La stampa internazionale ha pressoché unanimemente salutato in
Marchionne uno dei più grandi manager della sua generazione e lodato le
sue grandi capacità. E certo, se guardiamo ai suoi risultati economici e
finanziari sino al momento della sua morte, si capisce certamente la
ragione di questo tipo di giudizi. Lasciamo stare Trump, che lo ha
paragonato a Henry Ford; sul Financial Times, un quotidiano in genere
piuttosto misurato, si è parlato di Marchionne come di una leggenda nel
settore, è stato sottolineato il suo coraggio, la sua grande capacità di
lavoro, la sua abilità nel dealmaking e si è ricordato come egli avesse
una mente molto sveglia.
Non c’è da meravigliarsi di queste lodi da un altro punto di vista, quello “ideologico”; siamo ormai da tempo di fronte al pensiero unico relativamente a queste questioni sui media. In effetti, il manager italo-svizzero ha certamente reso felici i suoi azionisti (missione suprema dei manager, a leggere i testi di economia applicata e metro più importante di misura anche per i media) avendo, tra l’altro, moltiplicato il valore dei titoli del gruppo di più di dieci volte nel tempo. Dal punto di vista dei lavoratori e del nostro paese magari le cose sono state meno brillanti.
Per quanto riguarda l’Italia, di fronte a un sistema politico-mediatico che saluta in Marchionne un grande eroe nazionale, una sintesi tra Mazzini e Garibaldi (e non sembra che lo facciano in generale per seguire l’antico detto de mortuis nihil nise bonum), mentre sottolineiamo che certamente ci dispiace della sua morte precoce, ci permettiamo di ribadire che molte delle sue azioni non ci sono a suo tempo piaciute e di pensare che la sua strategia si ritrova oggi in un mare di difficoltà.
Certo Marchionne ha salvato la Fiat dal baratro, suo merito indiscutibile, ma lo ha fatto trasformando, con l’assenso peraltro anche di una parte del sindacato, i lavoratori quasi in paria, cosa che non era affatto necessaria; rispetto ai loro colleghi tedeschi e francesi essi in effetti non solo guadagnano di meno e in certi casi molto meno, ma hanno anche meno diritti e di nuovo in certi casi molto meno. Peraltro, egli ha anche aperto una strada su cui si infilerà poi Renzi con il suo jobs act.
Il gruppo ha poi abbandonato l’Italia come quartier generale senza neanche dire grazie, dopo che per tanti anni esso vi aveva ricevuto tanti favori. Anche in questo caso ci sono molte imprese multinazionali di tutti i paesi che continuano ad avere le loro sedi centrali nel fondo di qualche oscura provincia e questo non sembra essere un problema. Pensiamo ad esempio in Europa a Michelin, che ha il suo quartier generale a Clermond Ferrand o a Philips che lo mantiene ad Eindhoven in Olanda.
La lista delle promesse non mantenute nel tempo è lunga e la ripetiamo anche se è già stata ricordata: quella di arrivare a produrre sino a 7 milioni di vetture, mentre oggi siamo sui 4,7 milioni; di grandi investimenti nel nostro paese, che non si sono poi visti; di una produzione da noi di 1.400.000 vetture all’anno, mentre siamo a 750.000; del reintegro di tutti i cassaintegrati, cosa che non si è verificata e ancora di 400.000 Alfa all’anno, con otto nuovi modelli (siamo a 110.000 con due modelli).
E quasi tutti ci hanno creduto o hanno fatto finta di crederci.
Intanto in Italia oggi l’azienda occupa 29.000 persone, mentre nel 2010 se ne contavano ancora 190.000, anche se va peraltro considerato lo scorporo delle attività confluite nella CNH.
Come è noto, il mondo dell’auto è entrato intanto in un turbinio molto forte e che sta scuotendo anche i valori più consolidati, quali quelli dei grandi produttori tedeschi, che amano i cambiamenti lenti e pianificati e che si ritrovano invece di fronte, tra l’altro, agli attacchi lampo dei nuovi barbari, sotto la veste delle imprese digitali usa e cinesi, che minacciano persino di trasformare le vetture in un semplice telefonino con (forse) quattro ruote.
Mentre i governi si sono finalmente decisi a richiedere, sia pure con grande riluttanza, che le emissioni delle vetture siano fortemente ridotte, sta arrivando l’auto elettrica, alla quale sino a poco tempo fa Marchionne dichiarava di non credere – ma che le norme cinesi hanno imposto e di fretta a tutti i produttori –, nonché l’auto a guida autonoma, che dovrebbe avere una forza distruttiva ancora maggiore, anche se ha forse tempi un poco più lenti di introduzione, mentre si affermano nuovi modi di fruizione dell’auto, in particolare l’affitto a breve termine invece dell’acquisto e qui sono al momento vincenti le aziende tipo la statunitense Uber o la cinese Didi Chuxing (si tratta di un mestiere che le case dell’auto non conoscono; ora provano ad impararlo quelle tedesche, che hanno le risorse per affrontare la sfida, mentre la Fiat non sembra neanche pensarci). Infine l’Asia sta diventando sempre più il cuore del sistema, ma in tale continente il gruppo è presente con livelli di produzione al momento risibili.
Più in generale, rispetto a questi grandi mutamenti, la FCA di Marchionne non ha sino ad oggi fatto quasi nulla. È come se il manager abbia pensato après moi le déluge, ciò che probabilmente coincideva con la volontà della famiglia di vendere in prospettiva tutto.
Da qualche tempo gli azionisti e gli stessi manager del gruppo parlano pudicamente della necessità di trovare un partner per fare massa in un mercato sempre più difficile, ma la realtà sembra quella che difficilmente ci sarà una fusione tra uguali e che l’azienda degli Agnelli dovrà cedere il pacchetto a qualcun altro più attrezzato al nuovo gioco.
Peraltro, il nuovo piano industriale da poco annunciato promette per il futuro rilevanti investimenti nell’auto elettrica e ripropone le 400.000 unità vendute per l’Alfa, con tanti nuovi modelli.
Per quanto riguarda la prima mossa, si può credere a tale nuovo impegno? E, d’altro canto, gli stanziamenti saranno sufficienti e forse non è ormai troppo tardi? Per quanto riguarda la seconda, il gruppo Alfa/Maserati dovrebbe creare un polo del lusso in grado di contrastare i produttori tedeschi e giapponesi, ma le vendite non corrispondono in nulla ai proclami. Ancora nel primo semestre del 2018 i dati di vendita del marchio Maserati appaiono allarmanti (soltanto 570 milioni di euro). È con questi numeri che si affronterà un nemico tanto forte?
Questa è certamente una cosa spiacevole, dal momento che il gruppo ha annunciato che non produrrà più auto piccole in Italia; pensare di sostenere l’occupazione negli stabilimenti nazionali solo con Alfa, Maserati e un po’ di Jeep appare un’impresa certamente disperata. Sembra invece facile prevedere (ma speriamo di sbagliarci) che si cercherà presto di chiudere nel nostro paese almeno uno stabilimento.
Intanto però è stata messa sul mercato la Magneti Marelli – cuore del know-how nazionale nel settore e punto centrale di una possibile strategia di rilancio dell’auto italiana-, nell’indifferenza generale dei media e dei politici, mentre si ignora la sorte di Comau, altro importante punto di forza nazionale nel settore.
Certo, questa volta non si trattava per loro di scatenarsi contro i pur modesti ritocchi che Di Maio vuole apportare al famigerato jobs act, nè di indignarsi perché i francesi volevano toccare Berlusconi nei suoi interessi, né di stracciarsi infine le vesti perché Il Manifesto ha osato parlar male di Marchionne. Il risultato è che la Magneti Marelli potrebbe ad esempio essere preda di attori quali Elliott, il terribile fondo avvoltoio che è stato salutato qualche tempo fa da cori osannanti perché era intervenuto a sostegno del Cavaliere, oppure costituire il regalo di nozze di qualche principe arabo alla sua consorte.
L’unica strategia seria per il nostro paese sarebbe quella di difendere il rilevante insieme di competenze e capacità presenti nel gruppo, a partire da Magneti Marelli e Comau e sino a quelle interne a FCA (in parte smobilitate con il passaggio del centro di gravità a Detroit), sulle quali bisognerebbe però investire molto. Questo anche se può sussistere il dubbio che le competenze portate dalle nuove tecnologie digitali possano presto sovrastare quelle tradizionali. Ma bisognerebbe perlomeno provarci.
Intanto anche questo governo sembra essere occupato in materia economica, ad essere generosi, a pestare l’acqua nel mortaio.
Negli ultimi giorni il nuovo amministratore delegato del gruppo ha presentato le stime riviste per il 2018 e queste non sembrano incoraggianti. Il fatturato è ora previsto in 115-118 miliardi di euro, contro i 125 delle valutazioni iniziali, il reddito operativo adjusted a 7,5-8,0 miliardi contro gli 8,7 previsti inizialmente e così via.
Non c’è da meravigliarsi di queste lodi da un altro punto di vista, quello “ideologico”; siamo ormai da tempo di fronte al pensiero unico relativamente a queste questioni sui media. In effetti, il manager italo-svizzero ha certamente reso felici i suoi azionisti (missione suprema dei manager, a leggere i testi di economia applicata e metro più importante di misura anche per i media) avendo, tra l’altro, moltiplicato il valore dei titoli del gruppo di più di dieci volte nel tempo. Dal punto di vista dei lavoratori e del nostro paese magari le cose sono state meno brillanti.
Per quanto riguarda l’Italia, di fronte a un sistema politico-mediatico che saluta in Marchionne un grande eroe nazionale, una sintesi tra Mazzini e Garibaldi (e non sembra che lo facciano in generale per seguire l’antico detto de mortuis nihil nise bonum), mentre sottolineiamo che certamente ci dispiace della sua morte precoce, ci permettiamo di ribadire che molte delle sue azioni non ci sono a suo tempo piaciute e di pensare che la sua strategia si ritrova oggi in un mare di difficoltà.
Certo Marchionne ha salvato la Fiat dal baratro, suo merito indiscutibile, ma lo ha fatto trasformando, con l’assenso peraltro anche di una parte del sindacato, i lavoratori quasi in paria, cosa che non era affatto necessaria; rispetto ai loro colleghi tedeschi e francesi essi in effetti non solo guadagnano di meno e in certi casi molto meno, ma hanno anche meno diritti e di nuovo in certi casi molto meno. Peraltro, egli ha anche aperto una strada su cui si infilerà poi Renzi con il suo jobs act.
Il gruppo ha poi abbandonato l’Italia come quartier generale senza neanche dire grazie, dopo che per tanti anni esso vi aveva ricevuto tanti favori. Anche in questo caso ci sono molte imprese multinazionali di tutti i paesi che continuano ad avere le loro sedi centrali nel fondo di qualche oscura provincia e questo non sembra essere un problema. Pensiamo ad esempio in Europa a Michelin, che ha il suo quartier generale a Clermond Ferrand o a Philips che lo mantiene ad Eindhoven in Olanda.
La lista delle promesse non mantenute nel tempo è lunga e la ripetiamo anche se è già stata ricordata: quella di arrivare a produrre sino a 7 milioni di vetture, mentre oggi siamo sui 4,7 milioni; di grandi investimenti nel nostro paese, che non si sono poi visti; di una produzione da noi di 1.400.000 vetture all’anno, mentre siamo a 750.000; del reintegro di tutti i cassaintegrati, cosa che non si è verificata e ancora di 400.000 Alfa all’anno, con otto nuovi modelli (siamo a 110.000 con due modelli).
E quasi tutti ci hanno creduto o hanno fatto finta di crederci.
Intanto in Italia oggi l’azienda occupa 29.000 persone, mentre nel 2010 se ne contavano ancora 190.000, anche se va peraltro considerato lo scorporo delle attività confluite nella CNH.
Come è noto, il mondo dell’auto è entrato intanto in un turbinio molto forte e che sta scuotendo anche i valori più consolidati, quali quelli dei grandi produttori tedeschi, che amano i cambiamenti lenti e pianificati e che si ritrovano invece di fronte, tra l’altro, agli attacchi lampo dei nuovi barbari, sotto la veste delle imprese digitali usa e cinesi, che minacciano persino di trasformare le vetture in un semplice telefonino con (forse) quattro ruote.
Mentre i governi si sono finalmente decisi a richiedere, sia pure con grande riluttanza, che le emissioni delle vetture siano fortemente ridotte, sta arrivando l’auto elettrica, alla quale sino a poco tempo fa Marchionne dichiarava di non credere – ma che le norme cinesi hanno imposto e di fretta a tutti i produttori –, nonché l’auto a guida autonoma, che dovrebbe avere una forza distruttiva ancora maggiore, anche se ha forse tempi un poco più lenti di introduzione, mentre si affermano nuovi modi di fruizione dell’auto, in particolare l’affitto a breve termine invece dell’acquisto e qui sono al momento vincenti le aziende tipo la statunitense Uber o la cinese Didi Chuxing (si tratta di un mestiere che le case dell’auto non conoscono; ora provano ad impararlo quelle tedesche, che hanno le risorse per affrontare la sfida, mentre la Fiat non sembra neanche pensarci). Infine l’Asia sta diventando sempre più il cuore del sistema, ma in tale continente il gruppo è presente con livelli di produzione al momento risibili.
Più in generale, rispetto a questi grandi mutamenti, la FCA di Marchionne non ha sino ad oggi fatto quasi nulla. È come se il manager abbia pensato après moi le déluge, ciò che probabilmente coincideva con la volontà della famiglia di vendere in prospettiva tutto.
Da qualche tempo gli azionisti e gli stessi manager del gruppo parlano pudicamente della necessità di trovare un partner per fare massa in un mercato sempre più difficile, ma la realtà sembra quella che difficilmente ci sarà una fusione tra uguali e che l’azienda degli Agnelli dovrà cedere il pacchetto a qualcun altro più attrezzato al nuovo gioco.
Peraltro, il nuovo piano industriale da poco annunciato promette per il futuro rilevanti investimenti nell’auto elettrica e ripropone le 400.000 unità vendute per l’Alfa, con tanti nuovi modelli.
Per quanto riguarda la prima mossa, si può credere a tale nuovo impegno? E, d’altro canto, gli stanziamenti saranno sufficienti e forse non è ormai troppo tardi? Per quanto riguarda la seconda, il gruppo Alfa/Maserati dovrebbe creare un polo del lusso in grado di contrastare i produttori tedeschi e giapponesi, ma le vendite non corrispondono in nulla ai proclami. Ancora nel primo semestre del 2018 i dati di vendita del marchio Maserati appaiono allarmanti (soltanto 570 milioni di euro). È con questi numeri che si affronterà un nemico tanto forte?
Questa è certamente una cosa spiacevole, dal momento che il gruppo ha annunciato che non produrrà più auto piccole in Italia; pensare di sostenere l’occupazione negli stabilimenti nazionali solo con Alfa, Maserati e un po’ di Jeep appare un’impresa certamente disperata. Sembra invece facile prevedere (ma speriamo di sbagliarci) che si cercherà presto di chiudere nel nostro paese almeno uno stabilimento.
Intanto però è stata messa sul mercato la Magneti Marelli – cuore del know-how nazionale nel settore e punto centrale di una possibile strategia di rilancio dell’auto italiana-, nell’indifferenza generale dei media e dei politici, mentre si ignora la sorte di Comau, altro importante punto di forza nazionale nel settore.
Certo, questa volta non si trattava per loro di scatenarsi contro i pur modesti ritocchi che Di Maio vuole apportare al famigerato jobs act, nè di indignarsi perché i francesi volevano toccare Berlusconi nei suoi interessi, né di stracciarsi infine le vesti perché Il Manifesto ha osato parlar male di Marchionne. Il risultato è che la Magneti Marelli potrebbe ad esempio essere preda di attori quali Elliott, il terribile fondo avvoltoio che è stato salutato qualche tempo fa da cori osannanti perché era intervenuto a sostegno del Cavaliere, oppure costituire il regalo di nozze di qualche principe arabo alla sua consorte.
L’unica strategia seria per il nostro paese sarebbe quella di difendere il rilevante insieme di competenze e capacità presenti nel gruppo, a partire da Magneti Marelli e Comau e sino a quelle interne a FCA (in parte smobilitate con il passaggio del centro di gravità a Detroit), sulle quali bisognerebbe però investire molto. Questo anche se può sussistere il dubbio che le competenze portate dalle nuove tecnologie digitali possano presto sovrastare quelle tradizionali. Ma bisognerebbe perlomeno provarci.
Intanto anche questo governo sembra essere occupato in materia economica, ad essere generosi, a pestare l’acqua nel mortaio.
Negli ultimi giorni il nuovo amministratore delegato del gruppo ha presentato le stime riviste per il 2018 e queste non sembrano incoraggianti. Il fatturato è ora previsto in 115-118 miliardi di euro, contro i 125 delle valutazioni iniziali, il reddito operativo adjusted a 7,5-8,0 miliardi contro gli 8,7 previsti inizialmente e così via.
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