ArcelorMittal vuole “cannibalizzare” l’ex Ilva e lasciare a noi solo
le ossa? A Taranto si gioca una partita decisiva su lavoro, salute e
sviluppo complessivo del paese.
Scrive la rivista Il Mulino che per rispondere alla crisi del settore siderurgico in Europa – dovuta ai dazi messi dagli Usa, alla penetrazione dei prodotti provenienti da Cina, Turchia, India etc. – il modo in cui i grandi gruppi industriali stanno provando a fronteggiarlo “passa principalmente attraverso una sempre più intensa centralizzazione dei capitali, perseguita con fusioni e acquisizioni. Operazioni che consentono alle imprese non solo di ampliare le rispettive quote di mercato, ma altresì di estendere il controllo sulla capacità produttiva (…) Potendo contare su un numero maggiore di unità, operanti in diversi contesti o su diversi segmenti di mercato, un’impresa ha più margini anche per affrontare le crisi. Può scegliere di valorizzare le attività più remunerative e fermare – a tempo determinato o definitivamente – quelle in perdita. È sulla base di questa premessa che va letta la vicenda Ilva”.
I proprietari di ArcelorMittal, secondo Il Mulino potrebbero aver deciso (il condizionale è d’obbligo perché siamo a conoscenza solo di quello che trapela nel dibattito pubblico) di limitare i flussi di cassa negativi liberandosi dell’ex Ilva. “Una scelta comprensibile sul piano finanziario, e nell’ottica di breve periodo che orienta un’impresa quotata, che oltretutto mette a rischio la sopravvivenza di quel ramo d’azienda, prospettando la dismissione di una quota di produzione di un certo peso, con possibili effetti benefici sugli equilibri fra domanda e offerta. Tuttavia questa opzione non è esente da rischi”.
Se dopo il recesso di Arcelor Mittal un altro soggetto acquisisse le attività siderurgiche dell’ex Ilva, e ristrutturasse lo stabilimento rimettendole sul mercato, la multinazionale avrebbe fatto rinascere un concorrente sul mercato italiano. Secondo Il Mulino “Mittal scommette sull’irrealizzabilità di questa ipotesi, e ha dalla sua diversi elementi: su tutti, le difficoltà finanziarie che attanagliano gli operatori e le ristrettezze del mercato. Queste, combinate allo sforzo necessario per rimettere in campo Ilva, restringono le probabilità che quell’operazione possa verificarsi. Ma non le annullano del tutto”.
In qualche modo l’indagine aperta dalla Procura di Milano (e ci sentiamo di condividere questa ipotesi,ndr) sottolinea proprio questa eventualità, cioè che ArcelorMittal abbia acquistato l’ex Ilva non per ristrutturarla ma per chiuderla e “cannibalizzare” le sue quote sul mercato italiano della siderurgia. Era già accaduto con l’Italsider di Bagnoli negli anni ’80 ma, allargando l’orizzonte, potremmo dire che la stessa cosa è accaduta nella chimica, la farmaceutica, la produzione di autobus etc. etc. Con un eufemismo doloroso la chiamano “deindustrializzazione”, noi preferiamo chiamarla desertificazione industriale di un paese.
Il giro d’affari mondiale della filiera dell’acciaio è di quasi 2.900 miliardi di dollari. La World Steel Association stima in 96 milioni il numero complessivo dei lavoratori occupati nell’industria siderurgica.
Anche se preoccupati da un potenziale rischio di sovrapproduzione, la Cina e i paesi emergenti come India e Turchia, continuano a veder crescere il loro peso nel settore siderurgico.
Secondo le stime della World Steel Association, a settembre del 2018 la produzione mondiale ha raggiunto il livello di 151,71 milioni di tonnellate di acciaio, rispetto ai 145,28 del 2017, in aumento del 4,4%. In altre parole, sono state prodotte 6,4 milioni di tonnellate di acciaio in più rispetto allo stesso mese del 2017.
In Europa la produzione di acciaio nel periodo giugno-settembre è scesa del 13,6% a 10,4 milioni di tonnellate rispetto alle 12,1 milioni del secondo trimestre. Anche le spedizioni nel terzo trimestre sono diminuite del 17,9% a 9,7 milioni di tonnellate mentre le vendite sono state pari a 8,8 miliardi di dollari -15,4% rispetto ai 10,4 miliardi del secondo trimestre 2019.
La siderurgia italiana fino ad oggi ha mantenuto un ruolo di primo piano nel contesto economico nazionale ed europeo, essendo la seconda potenza produttiva a livello europeo e la decima a livello mondiale.
Il 2017 era stato un anno positivo per l’industria siderurgica italiana, grazie ad una produzione che ha superato i 24 milioni di tonnellate prodotte, un livello che non si vedeva dal 2013. Prodotti come laminazioni, trasformazioni e finiture e le fonderie italiane sono al primo posto a livello europeo, con un testa a testa con quelle tedesche. Nel comparto dei lunghi e dei prodotti di prima trasformazione (tubi saldati e senza saldature, filo trafilato e fucinati) l’Italia rimane uno dei leader europei.
Il fatturato totale in Italia della filiera siderurgica in senso stretto nel 2018 è stato di 62,403 miliardi di euro (erano 56,111 nel 2017, +11,2%).
ArcelorMittal Italia S.p.A. è dal novembre 2018 la filiale italiana della multinazionale franco-indiano- lussemburghese che si occupa prevalentemente della produzione e trasformazione dell’acciaio Il più importante stabilimento italiano è l’ex Ilva di Taranto che costituisce il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa. Altri stabilimenti in ballo sono quelli di Genova, Novi Ligure, Racconigi e Marghera.
In questo scenario l’ArcelorMittal in Italia ha visto la produzione a ottobre 2019 scendere a 4.5 milioni di tonnellate. Se hanno ragione i magistrati milanesi, il suo obiettivo è di operare affinchè diminuiscano ancora… fino a spegnersi. A quel punto la quota di mercato dei prodotti della ex Ilva sarebbe a disposizione di altri pescecani del settore, soprattutto se hanno a disposizione una filiera multinazionale su cui scaricare e abbattere i costi di produzione.
La chiusura dell’Ilva è stata invocata non solo dagli abitanti di Taranto avvelenati e uccisi da anni di inquinamento, ma anche da una parte dei lavoratori e dalla Usb.
Nel sondaggio condotto dall’Usb tra i lavoratori dell’Ilva di Taranto tra ottobre e novembre, per 1.223 operai (il 97,6% sulle 1.254 risposte ottenute), l’attuale ciclo produttivo integrale a carbone non è compatibile con il rispetto della salute umana e dell’ambiente
Già a luglio l’Usb aveva sostenuto coraggiosamente – e praticamente da sola – che “Taranto va liberata dai veleni mortiferi dell’acciaieria e va costruita un’alternativa occupazionale che garantisca salari, reddito, il diritto alla salute ed il rispetto dell’ambiente. Per questa ragione è necessario che il governo investa risorse ingenti in questo progetto. Senza un intervento pubblico non è sostenibile alcun progetto alternativo”.
Una tesi che ribadito anche lo scorso 4 novembre in sede di incontro con il ministro Patuanelli nel quale ha chiesto esplicitamente la pianificazione della chiusura dell’area a caldo ed un progetto straordinario di intervento pubblico delle bonifiche ambientali, per nuova occupazione, difesa del reddito e salvaguardia dei posti di lavoro. “Ora si tratta di riprendere Ilva in mano pubblica allo scopo di definire quel piano straordinario di chiusura delle fonti inquinanti, difesa del reddito, bonifiche e riconversioni” sostiene l’Usb, “lo Stato, per responsabilità diretta dei governi, ci arriva nel modo peggiore. Il rischio serio è che, se di ricatto si tratta, questo possa trovare tanti solidi alleati, anche nel sindacato”.
Su questi temi e con questi obiettivi si discuterà a Taranto mercoledi sera nel convegno organizzato da Potere al Popolo, ci si confronterà in una assemblea operaia nazionale convocata dall’Usb per giovedi 28, si sciopererà e si manifesterà nella stessa città venerdi 29 novembre. E’ una sfida a tutto campo per lavoro, salute e ambiente, tre questioni su cui il mercato e la visione privatistica non sono e non saranno mai in grado di dare soluzioni che guardino al benessere sociale e collettivo.
Scrive la rivista Il Mulino che per rispondere alla crisi del settore siderurgico in Europa – dovuta ai dazi messi dagli Usa, alla penetrazione dei prodotti provenienti da Cina, Turchia, India etc. – il modo in cui i grandi gruppi industriali stanno provando a fronteggiarlo “passa principalmente attraverso una sempre più intensa centralizzazione dei capitali, perseguita con fusioni e acquisizioni. Operazioni che consentono alle imprese non solo di ampliare le rispettive quote di mercato, ma altresì di estendere il controllo sulla capacità produttiva (…) Potendo contare su un numero maggiore di unità, operanti in diversi contesti o su diversi segmenti di mercato, un’impresa ha più margini anche per affrontare le crisi. Può scegliere di valorizzare le attività più remunerative e fermare – a tempo determinato o definitivamente – quelle in perdita. È sulla base di questa premessa che va letta la vicenda Ilva”.
I proprietari di ArcelorMittal, secondo Il Mulino potrebbero aver deciso (il condizionale è d’obbligo perché siamo a conoscenza solo di quello che trapela nel dibattito pubblico) di limitare i flussi di cassa negativi liberandosi dell’ex Ilva. “Una scelta comprensibile sul piano finanziario, e nell’ottica di breve periodo che orienta un’impresa quotata, che oltretutto mette a rischio la sopravvivenza di quel ramo d’azienda, prospettando la dismissione di una quota di produzione di un certo peso, con possibili effetti benefici sugli equilibri fra domanda e offerta. Tuttavia questa opzione non è esente da rischi”.
Se dopo il recesso di Arcelor Mittal un altro soggetto acquisisse le attività siderurgiche dell’ex Ilva, e ristrutturasse lo stabilimento rimettendole sul mercato, la multinazionale avrebbe fatto rinascere un concorrente sul mercato italiano. Secondo Il Mulino “Mittal scommette sull’irrealizzabilità di questa ipotesi, e ha dalla sua diversi elementi: su tutti, le difficoltà finanziarie che attanagliano gli operatori e le ristrettezze del mercato. Queste, combinate allo sforzo necessario per rimettere in campo Ilva, restringono le probabilità che quell’operazione possa verificarsi. Ma non le annullano del tutto”.
In qualche modo l’indagine aperta dalla Procura di Milano (e ci sentiamo di condividere questa ipotesi,ndr) sottolinea proprio questa eventualità, cioè che ArcelorMittal abbia acquistato l’ex Ilva non per ristrutturarla ma per chiuderla e “cannibalizzare” le sue quote sul mercato italiano della siderurgia. Era già accaduto con l’Italsider di Bagnoli negli anni ’80 ma, allargando l’orizzonte, potremmo dire che la stessa cosa è accaduta nella chimica, la farmaceutica, la produzione di autobus etc. etc. Con un eufemismo doloroso la chiamano “deindustrializzazione”, noi preferiamo chiamarla desertificazione industriale di un paese.
Il giro d’affari mondiale della filiera dell’acciaio è di quasi 2.900 miliardi di dollari. La World Steel Association stima in 96 milioni il numero complessivo dei lavoratori occupati nell’industria siderurgica.
Anche se preoccupati da un potenziale rischio di sovrapproduzione, la Cina e i paesi emergenti come India e Turchia, continuano a veder crescere il loro peso nel settore siderurgico.
Secondo le stime della World Steel Association, a settembre del 2018 la produzione mondiale ha raggiunto il livello di 151,71 milioni di tonnellate di acciaio, rispetto ai 145,28 del 2017, in aumento del 4,4%. In altre parole, sono state prodotte 6,4 milioni di tonnellate di acciaio in più rispetto allo stesso mese del 2017.
In Europa la produzione di acciaio nel periodo giugno-settembre è scesa del 13,6% a 10,4 milioni di tonnellate rispetto alle 12,1 milioni del secondo trimestre. Anche le spedizioni nel terzo trimestre sono diminuite del 17,9% a 9,7 milioni di tonnellate mentre le vendite sono state pari a 8,8 miliardi di dollari -15,4% rispetto ai 10,4 miliardi del secondo trimestre 2019.
La siderurgia italiana fino ad oggi ha mantenuto un ruolo di primo piano nel contesto economico nazionale ed europeo, essendo la seconda potenza produttiva a livello europeo e la decima a livello mondiale.
Il 2017 era stato un anno positivo per l’industria siderurgica italiana, grazie ad una produzione che ha superato i 24 milioni di tonnellate prodotte, un livello che non si vedeva dal 2013. Prodotti come laminazioni, trasformazioni e finiture e le fonderie italiane sono al primo posto a livello europeo, con un testa a testa con quelle tedesche. Nel comparto dei lunghi e dei prodotti di prima trasformazione (tubi saldati e senza saldature, filo trafilato e fucinati) l’Italia rimane uno dei leader europei.
La produzione di acciaio in Italia nel 2018
2010: 25,7 M.t. – 42 siti
2011: 28,7 M.t. – 42 siti
2012: 27,3 M.t. – 42 siti
2013: 24,1 M.t. – 41 siti
2014: 23,7 M.t. – 41 siti
2015: 22,0 M.t. – 41 siti
2016: 23,4 M.t. – 41 siti
2017: 24,1 M.t. – 39 siti
2018: 24,5 M.t. – 39 siti
(fonte: Federacciai, 2019)
In Italia viene prodotto il 14.6% della siderurgia dell’Unione
Europea a 28. Il 25,3% viene prodotto in Germania, in Francia il 9,2%,
in Spagna l’8,6%, in Polonia il 6,1%, in Belgio il 4,8. Nei restanti
ventidue paesi europei viene prodotto il 31,4%.Il fatturato totale in Italia della filiera siderurgica in senso stretto nel 2018 è stato di 62,403 miliardi di euro (erano 56,111 nel 2017, +11,2%).
ArcelorMittal Italia S.p.A. è dal novembre 2018 la filiale italiana della multinazionale franco-indiano- lussemburghese che si occupa prevalentemente della produzione e trasformazione dell’acciaio Il più importante stabilimento italiano è l’ex Ilva di Taranto che costituisce il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa. Altri stabilimenti in ballo sono quelli di Genova, Novi Ligure, Racconigi e Marghera.
In questo scenario l’ArcelorMittal in Italia ha visto la produzione a ottobre 2019 scendere a 4.5 milioni di tonnellate. Se hanno ragione i magistrati milanesi, il suo obiettivo è di operare affinchè diminuiscano ancora… fino a spegnersi. A quel punto la quota di mercato dei prodotti della ex Ilva sarebbe a disposizione di altri pescecani del settore, soprattutto se hanno a disposizione una filiera multinazionale su cui scaricare e abbattere i costi di produzione.
La chiusura dell’Ilva è stata invocata non solo dagli abitanti di Taranto avvelenati e uccisi da anni di inquinamento, ma anche da una parte dei lavoratori e dalla Usb.
Nel sondaggio condotto dall’Usb tra i lavoratori dell’Ilva di Taranto tra ottobre e novembre, per 1.223 operai (il 97,6% sulle 1.254 risposte ottenute), l’attuale ciclo produttivo integrale a carbone non è compatibile con il rispetto della salute umana e dell’ambiente
Già a luglio l’Usb aveva sostenuto coraggiosamente – e praticamente da sola – che “Taranto va liberata dai veleni mortiferi dell’acciaieria e va costruita un’alternativa occupazionale che garantisca salari, reddito, il diritto alla salute ed il rispetto dell’ambiente. Per questa ragione è necessario che il governo investa risorse ingenti in questo progetto. Senza un intervento pubblico non è sostenibile alcun progetto alternativo”.
Una tesi che ribadito anche lo scorso 4 novembre in sede di incontro con il ministro Patuanelli nel quale ha chiesto esplicitamente la pianificazione della chiusura dell’area a caldo ed un progetto straordinario di intervento pubblico delle bonifiche ambientali, per nuova occupazione, difesa del reddito e salvaguardia dei posti di lavoro. “Ora si tratta di riprendere Ilva in mano pubblica allo scopo di definire quel piano straordinario di chiusura delle fonti inquinanti, difesa del reddito, bonifiche e riconversioni” sostiene l’Usb, “lo Stato, per responsabilità diretta dei governi, ci arriva nel modo peggiore. Il rischio serio è che, se di ricatto si tratta, questo possa trovare tanti solidi alleati, anche nel sindacato”.
Su questi temi e con questi obiettivi si discuterà a Taranto mercoledi sera nel convegno organizzato da Potere al Popolo, ci si confronterà in una assemblea operaia nazionale convocata dall’Usb per giovedi 28, si sciopererà e si manifesterà nella stessa città venerdi 29 novembre. E’ una sfida a tutto campo per lavoro, salute e ambiente, tre questioni su cui il mercato e la visione privatistica non sono e non saranno mai in grado di dare soluzioni che guardino al benessere sociale e collettivo.
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