Ho ricostruito la storia dei giornalisti uccisi dalla mafia nel corso
del Novecento in Italia perché penso che la mia indignazione sia ancora
molto attuale.
Di fronte alla tracotanza pubblica di gruppi criminali come gli Spada e i Casamonica, i quali tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018 hanno minacciato e malmenato giornalisti e cittadini sotto gli occhi delle telecamere, e agli omicidi dei reporter Daphne Caruana Galizia e Jan Kuciak, penso sia evidente che la criminalità organizzata non abbia intenzione di fermare la scia di sangue a cui ha dato inizio molti decenni fa.
Degli undici giornalisti uccisi dalla criminalità organizzata nel Novecento, otto sono stati uccisi in Sicilia dalla mafia, uno in Campania dalla Camorra e due nel nord-Italia dai gruppi eversivi di sinistra. In Italia, dagli anni Novanta, non sono più stati uccisi giornalisti dalla mafia, ma questo non significa che sia cessata la condizione di pericolo e allarme per chi si occupa di fare inchiesta: molti giornalisti, professionisti e pubblicisti, vivono e lavorano in pericolo, spesso minacciati e alcuni sotto scorta, per aver raccontato realtà criminali e rapporti di collusione con le alte sfere dello Stato.
Ho intervistato Giuseppe Baldessarro, giornalista de “La Repubblica”, che in passato ha ricevuto pesanti minacce per aver raccontato la ‘ndrangheta in Calabria. Ho inoltre chiesto a Mario Portanova, giornalista de “Il fatto quotidiano”, come nasce e si sviluppa un’inchiesta e qual è stata l’esperienza della rivista “Società civile” a Milano. L’impegno dei giornalisti che vivono sotto scorta perché minacciati dagli ambienti criminosi, penso in particolar modo a Federica Angeli de “La Repubblica” e a Lirio Abbate de “L’Espresso”, deve essere raccontato e seguito passo per passo, perché una inchiesta non si esaurisce in pochi articoli distribuiti in qualche settimana. Le inchieste possono richiedere anni per esser ben strutturate e dettagliate, per essere verificate, corrette quando necessario, e arricchite con i continui sviluppi.
Per portare alla luce le inchieste attuali e quelle del passato relative alla storia di chi si è battuto contro la mafia, è fondamentale non solo il lavoro dei giornalisti ma anche quello delle associazioni come “Libera”, attive sul territorio con innumerevoli iniziative che mirano soprattutto a coinvolgimento dei giovani.
In tutto il territorio italiano sono numerosissime le iniziative che ricorrono durante gli anniversari di stragi e omicidi avvenuti per mano mafiosa, ma si moltiplicano anche gli eventi volti alla sensibilizzazione verso le tematiche dell’antimafia e volti alla valorizzazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata.
Conoscere la storia di chi ha sacrificato la propria vita in nome della libertà di pensiero e di parola, di chi è morto per poter compiere il proprio lavoro onestamente, è necessario per poter portare avanti una lotta contro la mafia consapevole ed efficace. Ma è fondamentale anche l’impegno quotidiano nel far sì che la libertà di informazione venga tutelata e promossa in ogni angolo del Paese.
Di fronte alla tracotanza pubblica di gruppi criminali come gli Spada e i Casamonica, i quali tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018 hanno minacciato e malmenato giornalisti e cittadini sotto gli occhi delle telecamere, e agli omicidi dei reporter Daphne Caruana Galizia e Jan Kuciak, penso sia evidente che la criminalità organizzata non abbia intenzione di fermare la scia di sangue a cui ha dato inizio molti decenni fa.
Degli undici giornalisti uccisi dalla criminalità organizzata nel Novecento, otto sono stati uccisi in Sicilia dalla mafia, uno in Campania dalla Camorra e due nel nord-Italia dai gruppi eversivi di sinistra. In Italia, dagli anni Novanta, non sono più stati uccisi giornalisti dalla mafia, ma questo non significa che sia cessata la condizione di pericolo e allarme per chi si occupa di fare inchiesta: molti giornalisti, professionisti e pubblicisti, vivono e lavorano in pericolo, spesso minacciati e alcuni sotto scorta, per aver raccontato realtà criminali e rapporti di collusione con le alte sfere dello Stato.
Ho intervistato Giuseppe Baldessarro, giornalista de “La Repubblica”, che in passato ha ricevuto pesanti minacce per aver raccontato la ‘ndrangheta in Calabria. Ho inoltre chiesto a Mario Portanova, giornalista de “Il fatto quotidiano”, come nasce e si sviluppa un’inchiesta e qual è stata l’esperienza della rivista “Società civile” a Milano. L’impegno dei giornalisti che vivono sotto scorta perché minacciati dagli ambienti criminosi, penso in particolar modo a Federica Angeli de “La Repubblica” e a Lirio Abbate de “L’Espresso”, deve essere raccontato e seguito passo per passo, perché una inchiesta non si esaurisce in pochi articoli distribuiti in qualche settimana. Le inchieste possono richiedere anni per esser ben strutturate e dettagliate, per essere verificate, corrette quando necessario, e arricchite con i continui sviluppi.
Per portare alla luce le inchieste attuali e quelle del passato relative alla storia di chi si è battuto contro la mafia, è fondamentale non solo il lavoro dei giornalisti ma anche quello delle associazioni come “Libera”, attive sul territorio con innumerevoli iniziative che mirano soprattutto a coinvolgimento dei giovani.
In tutto il territorio italiano sono numerosissime le iniziative che ricorrono durante gli anniversari di stragi e omicidi avvenuti per mano mafiosa, ma si moltiplicano anche gli eventi volti alla sensibilizzazione verso le tematiche dell’antimafia e volti alla valorizzazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata.
Conoscere la storia di chi ha sacrificato la propria vita in nome della libertà di pensiero e di parola, di chi è morto per poter compiere il proprio lavoro onestamente, è necessario per poter portare avanti una lotta contro la mafia consapevole ed efficace. Ma è fondamentale anche l’impegno quotidiano nel far sì che la libertà di informazione venga tutelata e promossa in ogni angolo del Paese.
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