli strumenti storicamente usati per combattere la disoccupazione. Nel progetto europeo la disoccupazione è la norma, mentre l’opportunità di garantire la piena occupazione sparisce dall’orizzonte programmatico di qualsiasi governo: per questo l’Europa non si pone neppure il problema di come creare lavoro in Italia, ma si pone invece il problema di come spostare i disoccupati italiani fuori dal loro Paese. Si ritiene che il disoccupato debba partire, dando per scontato che lo Stato non si preoccuperà mai di creare il lavoro lì dove non c’è, non agirà mai per combattere povertà e sottosviluppo.
Ma l’enfasi posta sulla mobilità del lavoro dalle istituzioni europee ci dice qualcosa di più. Nel disegno europeo i disoccupati dovrebbero spostarsi verso le aree maggiormente sviluppate: i disperati devono sportarsi lì dove non c’è abbastanza disperazione, non certo per risollevarsi, dato che nessun paese persegue la piena occupazione in Europa, ma al contrario per frenare le dinamiche salariali e la diffusione dello sviluppo economico. Infatti le masse di disoccupati in movimento – che l’Eurostat vorrebbe vedere ma ancora non registra – agirebbero come una forza che spinge al ribasso i salari nelle aree più sviluppate, dove quei disoccupati fanno concorrenza agli occupati da una condizione di svantaggio: perché senza lavoro, perché stranieri, perché sradicati, perché ultimi. L’ideale europeo di mobilità del lavoro calza perfettamente con la categoria analitica inventata da Marx di “esercito industriale di riserva”: una massa di disperati lasciata fuori dalle fabbriche, oggi da ciascun paese europeo, per ricattare chi lavora con la minaccia del licenziamento. Questo esercito è l’arma principale in mano alla classe dominante per disciplinare i lavoratori, ma è un’arma che si inceppa se quella massa di disperati non si sposta rapidamente lì dove il capitale ne ha bisogno, lì dove i salari crescono di più, lì dove i lavoratori alzano la testa e dunque lì dove appare necessario per il profitto imporre il ricatto della disoccupazione.
Possiamo ora cogliere la natura politica del dato pubblicato dall’Eurostat: i disoccupati italiani non sono ancora pienamente arruolati nell’esercito industriale di riserva europeo. L’obiettivo delle istituzioni europee è quello di costringerli, con la povertà e la precarietà diffusa, ad abbandonare ogni radicamento e a trasferirsi verso i paesi centrali d’Europa, dove sarebbero disposti ad accettare salari e condizioni di lavoro peggiori di quelle dei lavoratori tedeschi, olandesi o francesi, contribuendo così all’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori nel cuore del capitalismo europeo – lì dove si macinano profitti. Pensare di opporsi a questo disegno combattendo la mobilità del lavoro in sé, cioè arginando i flussi migratori intraeuropei e internazionali, significa alimentare in forma diversa la stessa identica guerra tra poveri, perché i flussi migratori derivano dalla disoccupazione di massa e non si arrestano fino a che essa persiste: l’unico risultato di più stringenti vincoli all’immigrazione è il peggioramento della condizione di vita dei migranti, elemento che rafforza il ruolo dell’esercito industriale di riserva, uno strumento quest’ultimo che è tanto più efficace nell’indebolire i lavoratori quanto più disperati sono gli uomini che vi si arruolano. Peggiorare la condizioni dei migranti significa scavare un solco ancora più profondo tra loro e gli occupati a cui sono costretti a fare concorrenza: significa perfezionare anziché combattere il meccanismo che usa la disoccupazione come un’arma contro gli occupati. Il problema dei lavoratori europei non è l’immigrazione in sé, ma il contesto politico entro cui quell’immigrazione viene usata come un’arma per difendere i profitti, ed è quel contesto politico che va combattuto. Per opporsi alla guerra tra poveri fomentata dalle istituzioni europee occorre dunque rafforzare la lotta di classe, che unisce i lavoratori – immigrati e non – in difesa dei diritti e delle condizioni di tutti, e rimettere al centro della progettualità politica l’obiettivo della piena occupazione, bandito dall’architettura istituzionale dell’Unione Europea.
Proveremo ad argomentare che questo ideale europeo di mobilità del lavoro, poggia su una premessa assolutamente discutibile e prefigura uno spregiudicato disegno politico: si presume – come fosse un fatto di natura e non un’opinabile scelta politica – un preciso modello di sviluppo fondato su una persistente disoccupazione di massa, e si progetta uno stato permanente di guerra tra poveri, con i disoccupati di tutta Europa indotti a trasferirsi nelle regioni economicamente più sviluppate in modo da fare concorrenza agli occupati e contenere, in questo modo, il costo del lavoro per le imprese. Al di là della retorica sull’Europa come terra senza confini e sulle “infinite” possibilità che si aprono ai giovani disposti a viaggiare (retorica sublimata nell’esaltazione della cosiddetta “generazione Erasmus”), quello della mobilità dei lavoratori non è altro che un meccanismo di difesa dei profitti. Perché questo quadro emerga in tutta la sua chiarezza, occorre fare un passo indietro ed illustrare alcune nozioni economiche utili a smascherare l’operazione politica che si cela dietro alle fredde statistiche dell’Eurostat.
In economia si usa distinguere essenzialmente tra due tipologie di disoccupazione, quella involontaria e quella frizionale. La disoccupazione involontaria è quella che tutti abbiamo in mente, e rappresenta la disoccupazione di chi cerca un lavoro, ma non riesce a trovarlo, pur essendo disposto ad accettare il salario vigente sul mercato. Se invece un individuo si ritrova disoccupato per il tempo appena necessario a passare da un’occupazione ad un’altra (magari ha cambiato città di residenza, o ha scelto lui stesso di abbandonare il vecchio lavoro per uno nuovo), dunque solo temporaneamente, allora si imputa quella particolare forma di disoccupazione alle frizioni del mercato del lavoro, ovvero ad un fisiologico ritardo nella determinazione dell’equilibrio tra domanda e offerta: ci vuole del tempo – ricerca, colloqui, periodi di prova – perché il lavoratore trovi la sua giusta collocazione sul mercato del lavoro, così come ci vuole del tempo perché un consumatore scelga, sullo scaffale del supermercato, il particolare modello di prodotto che più lo aggrada.
Questa distinzione riveste una fondamentale importanza per l’interpretazione dei fenomeni economici, perché la disoccupazione involontaria può essere combattuta mentre quella frizionale deve essere accettata come una caratteristica strutturale, e dunque ineliminabile, del sistema. La disoccupazione involontaria è il frutto dell’assenza di domanda di beni e servizi: se non ci sono sufficienti consumi, investimenti e spesa pubblica, non ci sarà un livello di produzione tale da occupare tutta la popolazione che vorrebbe lavorare. Questo tipo di disoccupazione può essere combattuto stimolando consumi ed investimenti, attraverso una redistribuzione delle risorse dai profitti ai salari (perché i lavoratori hanno una maggiore propensione al consumo dei capitalisti), l’aumento della spesa pubblica e la riduzione delle tasse (senza contestuali riduzioni della spesa pubblica). La disoccupazione frizionale è invece il frutto delle imperfezioni del mercato, e costituisce quindi una forma di disoccupazione che si può pensare di limare ma non di eliminare: vi sarà sempre bisogno di un certo lasso di tempo per far incontrare un lavoratore dotato di particolari qualifiche con un’azienda in cerca di quelle specifiche caratteristiche in quel dato momento e in quel preciso luogo. Non a caso, la teoria economica dominante parla a tal proposito di disoccupazione ‘naturale’, come se non si trattasse di un fenomeno storico-sociale ma di un inevitabile dato di natura.
La distinzione appena illustrata tra disoccupazione involontaria e frizionale serve a chiarire meglio il punto di vista delle istituzioni europee: l’idea che i disoccupati italiani debbano trasferirsi in altri paesi europei per trovare lavoro presuppone che in quei paesi vi sia tutto il lavoro che non c’è in Italia, ovvero presuppone che tutta la disoccupazione europea sia mera disoccupazione frizionale. Quei 19 milioni di disoccupati registrati alla fine del 2017 nell’Unione Europea si troverebbero semplicemente nel paese sbagliato al momento sbagliato: basterebbe fare le valigie ed espatriare per trovare nel mercato unico del lavoro europeo infinite opportunità di lavoro. Proviamo ad immaginare il viaggio dei 2,9 milioni di disoccupati italiani in giro per l’Europa in cerca di fortuna. Più che un lavoro, troverebbero la stessa disperazione da cui fuggono in tanti altri disoccupati come loro: 3,9 milioni di disoccupati in Spagna, 2,8 milioni di disoccupati in Francia, 1,6 milioni di disoccupati in Germania e così via, in un tragico tour che ben descrive l’ideale europeo di mobilità del lavoro. Perché la favola del disoccupato errante abbia un lieto fine, è bene sottolinearlo, ci sarebbe bisogno di un’impresa che lo stia aspettando con un lavoro da qualche altra parte d’Europa. Ma è davvero curioso che quella impresa debba aspettare proprio lui: un’impresa spagnola avrebbe 3,9 milioni di pretendenti nel suo territorio, una francese 2,8 milioni, una tedesca 1,6 milioni. Possibile che, tra tutti questi milioni di disoccupati, nessuno abbia le caratteristiche giuste per occupare quel posto di lavoro, e che dunque vi sia bisogno di maggiore mobilità dei disoccupati europei per far incontrare domanda e offerta di lavoro? Possibile, in altre parole, che tutta la disoccupazione europea – oggi 19 milioni di persone in cerca di lavoro – sia un banale problema di corretta allocazione delle ‘risorse umane’?
Si tratta, è del tutto evidente, di una visione delirante del funzionamento dell’economia che non ha alcun appiglio nella realtà, ma che viene ostinatamente sostenuta solo per nascondere la vera – inconfessabile – funzione svolta dalla mobilità del lavoro all’interno del modello di sviluppo europeo: il motore di una guerra tra poveri che è la migliore difesa dei profitti costruita sulla disperazione della disoccupazione.
L’Europa del pareggio di bilancio è disegnata in modo tale da rendere strutturalmente impossibile il perseguimento della piena occupazione: rinunciando per legge alla spesa pubblica in disavanzo e allo strumento del debito pubblico, si rinuncia agli strumenti storicamente usati per combattere la disoccupazione. Nel progetto europeo la disoccupazione è la norma, mentre l’opportunità di garantire la piena occupazione sparisce dall’orizzonte programmatico di qualsiasi governo: per questo l’Europa non si pone neppure il problema di come creare lavoro in Italia, ma si pone invece il problema di come spostare i disoccupati italiani fuori dal loro Paese. Si ritiene che il disoccupato debba partire, dando per scontato che lo Stato non si preoccuperà mai di creare il lavoro lì dove non c’è, non agirà mai per combattere povertà e sottosviluppo.
Ma l’enfasi posta sulla mobilità del lavoro dalle istituzioni europee ci dice qualcosa di più. Nel disegno europeo i disoccupati dovrebbero spostarsi verso le aree maggiormente sviluppate: i disperati devono sportarsi lì dove non c’è abbastanza disperazione, non certo per risollevarsi, dato che nessun paese persegue la piena occupazione in Europa, ma al contrario per frenare le dinamiche salariali e la diffusione dello sviluppo economico. Infatti le masse di disoccupati in movimento – che l’Eurostat vorrebbe vedere ma ancora non registra – agirebbero come una forza che spinge al ribasso i salari nelle aree più sviluppate, dove quei disoccupati fanno concorrenza agli occupati da una condizione di svantaggio: perché senza lavoro, perché stranieri, perché sradicati, perché ultimi. L’ideale europeo di mobilità del lavoro calza perfettamente con la categoria analitica inventata da Marx di “esercito industriale di riserva”: una massa di disperati lasciata fuori dalle fabbriche, oggi da ciascun paese europeo, per ricattare chi lavora con la minaccia del licenziamento. Questo esercito è l’arma principale in mano alla classe dominante per disciplinare i lavoratori, ma è un’arma che si inceppa se quella massa di disperati non si sposta rapidamente lì dove il capitale ne ha bisogno, lì dove i salari crescono di più, lì dove i lavoratori alzano la testa e dunque lì dove appare necessario per il profitto imporre il ricatto della disoccupazione.
Possiamo ora cogliere la natura politica del dato pubblicato dall’Eurostat: i disoccupati italiani non sono ancora pienamente arruolati nell’esercito industriale di riserva europeo. L’obiettivo delle istituzioni europee è quello di costringerli, con la povertà e la precarietà diffusa, ad abbandonare ogni radicamento e a trasferirsi verso i paesi centrali d’Europa, dove sarebbero disposti ad accettare salari e condizioni di lavoro peggiori di quelle dei lavoratori tedeschi, olandesi o francesi, contribuendo così all’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori nel cuore del capitalismo europeo – lì dove si macinano profitti. Pensare di opporsi a questo disegno combattendo la mobilità del lavoro in sé, cioè arginando i flussi migratori intraeuropei e internazionali, significa alimentare in forma diversa la stessa identica guerra tra poveri, perché i flussi migratori derivano dalla disoccupazione di massa e non si arrestano fino a che essa persiste: l’unico risultato di più stringenti vincoli all’immigrazione è il peggioramento della condizione di vita dei migranti, elemento che rafforza il ruolo dell’esercito industriale di riserva, uno strumento quest’ultimo che è tanto più efficace nell’indebolire i lavoratori quanto più disperati sono gli uomini che vi si arruolano. Peggiorare la condizioni dei migranti significa scavare un solco ancora più profondo tra loro e gli occupati a cui sono costretti a fare concorrenza: significa perfezionare anziché combattere il meccanismo che usa la disoccupazione come un’arma contro gli occupati. Il problema dei lavoratori europei non è l’immigrazione in sé, ma il contesto politico entro cui quell’immigrazione viene usata come un’arma per difendere i profitti, ed è quel contesto politico che va combattuto. Per opporsi alla guerra tra poveri fomentata dalle istituzioni europee occorre dunque rafforzare la lotta di classe, che unisce i lavoratori – immigrati e non – in difesa dei diritti e delle condizioni di tutti, e rimettere al centro della progettualità politica l’obiettivo della piena occupazione, bandito dall’architettura istituzionale dell’Unione Europea.
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