lunedì 2 luglio 2018

Anche per la Germania è finito il Novecento

L’evoluzione della crisi accelera a velocità crescente. Non solo o non tanto sul piano economico – la “botta” del 2008 non è mai stata riassorbita del tutto, o comunque non per tutte le aree principali – quanto su quello politico e dunque anche geopolitico.
L’effetto di gran lunga dominante, infatti, è stata la rottura della “coesione sociale” all’interno dei paesi di più antica industrializzazione, accompagnata – soprattutto in Europa – dalla centralizzazione delle politiche di bilancio dei singoli Stati. Mentre la gestione della crisi, ordoliberista (nella Ue) o neoliberista (nei paesi anglosassoni), moltiplicava le disuguaglianze, gli Stati nazionali venivano privati degli strumenti con cui da 60 anni si provvedeva a “calmierare” gli effetti sociali di una crisi.
Questa tagliola di spaventosa potenza ha bruciato, in appena dieci anni, “corpi intermedi” costruiti in due secoli. Partiti e sindacati storici sono stati svuotati, fatti implodere, annichiliti, paralizzati, resi complici stolidi e stupidi. Una tabula rasa più evidente “a sinistra”, dove i legami storici tra blocco sociale, forme organizzative e vaghi ideali riformisti erano un senso comune consolidato, mentre a destra sono state assai più rapide le riscritture delle “narrazioni” necessarie a supportare qualche straccio di “rappresentanza politica”. Sulla base, non per caso, di nazionalismo, razzismo, imprenditoria della paura, autoritarismo.
Da un punto di vista marxiano, il salario è diventato una “variabile eventuale”, compresso dunque per la prima volta da un secolo al di sotto dei livelli della riproduzione. Non è difficile rendersene conto. Basta guardare la condizione dei lavoratori under 40 per scoprire che trenta anni di “riforme del mercato del lavoro” per “favorire l’occupazione giovanile” hanno creato una condizione lavorativa in cui il salario realmente percepito dai “ggiovani” non consente di formare coppie stabili, fare figli, programmare la propria vita. Il meccanismo della riproduzione sociale è stato così pesantemente intaccato che è facile stilare proiezioni catastrofiche sul calo demografico delle popolazioni “autoctone”, aggravate dalla ripresa di fortissimi flussi migratori dai paesi della periferia a quelli del centro del capitalismo avanzato (Germania, Gran Bretagna, Olanda, ecc). Solo in Italia, ormai dovrebbe essere scolpito sui muri degli uffici pubblici, l’emigrazione ha superato l’immigrazione. Senza che il salario salisse di un euro, anzi… A dimostrazione che non sono “glimmigrati” la causa del suo infame livello.

Eppure quest’ultima categoria è stata facilmente trasformata nel capro espiatorio del crollo dei salari e dell’impoverimento generale.
Com’è stato possibile? Una chiave analitica importante arriva da Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza, che nel suo Angela e demoni, che qui sotto vi riproponiamo, coglie una dinamica universale in quanto sta avvenendo in questi anni in Germania.
Si è creata una saldatura tra l’ostilità dei Lander ex-orientali, i più poveri, e l’insofferenza della ricca Baviera. Emergono le contraddizioni delle politiche di deflazione salariale adottate con le riforme Hartz, volute alla fine degli anni Novanta dal Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder: da allora, la Germania è diventata sempre più ricca, ma i tedeschi paradossalmente sempre più poveri. Da quando è caduto il Muro, la quota dei salari sul reddito è scesa continuamente: non c’è più alcun bisogno di tenersi buoni i lavoratori. Ed i milioni di tedeschi che sbarcano il lunario con i minijob, i lavoretti precari a tempo parziale che fanno crollare la percentuale dei disoccupati, rappresentano l’altra faccia dell’aristocrazia operaia al servizio di una industria automobilistica scintillante che macina un record di esportazione dopo l’altro.
Il malessere sociale, che per oltre un secolo aveva avuto nei socialisti e nei comunisti un orizzonte politico, organizzativo, associativo, viene insomma raccolto e convertito in forza politica reazionaria da quelli che hanno enormi responsabilità per la crescita esponenziali dei fattori che creano il malessere sociale.
Un fenomeno che ai “teorici” della costruzione dell’Unione Europea, come gabbia d’acciaio in cui imporre l’interesse dominante del capitale multinazionale, non era neanche balenato per la testa. Convinti com’erano, e forse sono ancora, che la forza dei “mercati” avrebbe alla lunga “insegnato ai popoli come votare”.
Sorprende, ma fino ad un certo punto, vederselo dire da un giornale finanziario:
La traiettoria europea verso la costruzione di un’Unione politica si è interrotta bruscamente, per via di una gestione decennale della crisi basata sull’accrescimento delle disparità tra i diversi Paesi ed all’interno di ognuno. La tendenza al sovranismo, che altro non è se non la rinazionalizzazione delle politiche, ha trovato esca nella retorica dei “compiti a casa”, nell’ossequio alla indiscutibilità dei mercati, nella severa condizionalità posta alla concessione degli aiuti.
Eccoci improvvisamente fuori dal dibattito iper-ideologico che è stato imposto dai “riformisti di Bruxelles” e fatto proprio – spesso inconsapevolmente – anche da molta “sinistra radicale”. Se un sistema di trattati mai diventato Stato o comunità solidale (con trasferimenti interni tra aree avanzate e arretrate) non funziona più, è inevitabile che si imponga la necessità di fare una cosa diversa. Se questa necessità non viene riconosciuta, o addirittura viene osteggiata, ecco che le soluzioni arrivano solo da destra, con tutto lo strascico di merda che ciò comporta, a cominciare dalla “sinistra” socialmente riconosciuta come complice dei cravattari della Troika.
Ma l’analisi di Salerno Aletta, concentrata su Berlino, offre una visione globale che inquadra anche la Germania come un soggetto alle prese con la crisi del proprio modello, nonostante l’avesse disegnato in modo ottimale per trasferire i propri problemi sui partner mentre raccoglieva da questi i frutti migliori (imprese, attività, cervelli già molto ben formati, ecc).
Il conflitto politico più aspro si giocherà d’ora in avanti all’interno della Germania, e soprattutto tra questa e gli Usa: riguarderà da una parte il mantenimento del modello ordoliberista, che formalmente si oppone a qualsiasi intervento di stimolo alla domanda, vuoi attraverso la politica fiscale vuoi attraverso quella monetaria da parte della Bce, e dall’altra il modello di sviluppo export-led che finora ha assicurato alla Germania crescita ed occupazione.
La tenaglia che ha tranciato di netto le capacità di sviluppo di quasi tutti i partner-competitori-contoterzisti sta insomma trasformandosi in macchina infernale da auto-mutilazione. Se la guerra dei dazi si svilupperà alla velocità e nelle dimensioni che ogni guerra non voluta, prima o poi, produce, il risultato finale sarà niente affatto confortevole:
Una riforma strutturale dell’economia tedesca, che dovesse contare solo sulla domanda interna per riassorbire un saldo attivo strutturale pari all’8% del pil in un sistema produttivo in cui la quota asservita all’export si avvicina al 46%, richiederebbe sacrifici paragonabili a quelli imposti alla Grecia, tenendo conto che sono localizzate in Baviera e ad ovest del Reno gran parte delle fabbriche automobilistiche tedesche.
Il modello ordoliberista-mercantilista sta diventando autofago.
Ordoliberismo ed export-led economy si sono tenuti per mano. E non si può rinunciare a quest’ultima, se non abbandonando il primo. E’ stato reso perfetto un modello sbagliato, perché fondato sullo squilibrio internazionale perpetuo. […] La Storia ora ci presenta il conto. Tornare indietro sarà davvero difficile.
Mi raccomando, continuate a parlare di Unione Europea in termini di “sovranisti” ed “europeisti”… Rischiate il tso senza nemmeno accorgervene.

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