Intervenendo agli Stati generali dei Consulenti del lavoro, Di Maio ha parlato di un nuovo boom grazie al digitale.
Le due notizie sono di ieri e dimostrano la distanza che ai vertici del governo si situa tra la realtà drammatica concretezza della situazione in atto e la fantasia improvvisatrice di chi addirittura evoca il boom economico.
Una dimostrazione lampante della difficoltà che incontra la politica italiana ormai immersa in una sorta di delirio mediatico attraverso il quale si sono sparse promesse, si è fatto lievitare un consenso fondato su di un gigantesco voto di scambio, si sono aperti conflitti a tutti i livelli che sarà difficile comporre in futuro.
Come si combina poi l’idea del boom economico con la “decrescita felice” che apparentemente stava alla base della filosofia alternativa espressa dal M5S, rimane tutto da dimostrare.
Evocare il boom economico poi non è affare da poco e quindi vale la pena rinfrescare un poco la memoria riassumendo, molto sommariamente, come si svolse la fase che tra la fine degli anni’50 e primi anni’60 del XX secolo segnò un salto negli indici di sviluppo dell’Italia mutando anche profondamente la vita quotidiana di una parte importante del Paese.
Non erano tutte rose e fiori: quest’affermazione va posta in premesse e ricordata bene; si verificarono squilibri enormi sul piano sociale e dell’uso del territorio tra le diverse parti dell’Italia e si verificarono avvenimenti di grande importanza anche sul piano politico.
Una sintetica ricostruzione della fase del “miracolo economico”
L’Italia, in passato, è stata protagonista propri nella fase di ricostruzione dalla tragedia bellica di una particolare forma di economia mista che aveva già caratterizzato il fascismo (dal quale del resto la giovane Repubblica aveva ereditato strumenti d’iniziativa e gestione economica come l’IRI e l’ENI).
Nel corso degli anni, a partire dalla seconda metà del ‘900, si verificarono veri e propri spostamenti d’asse sul piano globale al riguardo dei riferimenti relativi all’economia, alla produzione industriale, alla distribuzione del reddito, alla diffusione del welfare state e della democrazia.
In questo quadro però l’economia italiana mantenne comunque limiti strutturali sui quali vale la pena indagare anche dal punto di vista della ricostruzione storica.
Limiti strutturali che poi ebbero un peso nel corso dei tumultuosi processi innestatisi nel corso degli anni’90 del XX secolo a causa dell’esplosione di Tangentopoli e delle esigenze di riallineamento dovute alla stipula dei trattati europei (specificatamente quello di Maastricht, datato 1992) e successivamente all’ingresso nell’area della moneta unica.
Limiti già apparsi evidenti fin dalla fase della seconda ricostruzione post-bellica, preparatoria a quel “miracolo economico” che il nostro Paese visse a cavallo tra la fine degli anni’50 e i primissimi anni del decennio successivo.
Una fase, quella 58 – 63 indicata come effettivamente contraddistinta dal “miracolo economico” e coincidente con fenomeni politici di grande rilevanza sia sul piano internazionale sia sul piano interno: dal cosiddetto “disgelo” tra i due grandi blocchi militari allora esistenti sul piano planetario, all’incubazione e formazione – in Italia – della formula del centrosinistra, con l’ingresso del PSI nell’area di governo a fianco della DC.
Ricostruire quella fase, allora, può risultare un esercizio utile anche per capire alcuni fondamentali tratti della situazione attuale.
Tratti che forse sfuggono a chi pensa di poter parlare di “miracolo economico” imminente.
A partire dal 1951 i successivi dodici anni furono caratterizzati da un veloce sviluppo e da una profonda trasformazione strutturale.
Gli aspetti fondamentali di questa evoluzione furono essenzialmente questi:
a) Il forte sviluppo dell’industria manifatturiera, sviluppo che trasformò il Paese facendolo passare da un’economia prevalentemente agricola a un’economia prevalentemente industrializzata. Questo tipo di trasformazione risultò particolarmente accentuato nella zona del triangolo industriale Milano –Torino – Genova dove le novità manifatturiere arrivarono a contribuire per il 40% del PIL e per il quasi 45% al totale del prodotto del settore privato;
b) Il passaggio da una struttura chiusa agli scambi con l’estero a una struttura fortemente caratterizzata da un processo di integrazione con gli altri paesi industrializzati;
c) La conseguente trasformazione nella struttura degli insediamenti, nella direzione di una concentrazione sempre più elevata nelle grandi città con oltre 100.000 abitanti che nel 1955 raccoglievano il 21,6% della popolazione: nel 1968 ne raccoglievano già oltre il 28%.
Oltre a questi aspetti, del resto comuni a ogni frangente di pronunciato sviluppo industriale, il “caso italiano” ha presentato, in quel periodo, alcune caratteristiche giudicate peculiari (formative, infatti, della dizione “caso italiano” fin troppo frequentemente usata nel tempo, anche a sproposito).
Queste caratteristiche peculiari potevano essere così descritte:
1) Un progressivo “dualismo” della struttura produttiva, che nel contempo registrava la nascita e la crescita di imprese tecnologicamente avanzate al livello delle industrie più progredite nei paesi europei e il permanere di piccole strutture arretrate, caratterizzate da bassa produttività e inefficienza;
2) La cosiddetta “distorsione del consumismo” consistente nel fatto che, mentre alcuni consumi privati anche di genere non necessario (motorizzazione privata, elettrodomestici, televisori) si erano andati sviluppando molto velocemente mentre altrettanto non era avvenuto nel settore dei consumi pubblici, anche nei casi che avrebbero dovuto essere riconosciuti come assolutamente prioritari: istruzione, sanità, casa;
3) Si allargava, intanto, una distanza profonda fra il grado di sviluppo delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali, nonostante il flusso della spesa pubblica fosse orientato prevalentemente verso il Sud.
Questi tre aspetti, appena elencati, potevano da subito essere individuati come elementi negativi eliminandoli attraverso una corretta impostazione della politica economica.
Attorno a questi elementi si sviluppò all’epoca un importante dibattito politico che, alla fine, sortì però un esito sostanzialmente negativo : la politica di pianificazione che il PSI avrebbe voluto portare all’interno della formazione del centrosinistra fu sconfitta nell’arenarsi dello stesso centro sinistra a mera formula di governo; il dibattito nel partito comunista (sviluppatosi nel periodo a cavallo della morte di Togliatti, tra il convegno del Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano del 1962 e l’XI congresso del 1966) si attestò alla fine su di un punto di mediazione di tipo politicista sboccando alla fine in una proposta quella del “compromesso storico” che poneva il tema del governo con la DC tutta intera quale prospettiva decisiva per l’avvenire della sinistra e del movimento operaio.
Rimase senza seguito anche la celebre “Nota aggiuntiva alla relazione della situazione economica del Paese”, redatta da Ugo La Malfa nel 1962, in cui si riconobbe che l’imponente trasferimento di popolazione e di forza lavoro si risolveva in un “depauperamento di un ambiente economico, sociale e umano incapace di trovare un nuovo equilibrio sulla base di condizioni più moderne di produzione e di produttività”.
Si segnò così un evidente “dualismo” nella realtà produttiva: da un lato un settore comprendente industria meccanica, chimica e in un momento successivo anche l’abbigliamento e le calzature caratterizzato da livelli di produttività assai elevati e dall’adozione di tecnologie molto avanzate e dall’altro settori definiti “stagnanti” comprendete le industrie tessili e alimentari, l’industria delle costruzioni e il commercio al dettaglio.
Un dualismo mantenuto anche dal tipo di intervento pubblico in economia sostenuto dalla presenza dell’IRI e dalla mancata realizzazione di un progetto di uscita dalla sudditanza dalla politica energetica incentrata sul petrolio governato dalla “sette sorelle” attraverso l’ENI, mutilato a quel punto dall’ancora misteriosa scomparsa di Enrico Mattei.
Fin dagli ultimi anni del miracolo economico, quando l’espansione era ancora in atto, emerse già la consapevolezza che il veloce sviluppo del decennio precedente, se pure aveva risolto alcuni problemi tra i più impellenti del paese (elettrificazione, infrastrutture, case popolari, istruzione di base, aggressione alle più evidenti sacche di povertà), altri ne aveva lasciati totalmente insoluti, se non addirittura aggravati e che si trovano ancora alla base dai limiti di fondo dell’economia italiana, pur nel mutato quadro tecnologico e di riferimenti di “vincolo esterno” come realizzatosi nei decenni successivi:
a) Dualismo della struttura industriale che ha portato con il soccombere della parte a quel tempo più dinamica (siderurgia, chimica, elettronica);
b) Distorsione nei consumi;
c) Distacco tra Nord e Sud;
d) Inefficienza crescente della spesa pubblica.
Il quadro dello sviluppo economico italiano di quel periodo non sarebbe completo se non si tentasse un minimo di approfondimento su di un punto debole che, oggi come oggi, si trova proprio al centro del dibattito: l’inefficienza progressiva della spesa pubblica.
L’espansione del pubblico impiego è stato uno dei modi che, di fatto, sono stati impiegati per alleviare la disoccupazione, specie meridionale, rappresentando una sorta di attività sostitutiva dell’investimento diretto.
Eguale esito di complessiva inefficienza ebbero le politiche riguardanti l’assetto urbano e le abitazioni.
Una delle caratteristiche comuni di tutte le Regioni italiane a partire dal periodo preso in esame da questo lavoro, sia al Nord sia al Sud, fu rappresentato dall’accrescimento delle concentrazioni urbane.
La crescita tumultuosa degli insediamenti urbani recava con sé una domanda crescente di case di abitazione.
Il tema dello sviluppo edilizio richiederebbe un capitolo a parte che allungherebbe troppo questo testo. Si rimanda quindi a una successiva ricostruzione non senza ricordare quanto abbia pesato e stia pesando il disordine urbanistico e il degrado dell’assetto del territorio sui fattori fondamentali della crescita economica.
Nella sostanza da quella fase risultò favorita l’industria delle costruzioni, assistita anche da una politica creditizia particolarmente generosa e che poteva contare su profitti cospicui e sicuri e l’industria automobilistica, ma ne dovettero subire gli intralci tutte le altre attività produttive.
Emerge da questo quadro, allora, l’insieme dei limiti profondi già presenti nell’economia italiana fin dagli anni dello sviluppo più forte: dualismo tra i diversi settori, distacco tra Nord e Sud, bassi salari e distorsione nel consumo, disordine urbano, inefficienza della spesa pubblica.
Si aprì, in questo modo, la stagione delle svendite: le grandi PPSS del dopoguerra, l’IRI, l’Intersind, la Grande ENI di Mattei, il piano siderurgico di Sinigaglia, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la STET (che Agnelli si portò a casa pagando lo 0,6% del capitale), la privatizzazione delle Banche Credito e Comit finirono dentro i giochi della borghesia dei “salotti buoni”.
Tutto è cambiato attorno a noi, sul piano della tecnologia, dei riferimenti internazionali, del quadro possibile di sviluppo economico e tutto è cambiato nella struttura produttiva italiana, in particolare per responsabilità delle privatizzazioni compiute negli anni’90 fino alla dismissione dell’IRI, ma quegli elementi di sofferenza del sistema sono ancora presenti e ci fanno affermare come, anche per il futuro, rappresentino elementi di grande difficoltà che soltanto un diverso approccio sul piano politico potrà affrontare seriamente.
Le drammatiche vicende legate al progressi processo di ulteriore de-industrializzazione, di degrado del tessuto infrastrutturale e nell’uso del territorio , di smantellamento dello stato sociale e di improvvisa crescita di una visione politica di tipo populista e sovranista che sta assumendo addirittura tratti egemonici,in atto nel nostro Paese in parallelo con la crisi dell’Unione Europea,. chiamano a una riflessione attorno alla possibilità di avanzamento di una proposta di politica economica.
Il concetto di fondo che sarebbe necessario portare avanti e rilanciare rimane quello della programmazione economica, combattendo a fondo l’idea che si tratti di uno strumento superato, buono soltanto – al massimo – a coordinare sfere private fondamentalmente irriducibili.
Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare la base per un avvio di programma d’alternativa all’esistente,anche se bussano alle porte nuovamente i temi della limitazione della democrazia e di manomissione della Costituzione Repubblicana.
Quello redatto in questo testo rimane un appunto schematico e lacunoso tirato giù tanto per ricordare qualche passaggio allo scopo di indicare contraddizioni e difficoltà che pure s’incontrarono e si svilupparono nel tempo, ricordando ancora come non sia mai vissuta una presunta “età dell’oro” ma una stagione di grandi lotte sociali e politiche in un quadro di grandi contraddizioni.
Tutto ciò che si ottenne a livello di miglioramento complessivo delle condizioni di vita, che in effetti si verificò, fu frutto di enormi sacrifici di gran parte delle popolazione pagando il prezzo di una distorsione storica che ancora agisce sul presente e sulla quale fanno leva le operazioni in corso da tempo tese a provocare un vero a proprio “arretramento” economico, politico, sociale, culturale.
Le due notizie sono di ieri e dimostrano la distanza che ai vertici del governo si situa tra la realtà drammatica concretezza della situazione in atto e la fantasia improvvisatrice di chi addirittura evoca il boom economico.
Una dimostrazione lampante della difficoltà che incontra la politica italiana ormai immersa in una sorta di delirio mediatico attraverso il quale si sono sparse promesse, si è fatto lievitare un consenso fondato su di un gigantesco voto di scambio, si sono aperti conflitti a tutti i livelli che sarà difficile comporre in futuro.
Come si combina poi l’idea del boom economico con la “decrescita felice” che apparentemente stava alla base della filosofia alternativa espressa dal M5S, rimane tutto da dimostrare.
Evocare il boom economico poi non è affare da poco e quindi vale la pena rinfrescare un poco la memoria riassumendo, molto sommariamente, come si svolse la fase che tra la fine degli anni’50 e primi anni’60 del XX secolo segnò un salto negli indici di sviluppo dell’Italia mutando anche profondamente la vita quotidiana di una parte importante del Paese.
Non erano tutte rose e fiori: quest’affermazione va posta in premesse e ricordata bene; si verificarono squilibri enormi sul piano sociale e dell’uso del territorio tra le diverse parti dell’Italia e si verificarono avvenimenti di grande importanza anche sul piano politico.
Una sintetica ricostruzione della fase del “miracolo economico”
L’Italia, in passato, è stata protagonista propri nella fase di ricostruzione dalla tragedia bellica di una particolare forma di economia mista che aveva già caratterizzato il fascismo (dal quale del resto la giovane Repubblica aveva ereditato strumenti d’iniziativa e gestione economica come l’IRI e l’ENI).
Nel corso degli anni, a partire dalla seconda metà del ‘900, si verificarono veri e propri spostamenti d’asse sul piano globale al riguardo dei riferimenti relativi all’economia, alla produzione industriale, alla distribuzione del reddito, alla diffusione del welfare state e della democrazia.
In questo quadro però l’economia italiana mantenne comunque limiti strutturali sui quali vale la pena indagare anche dal punto di vista della ricostruzione storica.
Limiti strutturali che poi ebbero un peso nel corso dei tumultuosi processi innestatisi nel corso degli anni’90 del XX secolo a causa dell’esplosione di Tangentopoli e delle esigenze di riallineamento dovute alla stipula dei trattati europei (specificatamente quello di Maastricht, datato 1992) e successivamente all’ingresso nell’area della moneta unica.
Limiti già apparsi evidenti fin dalla fase della seconda ricostruzione post-bellica, preparatoria a quel “miracolo economico” che il nostro Paese visse a cavallo tra la fine degli anni’50 e i primissimi anni del decennio successivo.
Una fase, quella 58 – 63 indicata come effettivamente contraddistinta dal “miracolo economico” e coincidente con fenomeni politici di grande rilevanza sia sul piano internazionale sia sul piano interno: dal cosiddetto “disgelo” tra i due grandi blocchi militari allora esistenti sul piano planetario, all’incubazione e formazione – in Italia – della formula del centrosinistra, con l’ingresso del PSI nell’area di governo a fianco della DC.
Ricostruire quella fase, allora, può risultare un esercizio utile anche per capire alcuni fondamentali tratti della situazione attuale.
Tratti che forse sfuggono a chi pensa di poter parlare di “miracolo economico” imminente.
A partire dal 1951 i successivi dodici anni furono caratterizzati da un veloce sviluppo e da una profonda trasformazione strutturale.
Gli aspetti fondamentali di questa evoluzione furono essenzialmente questi:
a) Il forte sviluppo dell’industria manifatturiera, sviluppo che trasformò il Paese facendolo passare da un’economia prevalentemente agricola a un’economia prevalentemente industrializzata. Questo tipo di trasformazione risultò particolarmente accentuato nella zona del triangolo industriale Milano –Torino – Genova dove le novità manifatturiere arrivarono a contribuire per il 40% del PIL e per il quasi 45% al totale del prodotto del settore privato;
b) Il passaggio da una struttura chiusa agli scambi con l’estero a una struttura fortemente caratterizzata da un processo di integrazione con gli altri paesi industrializzati;
c) La conseguente trasformazione nella struttura degli insediamenti, nella direzione di una concentrazione sempre più elevata nelle grandi città con oltre 100.000 abitanti che nel 1955 raccoglievano il 21,6% della popolazione: nel 1968 ne raccoglievano già oltre il 28%.
Oltre a questi aspetti, del resto comuni a ogni frangente di pronunciato sviluppo industriale, il “caso italiano” ha presentato, in quel periodo, alcune caratteristiche giudicate peculiari (formative, infatti, della dizione “caso italiano” fin troppo frequentemente usata nel tempo, anche a sproposito).
Queste caratteristiche peculiari potevano essere così descritte:
1) Un progressivo “dualismo” della struttura produttiva, che nel contempo registrava la nascita e la crescita di imprese tecnologicamente avanzate al livello delle industrie più progredite nei paesi europei e il permanere di piccole strutture arretrate, caratterizzate da bassa produttività e inefficienza;
2) La cosiddetta “distorsione del consumismo” consistente nel fatto che, mentre alcuni consumi privati anche di genere non necessario (motorizzazione privata, elettrodomestici, televisori) si erano andati sviluppando molto velocemente mentre altrettanto non era avvenuto nel settore dei consumi pubblici, anche nei casi che avrebbero dovuto essere riconosciuti come assolutamente prioritari: istruzione, sanità, casa;
3) Si allargava, intanto, una distanza profonda fra il grado di sviluppo delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali, nonostante il flusso della spesa pubblica fosse orientato prevalentemente verso il Sud.
Questi tre aspetti, appena elencati, potevano da subito essere individuati come elementi negativi eliminandoli attraverso una corretta impostazione della politica economica.
Attorno a questi elementi si sviluppò all’epoca un importante dibattito politico che, alla fine, sortì però un esito sostanzialmente negativo : la politica di pianificazione che il PSI avrebbe voluto portare all’interno della formazione del centrosinistra fu sconfitta nell’arenarsi dello stesso centro sinistra a mera formula di governo; il dibattito nel partito comunista (sviluppatosi nel periodo a cavallo della morte di Togliatti, tra il convegno del Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano del 1962 e l’XI congresso del 1966) si attestò alla fine su di un punto di mediazione di tipo politicista sboccando alla fine in una proposta quella del “compromesso storico” che poneva il tema del governo con la DC tutta intera quale prospettiva decisiva per l’avvenire della sinistra e del movimento operaio.
Rimase senza seguito anche la celebre “Nota aggiuntiva alla relazione della situazione economica del Paese”, redatta da Ugo La Malfa nel 1962, in cui si riconobbe che l’imponente trasferimento di popolazione e di forza lavoro si risolveva in un “depauperamento di un ambiente economico, sociale e umano incapace di trovare un nuovo equilibrio sulla base di condizioni più moderne di produzione e di produttività”.
Si segnò così un evidente “dualismo” nella realtà produttiva: da un lato un settore comprendente industria meccanica, chimica e in un momento successivo anche l’abbigliamento e le calzature caratterizzato da livelli di produttività assai elevati e dall’adozione di tecnologie molto avanzate e dall’altro settori definiti “stagnanti” comprendete le industrie tessili e alimentari, l’industria delle costruzioni e il commercio al dettaglio.
Un dualismo mantenuto anche dal tipo di intervento pubblico in economia sostenuto dalla presenza dell’IRI e dalla mancata realizzazione di un progetto di uscita dalla sudditanza dalla politica energetica incentrata sul petrolio governato dalla “sette sorelle” attraverso l’ENI, mutilato a quel punto dall’ancora misteriosa scomparsa di Enrico Mattei.
Fin dagli ultimi anni del miracolo economico, quando l’espansione era ancora in atto, emerse già la consapevolezza che il veloce sviluppo del decennio precedente, se pure aveva risolto alcuni problemi tra i più impellenti del paese (elettrificazione, infrastrutture, case popolari, istruzione di base, aggressione alle più evidenti sacche di povertà), altri ne aveva lasciati totalmente insoluti, se non addirittura aggravati e che si trovano ancora alla base dai limiti di fondo dell’economia italiana, pur nel mutato quadro tecnologico e di riferimenti di “vincolo esterno” come realizzatosi nei decenni successivi:
a) Dualismo della struttura industriale che ha portato con il soccombere della parte a quel tempo più dinamica (siderurgia, chimica, elettronica);
b) Distorsione nei consumi;
c) Distacco tra Nord e Sud;
d) Inefficienza crescente della spesa pubblica.
Il quadro dello sviluppo economico italiano di quel periodo non sarebbe completo se non si tentasse un minimo di approfondimento su di un punto debole che, oggi come oggi, si trova proprio al centro del dibattito: l’inefficienza progressiva della spesa pubblica.
L’espansione del pubblico impiego è stato uno dei modi che, di fatto, sono stati impiegati per alleviare la disoccupazione, specie meridionale, rappresentando una sorta di attività sostitutiva dell’investimento diretto.
Eguale esito di complessiva inefficienza ebbero le politiche riguardanti l’assetto urbano e le abitazioni.
Una delle caratteristiche comuni di tutte le Regioni italiane a partire dal periodo preso in esame da questo lavoro, sia al Nord sia al Sud, fu rappresentato dall’accrescimento delle concentrazioni urbane.
La crescita tumultuosa degli insediamenti urbani recava con sé una domanda crescente di case di abitazione.
Il tema dello sviluppo edilizio richiederebbe un capitolo a parte che allungherebbe troppo questo testo. Si rimanda quindi a una successiva ricostruzione non senza ricordare quanto abbia pesato e stia pesando il disordine urbanistico e il degrado dell’assetto del territorio sui fattori fondamentali della crescita economica.
Nella sostanza da quella fase risultò favorita l’industria delle costruzioni, assistita anche da una politica creditizia particolarmente generosa e che poteva contare su profitti cospicui e sicuri e l’industria automobilistica, ma ne dovettero subire gli intralci tutte le altre attività produttive.
Emerge da questo quadro, allora, l’insieme dei limiti profondi già presenti nell’economia italiana fin dagli anni dello sviluppo più forte: dualismo tra i diversi settori, distacco tra Nord e Sud, bassi salari e distorsione nel consumo, disordine urbano, inefficienza della spesa pubblica.
Si aprì, in questo modo, la stagione delle svendite: le grandi PPSS del dopoguerra, l’IRI, l’Intersind, la Grande ENI di Mattei, il piano siderurgico di Sinigaglia, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la STET (che Agnelli si portò a casa pagando lo 0,6% del capitale), la privatizzazione delle Banche Credito e Comit finirono dentro i giochi della borghesia dei “salotti buoni”.
Tutto è cambiato attorno a noi, sul piano della tecnologia, dei riferimenti internazionali, del quadro possibile di sviluppo economico e tutto è cambiato nella struttura produttiva italiana, in particolare per responsabilità delle privatizzazioni compiute negli anni’90 fino alla dismissione dell’IRI, ma quegli elementi di sofferenza del sistema sono ancora presenti e ci fanno affermare come, anche per il futuro, rappresentino elementi di grande difficoltà che soltanto un diverso approccio sul piano politico potrà affrontare seriamente.
Le drammatiche vicende legate al progressi processo di ulteriore de-industrializzazione, di degrado del tessuto infrastrutturale e nell’uso del territorio , di smantellamento dello stato sociale e di improvvisa crescita di una visione politica di tipo populista e sovranista che sta assumendo addirittura tratti egemonici,in atto nel nostro Paese in parallelo con la crisi dell’Unione Europea,. chiamano a una riflessione attorno alla possibilità di avanzamento di una proposta di politica economica.
Il concetto di fondo che sarebbe necessario portare avanti e rilanciare rimane quello della programmazione economica, combattendo a fondo l’idea che si tratti di uno strumento superato, buono soltanto – al massimo – a coordinare sfere private fondamentalmente irriducibili.
Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare la base per un avvio di programma d’alternativa all’esistente,anche se bussano alle porte nuovamente i temi della limitazione della democrazia e di manomissione della Costituzione Repubblicana.
Quello redatto in questo testo rimane un appunto schematico e lacunoso tirato giù tanto per ricordare qualche passaggio allo scopo di indicare contraddizioni e difficoltà che pure s’incontrarono e si svilupparono nel tempo, ricordando ancora come non sia mai vissuta una presunta “età dell’oro” ma una stagione di grandi lotte sociali e politiche in un quadro di grandi contraddizioni.
Tutto ciò che si ottenne a livello di miglioramento complessivo delle condizioni di vita, che in effetti si verificò, fu frutto di enormi sacrifici di gran parte delle popolazione pagando il prezzo di una distorsione storica che ancora agisce sul presente e sulla quale fanno leva le operazioni in corso da tempo tese a provocare un vero a proprio “arretramento” economico, politico, sociale, culturale.
Nessun commento:
Posta un commento