Se l’euro non fosse stato adottato, la crisi sarebbe da tempo alle
nostre spalle. Lo sostiene l’insigne economista danese Lars Christensen,
che sostiene che la crisi greca non riguarda la Grecia, ma è il sintomo
di un problema più grande, cioè l’euro stesso. Se non fosse stato per
la moneta della Bce, «non saremmo stati obbligati ad affrontare massicci
salvataggi di Stati, non ci saremmo trovati con sette anni di
recessione nell’Eurozona e la disoccupazione sarebbe stata molto più
bassa». Tutto questo sarebbe avvenuto «se in Europa avessimo avuto un
tasso di cambio flessibile invece di quello che potremmo chiamare il
Meccanismo di Strangolamento Monetario (Mms)». Fortunatamente, non tutti
i paesi europei sono entrati nell’euro: «L’andamento economico dei
paesi che non sono entrati potrebbe darci qualche suggerimento su come
le cose avrebbero potuto andare se l’euro non fosse mai stato
introdotto». Per questo, Christensen ha esaminato i risultati della
crescita nei paesi dell’area euro e in quelli che in Europa hanno avuto
tassi di cambio flessibili (o quasi flessibili), per mettere a confronto
paesi “agganciati” con paesi “flessibili”. Inutile dire che la
differenza è impressionante: chi è fuori dall’euro se la cava, gli altri
hanno un Pil inferiore a quello che avevano nel 2007.
Nel campione, Christensen ha incluso gli Stati dell’Eurozona con tassi di cambio fissi nei confronti dell’euro (Bulgaria e Danimarca) e i paesi Ue con tassi di cambio variabile (Regno Unito, Svezia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania). Lars ChristensenInoltre, ha incluso la Svizzera e allo stesso modo i paesi dell’Area economica europea (Eea), cioè Norvegia e Islanda (tutti con tassi di cambio flessibile). Infine, ha incluso la Turchia, che confina con la Grecia, e che ha anche lei un tasso di cambio flessibile. In tutto, spiega Christensen in un’analisi su “The Market Monetarist” ripresa da “Voci dall’Estero”, sono 31 paesi europei, tutti molto diversi tra loro. Alcuni hanno un sistema politico poco funzionale e lottano con la corruzione (per esempio Romania o Turchia), mentre altri normalmente sono considerati economie relativamente efficienti, con un mercato del lavoro e un mercato interno che funzionano bene, conti con l’estero in attivo e finanze pubbliche solide, come Danimarca, Finlandia e Olanda. Il risultato lascia sgomenti: dei 21 paesi nell’euro (inclusi i due con ancoramento del cambio) quasi la metà (10) oggi ha un livello di Pil reale più basso che nel 2007, mentre tutti quelli col cambio flessibile oggi hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di 9 anni fa.
Stanno meglio perfino l’Islanda, «che ha avuto una grave crisi bancaria nel 2008», e l’Ungheria, «da sempre politicamente disfunzionale e con un debito alto». Entrambi i paesi (con tasso di cambio rimasto flessibile) sono cresciuti in misura maggiore dei paesi nell’euro e di quelli agganciati all’euro. Islanda e Ungheria, infatti, pur essendo «quelli con la crescita più lenta nel gruppo dei tassi di cambio flessibili», di fatto «sono cresciuti più di Olanda, Danimarca e Finlandia – paesi che sono sempre stati considerati un esempio di grande volontà nel realizzare le riforme, con strategie ultraprudenti, bilancia dei pagamenti salda e finanze pubbliche in piena salute». Se si osserva la media dei tassi di crescita del Pil reale tra il 2007 e il 2015, i L'Islanda contro le banche, oggi cresce“flessibili” hanno significativamente superato in crescita i paesi nell’euro di un “fattore 5”, cioè un 7.9% contro l’1.5%. «Anche se escludiamo dal campione i tre paesi flessibili cresciuti più velocemente (Turchia, Romania e Polonia) i flessibili comunque superano largamente i paesi nell’euro (6.5% contro 1.5%)».
Conclusione: si scrive euro, ma si legge “spazzatura”. «Non ci possono essere dubbi: l’importante vantaggio nella crescita dei paesi con tasso di cambio flessibile rispetto a quelli nell’euro non è una coincidenza», sottolinea l’economista danese, specializzato in dinamiche internazionali, mercati emergenti e politiche monetarie, forte anche della ventennale esperienza all’Adam Smith Institute di Londra. Secondo Christensen, «l’euro è stato un Meccanismo di Strangolamento Monetario: e se non lo avessimo avuto, la crisi in Europa sarebbe stata superata da molto tempo», come in effetti è stato per la maggior parte dei “flessibili”. «Possiamo discutere sul perché l’euro è stato una simile macchina per uccidere la crescita, ma non c’è dubbio che la crisi in Europa oggi è stata causata dall’euro in sé e non da errori di gestione nelle singole economie».Se l’euro non fosse stato adottato, la crisi sarebbe da tempo alle nostre spalle. Lo sostiene l’insigne economista danese Lars Christensen, che sostiene che la crisi greca non riguarda la Grecia, ma è il sintomo di un problema più grande, cioè l’euro stesso. Se non fosse stato per la moneta della Bce, «non saremmo stati obbligati ad affrontare massicci salvataggi di Stati, non ci saremmo trovati con sette anni di recessione nell’Eurozona e la disoccupazione sarebbe stata molto più bassa». Tutto questo sarebbe avvenuto «se in Europa avessimo avuto un tasso di cambio flessibile invece di quello che potremmo chiamare il Meccanismo di Strangolamento Monetario (Mms)». Fortunatamente, non tutti i paesi europei sono entrati nell’euro: «L’andamento economico dei paesi che non sono entrati potrebbe darci qualche suggerimento su come le cose avrebbero potuto andare se l’euro non fosse mai stato introdotto». Per questo, Christensen ha esaminato i risultati della crescita nei paesi dell’area euro e in quelli che in Europa hanno avuto tassi di cambio flessibili (o quasi flessibili), per mettere a confronto paesi “agganciati” con paesi “flessibili”. Inutile dire che la differenza è impressionante: chi è fuori dall’euro se la cava, gli altri hanno un Pil inferiore a quello che avevano nel 2007.
Nel campione, Christensen ha incluso gli Stati dell’Eurozona con tassi di cambio fissi nei confronti dell’euro (Bulgaria e Danimarca) e i paesi Ue con tassi di cambio variabile (Regno Unito, Svezia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania). Inoltre, ha incluso la Svizzera e allo stesso modo i paesi dell’Area economica europea (Eea), cioè Norvegia e Islanda (tutti con tassi di cambio flessibile). Infine, ha incluso la Turchia, che confina con la Grecia, e che ha anche lei un tasso di cambio flessibile. In tutto, spiega Christensen in un’analisi su “The Market Monetarist” ripresa da “Voci dall’Estero”, sono 31 paesi europei, tutti molto diversi tra loro. Alcuni hanno un sistema politico poco funzionale e lottano con la corruzione (per esempio Romania o Turchia), mentre altri normalmente sono considerati economie relativamente efficienti, con un mercato del lavoro e un mercato interno che funzionano bene, conti con l’estero in attivo e finanze pubbliche solide, come Danimarca, Finlandia e Olanda. Il risultato lascia sgomenti: dei 21 paesi nell’euro (inclusi i due con ancoramento del cambio) quasi la metà (10) oggi ha un livello di Pil reale più basso che nel 2007, mentre tutti quelli col cambio flessibile oggi hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di 9 anni fa.
Stanno meglio perfino l’Islanda, «che ha avuto una grave crisi bancaria nel 2008», e l’Ungheria, «da sempre politicamente disfunzionale e con un debito alto». Entrambi i paesi (con tasso di cambio rimasto flessibile) sono cresciuti in misura maggiore dei paesi nell’euro e di quelli agganciati all’euro. Islanda e Ungheria, infatti, pur essendo «quelli con la crescita più lenta nel gruppo dei tassi di cambio flessibili», di fatto «sono cresciuti più di Olanda, Danimarca e Finlandia – paesi che sono sempre stati considerati un esempio di grande volontà nel realizzare le riforme, con strategie ultraprudenti, bilancia dei pagamenti salda e finanze pubbliche in piena salute». Se si osserva la media dei tassi di crescita del Pil reale tra il 2007 e il 2015, i “flessibili” hanno significativamente superato in crescita i paesi nell’euro di un “fattore 5”, cioè un 7.9% contro l’1.5%. «Anche se escludiamo dal campione i tre paesi flessibili cresciuti più velocemente (Turchia, Romania e Polonia) i flessibili comunque superano largamente i paesi nell’euro (6.5% contro 1.5%)».
Conclusione: si scrive euro, ma si legge “spazzatura”. «Non ci possono essere dubbi: l’importante vantaggio nella crescita dei paesi con tasso di cambio flessibile rispetto a quelli nell’euro non è una coincidenza», sottolinea l’economista danese, specializzato in dinamiche internazionali, mercati emergenti e politiche monetarie, forte anche della ventennale esperienza all’Adam Smith Institute di Londra. Secondo Christensen, «l’euro è stato un Meccanismo di Strangolamento Monetario: e se non lo avessimo avuto, la crisi in Europa sarebbe stata superata da molto tempo», come in effetti è stato per la maggior parte dei “flessibili”. «Possiamo discutere sul perché l’euro è stato una simile macchina per uccidere la crescita, ma non c’è dubbio che la crisi in Europa oggi è stata causata dall’euro in sé e non da errori di gestione nelle singole economie».
Nel campione, Christensen ha incluso gli Stati dell’Eurozona con tassi di cambio fissi nei confronti dell’euro (Bulgaria e Danimarca) e i paesi Ue con tassi di cambio variabile (Regno Unito, Svezia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania). Lars ChristensenInoltre, ha incluso la Svizzera e allo stesso modo i paesi dell’Area economica europea (Eea), cioè Norvegia e Islanda (tutti con tassi di cambio flessibile). Infine, ha incluso la Turchia, che confina con la Grecia, e che ha anche lei un tasso di cambio flessibile. In tutto, spiega Christensen in un’analisi su “The Market Monetarist” ripresa da “Voci dall’Estero”, sono 31 paesi europei, tutti molto diversi tra loro. Alcuni hanno un sistema politico poco funzionale e lottano con la corruzione (per esempio Romania o Turchia), mentre altri normalmente sono considerati economie relativamente efficienti, con un mercato del lavoro e un mercato interno che funzionano bene, conti con l’estero in attivo e finanze pubbliche solide, come Danimarca, Finlandia e Olanda. Il risultato lascia sgomenti: dei 21 paesi nell’euro (inclusi i due con ancoramento del cambio) quasi la metà (10) oggi ha un livello di Pil reale più basso che nel 2007, mentre tutti quelli col cambio flessibile oggi hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di 9 anni fa.
Stanno meglio perfino l’Islanda, «che ha avuto una grave crisi bancaria nel 2008», e l’Ungheria, «da sempre politicamente disfunzionale e con un debito alto». Entrambi i paesi (con tasso di cambio rimasto flessibile) sono cresciuti in misura maggiore dei paesi nell’euro e di quelli agganciati all’euro. Islanda e Ungheria, infatti, pur essendo «quelli con la crescita più lenta nel gruppo dei tassi di cambio flessibili», di fatto «sono cresciuti più di Olanda, Danimarca e Finlandia – paesi che sono sempre stati considerati un esempio di grande volontà nel realizzare le riforme, con strategie ultraprudenti, bilancia dei pagamenti salda e finanze pubbliche in piena salute». Se si osserva la media dei tassi di crescita del Pil reale tra il 2007 e il 2015, i L'Islanda contro le banche, oggi cresce“flessibili” hanno significativamente superato in crescita i paesi nell’euro di un “fattore 5”, cioè un 7.9% contro l’1.5%. «Anche se escludiamo dal campione i tre paesi flessibili cresciuti più velocemente (Turchia, Romania e Polonia) i flessibili comunque superano largamente i paesi nell’euro (6.5% contro 1.5%)».
Conclusione: si scrive euro, ma si legge “spazzatura”. «Non ci possono essere dubbi: l’importante vantaggio nella crescita dei paesi con tasso di cambio flessibile rispetto a quelli nell’euro non è una coincidenza», sottolinea l’economista danese, specializzato in dinamiche internazionali, mercati emergenti e politiche monetarie, forte anche della ventennale esperienza all’Adam Smith Institute di Londra. Secondo Christensen, «l’euro è stato un Meccanismo di Strangolamento Monetario: e se non lo avessimo avuto, la crisi in Europa sarebbe stata superata da molto tempo», come in effetti è stato per la maggior parte dei “flessibili”. «Possiamo discutere sul perché l’euro è stato una simile macchina per uccidere la crescita, ma non c’è dubbio che la crisi in Europa oggi è stata causata dall’euro in sé e non da errori di gestione nelle singole economie».Se l’euro non fosse stato adottato, la crisi sarebbe da tempo alle nostre spalle. Lo sostiene l’insigne economista danese Lars Christensen, che sostiene che la crisi greca non riguarda la Grecia, ma è il sintomo di un problema più grande, cioè l’euro stesso. Se non fosse stato per la moneta della Bce, «non saremmo stati obbligati ad affrontare massicci salvataggi di Stati, non ci saremmo trovati con sette anni di recessione nell’Eurozona e la disoccupazione sarebbe stata molto più bassa». Tutto questo sarebbe avvenuto «se in Europa avessimo avuto un tasso di cambio flessibile invece di quello che potremmo chiamare il Meccanismo di Strangolamento Monetario (Mms)». Fortunatamente, non tutti i paesi europei sono entrati nell’euro: «L’andamento economico dei paesi che non sono entrati potrebbe darci qualche suggerimento su come le cose avrebbero potuto andare se l’euro non fosse mai stato introdotto». Per questo, Christensen ha esaminato i risultati della crescita nei paesi dell’area euro e in quelli che in Europa hanno avuto tassi di cambio flessibili (o quasi flessibili), per mettere a confronto paesi “agganciati” con paesi “flessibili”. Inutile dire che la differenza è impressionante: chi è fuori dall’euro se la cava, gli altri hanno un Pil inferiore a quello che avevano nel 2007.
Nel campione, Christensen ha incluso gli Stati dell’Eurozona con tassi di cambio fissi nei confronti dell’euro (Bulgaria e Danimarca) e i paesi Ue con tassi di cambio variabile (Regno Unito, Svezia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania). Inoltre, ha incluso la Svizzera e allo stesso modo i paesi dell’Area economica europea (Eea), cioè Norvegia e Islanda (tutti con tassi di cambio flessibile). Infine, ha incluso la Turchia, che confina con la Grecia, e che ha anche lei un tasso di cambio flessibile. In tutto, spiega Christensen in un’analisi su “The Market Monetarist” ripresa da “Voci dall’Estero”, sono 31 paesi europei, tutti molto diversi tra loro. Alcuni hanno un sistema politico poco funzionale e lottano con la corruzione (per esempio Romania o Turchia), mentre altri normalmente sono considerati economie relativamente efficienti, con un mercato del lavoro e un mercato interno che funzionano bene, conti con l’estero in attivo e finanze pubbliche solide, come Danimarca, Finlandia e Olanda. Il risultato lascia sgomenti: dei 21 paesi nell’euro (inclusi i due con ancoramento del cambio) quasi la metà (10) oggi ha un livello di Pil reale più basso che nel 2007, mentre tutti quelli col cambio flessibile oggi hanno un prodotto interno lordo maggiore di quello di 9 anni fa.
Stanno meglio perfino l’Islanda, «che ha avuto una grave crisi bancaria nel 2008», e l’Ungheria, «da sempre politicamente disfunzionale e con un debito alto». Entrambi i paesi (con tasso di cambio rimasto flessibile) sono cresciuti in misura maggiore dei paesi nell’euro e di quelli agganciati all’euro. Islanda e Ungheria, infatti, pur essendo «quelli con la crescita più lenta nel gruppo dei tassi di cambio flessibili», di fatto «sono cresciuti più di Olanda, Danimarca e Finlandia – paesi che sono sempre stati considerati un esempio di grande volontà nel realizzare le riforme, con strategie ultraprudenti, bilancia dei pagamenti salda e finanze pubbliche in piena salute». Se si osserva la media dei tassi di crescita del Pil reale tra il 2007 e il 2015, i “flessibili” hanno significativamente superato in crescita i paesi nell’euro di un “fattore 5”, cioè un 7.9% contro l’1.5%. «Anche se escludiamo dal campione i tre paesi flessibili cresciuti più velocemente (Turchia, Romania e Polonia) i flessibili comunque superano largamente i paesi nell’euro (6.5% contro 1.5%)».
Conclusione: si scrive euro, ma si legge “spazzatura”. «Non ci possono essere dubbi: l’importante vantaggio nella crescita dei paesi con tasso di cambio flessibile rispetto a quelli nell’euro non è una coincidenza», sottolinea l’economista danese, specializzato in dinamiche internazionali, mercati emergenti e politiche monetarie, forte anche della ventennale esperienza all’Adam Smith Institute di Londra. Secondo Christensen, «l’euro è stato un Meccanismo di Strangolamento Monetario: e se non lo avessimo avuto, la crisi in Europa sarebbe stata superata da molto tempo», come in effetti è stato per la maggior parte dei “flessibili”. «Possiamo discutere sul perché l’euro è stato una simile macchina per uccidere la crescita, ma non c’è dubbio che la crisi in Europa oggi è stata causata dall’euro in sé e non da errori di gestione nelle singole economie».
Nessun commento:
Posta un commento