In estate ci sono i pomodori. E nel resto dell’anno, asparagi, carciofi, finocchi e grappoli d’uva. Ma non c’è un sistema
pubblico – di infrastrutture e servizi – capace di far arrivare alle 6 del mattino, su un campo distante chilometri da un
centro abitato, 50 o 80 lavoratori per quei 20 o 40 giorni necessari alle esigenze di raccolta. I “centri per l’impiego” e
i bus navetta si chiamano, così, caporalato al Sud e “false cooperative” al Nord e sono i due volti di un fenomeno sempre
più in crescita quanto più l’Italia rinuncia a fare incontrare, legalmente in agricoltura, domanda e offerta.
Ieri, a Foggia, dopo il grave incidente in cui lunedì hanno perso la
vita 12 braccianti, il presidente del Consiglio, Giuseppe
Conte, ha ricordato che «vanno rafforzati i controlli e la
prevenzione contro il caporalato». Mentre il ministro dell’Interno,
Matteo Salvini, ha affermato che «la legge sul caporalato va
aggiornata». Ma il problema è strutturale.
La fotografia del Sud
Meno meccanizzazione e più disponibilità di manodopera a basso costo. Il fenomeno dei braccianti immigrati irregolari assume al Sud forme più evidenti. Il 60% dei lavoratori a nero in agricoltura è utilizzato da aziende agricole del Sud. Il 20% in Puglia, la regione più vocata alla coltivazione del pomodoro, soprattutto a quello destinato all’industria della trasformazione. Sono circa 400mila gli immigrati sottopagati e impegnati in questi giorni nelle campagne italiane: dati che i sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno presentato ieri in conferenza stampa a Foggia per annunciare la grande manifestazioni di oggi contro il caporalato e i voucher in agricoltura.
Uno studio della Fai Cisl Puglia sugli elenchi di iscrizione dei lavoratori (Inps) ha evidenziato poi che il 40% degli iscritti nelle liste regionali (ufficialmente) non supera i 51 giorni di lavoro annui. In altre parole non raggiunge il tetto minimo per ricevere contributi e welfare. Paolo Frascella, segretario della Fai Cisl Puglia precisa: «All’area del lavoro totalmente irregolare si aggiunge quella del lavoro dichiarato ma solo in piccola parte».
I luoghi di incontro sono noti, lì i braccianti aspettano all’alba, passa il “caporale” e li carica. Agli immigrati si uniscono anche gli italiani che in molti casi ritornano a offrirsi per il lavoro in campagna a qualsiasi prezzo. Più o meno 20 euro per almeno undici ore di lavoro al giorno. «C’è chi – dice Raffaele Tancredi della Fai Cisl Campania – vicino alla pensione accetta di lavorare gratis al solo scopo di ricevere i contributi che gli mancano».
Fenomeno crescente al Nord
Al Nord le cooperative che svolgono in outsourcing servizi per il comparto agro-alimentare sono una realtà in crescita. «L’azienda agricola che ha maggiore bisogno di manodopera e per pochi giorni – spiega Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative e di Conserve Italia – si affida a queste cooperative per averla in poco tempo. A differenza dal caporalato diffuso al Sud, questi soggetti hanno una parvenza di azienda. Ma, in molti casi, sono strumenti giuridici che vivono meno di un anno, applicano contratti di lavoro firmati da sigle sindacali minori e spesso non versano nè tasse nè contributi previdenziali ai lavoratori. Con stipendi più bassi e zero versamenti, un lavoratore può costare meno della metà di un’assunzione regolare». Con queste “false” cooperative – che tradiscono, nel nome, il senso della loro identità – si pagano meno tasse e si possono smontare i contratti nazionali di lavoro.
I produttori
«La raccolta meccanica del pomodoro – fa presente il presidente di Anicav (l’associazione dei produttori di conserve alimentari) Luigi Ferraioli – ha raggiunto il 100% al nord e il 90% nel bacino del centro-sud, il quale ha però una superficie coltivata molto estesa e quindi quel 10% di attività manuale attira molte migliaia di lavoratori».
«L’utilizzo di manodopera irregolare in agricoltura – aggiunge il direttore generale di Anicav, Giovanni De Angelis – rappresenta un danno anche per l’industria di trasformazione che vede continuamente messi sotto accusa i propri prodotti». Dopo gli incidenti mortali dei giorni scorsi, la grande distribuzione estera si è precipitata a chiedere chiarimenti ad Anicav. «È utile ricordare – conclude De Angelis – che il prezzo che le aziende italiane di trasformazione, in particolare al Centro Sud, pagano agli agricoltori per il pomodoro è il più alto al mondo, naturalmente anche per il più elevato livello qualitativo».
Mutti opera prevalentemente nel Nord Italia (a Parma) ma ha anche uno stabilimento a Salerno. «Al Nord la raccolta meccanica del pomodoro è partita a fine anni ’80. La nostra scelta – spiega l’amministratore delegato dell’omonima azienda, Francesco Mutti – è stata di richiedere dai fornitori, sia al nord che al sud, il 100% di raccolta meccanica, proprio per uscire dalla problematica del caporalato e dello sfruttamento». Però non basta. «Abbiamo dei nostri agronomi – spiega Mutti – che svolgono controlli di qualità. Ma è lo Stato che deve attuare controlli rigorosi e continui, 300 giorni l’anno e deve farlo alle 5 di mattina sulle strade che portano ai campi, perchè poi verificare la regolarità delle assunzioni sui terreni è difficile. E poi vanno offerti servizi a questi lavoratori. In Gran Bretagna – conclude Mutti – gli immigrati reclutati dai caporali nei campi di fragole sono stati riuniti in vere cooperative, gestite dai lavoratori. Questa può essere una strada».
La fotografia del Sud
Meno meccanizzazione e più disponibilità di manodopera a basso costo. Il fenomeno dei braccianti immigrati irregolari assume al Sud forme più evidenti. Il 60% dei lavoratori a nero in agricoltura è utilizzato da aziende agricole del Sud. Il 20% in Puglia, la regione più vocata alla coltivazione del pomodoro, soprattutto a quello destinato all’industria della trasformazione. Sono circa 400mila gli immigrati sottopagati e impegnati in questi giorni nelle campagne italiane: dati che i sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno presentato ieri in conferenza stampa a Foggia per annunciare la grande manifestazioni di oggi contro il caporalato e i voucher in agricoltura.
Uno studio della Fai Cisl Puglia sugli elenchi di iscrizione dei lavoratori (Inps) ha evidenziato poi che il 40% degli iscritti nelle liste regionali (ufficialmente) non supera i 51 giorni di lavoro annui. In altre parole non raggiunge il tetto minimo per ricevere contributi e welfare. Paolo Frascella, segretario della Fai Cisl Puglia precisa: «All’area del lavoro totalmente irregolare si aggiunge quella del lavoro dichiarato ma solo in piccola parte».
I luoghi di incontro sono noti, lì i braccianti aspettano all’alba, passa il “caporale” e li carica. Agli immigrati si uniscono anche gli italiani che in molti casi ritornano a offrirsi per il lavoro in campagna a qualsiasi prezzo. Più o meno 20 euro per almeno undici ore di lavoro al giorno. «C’è chi – dice Raffaele Tancredi della Fai Cisl Campania – vicino alla pensione accetta di lavorare gratis al solo scopo di ricevere i contributi che gli mancano».
Fenomeno crescente al Nord
Al Nord le cooperative che svolgono in outsourcing servizi per il comparto agro-alimentare sono una realtà in crescita. «L’azienda agricola che ha maggiore bisogno di manodopera e per pochi giorni – spiega Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative e di Conserve Italia – si affida a queste cooperative per averla in poco tempo. A differenza dal caporalato diffuso al Sud, questi soggetti hanno una parvenza di azienda. Ma, in molti casi, sono strumenti giuridici che vivono meno di un anno, applicano contratti di lavoro firmati da sigle sindacali minori e spesso non versano nè tasse nè contributi previdenziali ai lavoratori. Con stipendi più bassi e zero versamenti, un lavoratore può costare meno della metà di un’assunzione regolare». Con queste “false” cooperative – che tradiscono, nel nome, il senso della loro identità – si pagano meno tasse e si possono smontare i contratti nazionali di lavoro.
I produttori
«La raccolta meccanica del pomodoro – fa presente il presidente di Anicav (l’associazione dei produttori di conserve alimentari) Luigi Ferraioli – ha raggiunto il 100% al nord e il 90% nel bacino del centro-sud, il quale ha però una superficie coltivata molto estesa e quindi quel 10% di attività manuale attira molte migliaia di lavoratori».
«L’utilizzo di manodopera irregolare in agricoltura – aggiunge il direttore generale di Anicav, Giovanni De Angelis – rappresenta un danno anche per l’industria di trasformazione che vede continuamente messi sotto accusa i propri prodotti». Dopo gli incidenti mortali dei giorni scorsi, la grande distribuzione estera si è precipitata a chiedere chiarimenti ad Anicav. «È utile ricordare – conclude De Angelis – che il prezzo che le aziende italiane di trasformazione, in particolare al Centro Sud, pagano agli agricoltori per il pomodoro è il più alto al mondo, naturalmente anche per il più elevato livello qualitativo».
Mutti opera prevalentemente nel Nord Italia (a Parma) ma ha anche uno stabilimento a Salerno. «Al Nord la raccolta meccanica del pomodoro è partita a fine anni ’80. La nostra scelta – spiega l’amministratore delegato dell’omonima azienda, Francesco Mutti – è stata di richiedere dai fornitori, sia al nord che al sud, il 100% di raccolta meccanica, proprio per uscire dalla problematica del caporalato e dello sfruttamento». Però non basta. «Abbiamo dei nostri agronomi – spiega Mutti – che svolgono controlli di qualità. Ma è lo Stato che deve attuare controlli rigorosi e continui, 300 giorni l’anno e deve farlo alle 5 di mattina sulle strade che portano ai campi, perchè poi verificare la regolarità delle assunzioni sui terreni è difficile. E poi vanno offerti servizi a questi lavoratori. In Gran Bretagna – conclude Mutti – gli immigrati reclutati dai caporali nei campi di fragole sono stati riuniti in vere cooperative, gestite dai lavoratori. Questa può essere una strada».
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