È assai probabile che si arrivi a un provvedimento di intervento
pubblico nel capitale non solo nel Monte dei Paschi, ma anche delle
altre banche in difficoltà. Si ipotizza così uno stanziamento di 15
miliardi di euro
E’ di ieri la notizia che le autorità di Francoforte hanno respinto la richiesta di una proroga nei tempi di scadenza, concordati per la fine di dicembre, per la messa in sicurezza del Monte dei Paschi di Siena, i cui ultimi dati economici e finanziari appaiono in questi mesi in rilevante peggioramento.
Il caso della banca toscana è per molti versi, dall’inizio alla fine, uno specchio fedele di alcuni dei mali del nostro paese.
Intanto nessuno aveva visto venire la crisi della banca, né il consiglio di amministrazione, né il collegio sindacale, né il management, né la stampa, né la Fondazione che controllava l’istituto, né i partiti che facevano contorno, né la Regione, né il Parlamento, né gli organi di controllo, dalla Banca d’Italia alla Consob. Anzi un dirigente che aveva retto le sorti dell’istituto per qualche tempo era stato poi premiato con la nomina a presidente dell’Abi, dove anche ovviamente nessuno si era accorto di nulla. Sembra proprio che nel nostro paese i controlli non esistano, a nessun livello.
E così la banca, ad un certo punto, si è ritrovata ad essere inserita nell’elenco, che speriamo non si allunghi ancora troppo nei prossimi mesi, dei nostri istituti in difficoltà, il cui andamento allarma da tempo la stampa internazionale e alimenta cattivi presagi sul nostro paese.
Si tratta, tra l’altro, dell’Unicredit, l’unica banca sistemica nazionale, che dovrebbe essere ricapitalizzata per 13 miliardi di euro mentre sta vendendo alcuni dei gioielli della corona, dopo che il suo management per anni aveva negato la necessità di intervenire, poi delle due banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) e dei “fantastici quattro” istituti (Etrutria, Banca delle Marche, Cariferrara, Carichieti) da tempo sotto i riflettori, oltre ad alcuni casi minori. Il tutto condito dalla presenza di 200 miliardi di crediti in sofferenza e di 160 miliardi di crediti incagliati.
Ricordiamo che, mentre si tende a attribuire le cause delle difficoltà dei nostri istituti esclusivamente alla crisi economica, in realtà esse sono da attribuire, almeno per una larga parte, anche ad alcune altre non brillanti caratteristiche del nostro sistema economico e politico, la corruzione diffusa, la cattiva gestione (le due cose spesso si uniscono), i rapporti incestuosi con il potere politico, la scarsa vigilanza.
Su tutto questo calderone il governo Renzi si è mosso sin dall’inizio con delle decisioni quasi sempre maldestre, come del resto da tempo accade da noi. Ricordiamo, tra tutte, il tentativo di scaricare gli obbligazionisti subordinati delle quattro banche sopra citate, tentativo finito poi nel caos, sino al pasticcio architettato nei giorni scorsi con l’MPS sempre sugli obbligazionisti subordinati, che a suo tempo avevano acquistato dei titoli con un livello moderato di rischio e si sono ritrovati, pena la perdita di tutto, a doverli sostituire con degli altri titoli molto più rischiosi. Sottolineiamo infine la bocciatura recente, da parte della Corte Costituzionale, del progetto governativo di riforma delle banche popolari, studiato come al solito con molta fretta ed improvvisazione.
Soprattutto, comunque, il governo Renzi non voleva sentir parlare di nazionalizzazione della banca senese, avendo, tra l’altro, una visione fanaticamente liberista dell’economia. E così le aveva provate tutte. In particolare, si era rivolto agli amici americani, nella persona in particolare di Jamie Dimon, della JPMorgan, a suo tempo fanatico oppositore negli Stati Uniti di ogni intervento pubblico di regolazione del sistema finanziario.
Si era così messa in piedi una cordata di banche internazionali che promettevano di trovare la via per aumentare il capitale della banca dei cinque miliardi necessari, mentre il fondo Atlante avrebbe pensato a coprire la partita dei crediti in sofferenza.
Ma si è visto poi che, nella sostanza, si trattava di propaganda pre-referendum e il cinque di dicembre il tavolo è saltato.
Noi non sappiamo cosa succederà ora veramente, le cose non sono ancora del tutto chiare, ma appare del tutto evidente che bisognerà arrivare nei prossimi giorni all’annuncio di un provvedimento di intervento pubblico nel capitale, sotto qualche forma, non solo nel Monte dei Paschi, ma probabilmente anche in quello delle altre banche in difficoltà. Si ipotizza così uno stanziamento di 15 miliardi di euro. Non sappiamo poi quali saranno le contropartite che ci chiederà la Bce, né quale sarà la sorte dei creditori dell’istituto. Ignoriamo anche cosà succederà alle altre banche e a tutti gli attori che si sono mossi intorno al loro salvataggio.
Noi siamo da tempo sostenitori di un intervento pubblico nel settore bancario, ma lo vedevamo nell’ambito di un disegno strategico che puntasse a fare delle banche nazionalizzate il perno di una nuova politica del credito, concentrata sul sostegno alle piccole e medie imprese, sull’incremento dell’occupazione, sulla crescita degli investimenti pubblici e dell’innovazione tecnologica, su una forte spinta, infine, al settore dell’economia verde.
Purtroppo, per come si presenta ora la cosa, come una via obbligata che non si aveva nessuna intenzione di percorrere, per di più con un governo in crisi e con la politica che pensa a tutt’altro, l’intervento potrebbe facilmente rivelarsi come il solito pasticcio, cui bisognerà poi porre in qualche modo rimedio.
E’ di ieri la notizia che le autorità di Francoforte hanno respinto la richiesta di una proroga nei tempi di scadenza, concordati per la fine di dicembre, per la messa in sicurezza del Monte dei Paschi di Siena, i cui ultimi dati economici e finanziari appaiono in questi mesi in rilevante peggioramento.
Il caso della banca toscana è per molti versi, dall’inizio alla fine, uno specchio fedele di alcuni dei mali del nostro paese.
Intanto nessuno aveva visto venire la crisi della banca, né il consiglio di amministrazione, né il collegio sindacale, né il management, né la stampa, né la Fondazione che controllava l’istituto, né i partiti che facevano contorno, né la Regione, né il Parlamento, né gli organi di controllo, dalla Banca d’Italia alla Consob. Anzi un dirigente che aveva retto le sorti dell’istituto per qualche tempo era stato poi premiato con la nomina a presidente dell’Abi, dove anche ovviamente nessuno si era accorto di nulla. Sembra proprio che nel nostro paese i controlli non esistano, a nessun livello.
E così la banca, ad un certo punto, si è ritrovata ad essere inserita nell’elenco, che speriamo non si allunghi ancora troppo nei prossimi mesi, dei nostri istituti in difficoltà, il cui andamento allarma da tempo la stampa internazionale e alimenta cattivi presagi sul nostro paese.
Si tratta, tra l’altro, dell’Unicredit, l’unica banca sistemica nazionale, che dovrebbe essere ricapitalizzata per 13 miliardi di euro mentre sta vendendo alcuni dei gioielli della corona, dopo che il suo management per anni aveva negato la necessità di intervenire, poi delle due banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) e dei “fantastici quattro” istituti (Etrutria, Banca delle Marche, Cariferrara, Carichieti) da tempo sotto i riflettori, oltre ad alcuni casi minori. Il tutto condito dalla presenza di 200 miliardi di crediti in sofferenza e di 160 miliardi di crediti incagliati.
Ricordiamo che, mentre si tende a attribuire le cause delle difficoltà dei nostri istituti esclusivamente alla crisi economica, in realtà esse sono da attribuire, almeno per una larga parte, anche ad alcune altre non brillanti caratteristiche del nostro sistema economico e politico, la corruzione diffusa, la cattiva gestione (le due cose spesso si uniscono), i rapporti incestuosi con il potere politico, la scarsa vigilanza.
Su tutto questo calderone il governo Renzi si è mosso sin dall’inizio con delle decisioni quasi sempre maldestre, come del resto da tempo accade da noi. Ricordiamo, tra tutte, il tentativo di scaricare gli obbligazionisti subordinati delle quattro banche sopra citate, tentativo finito poi nel caos, sino al pasticcio architettato nei giorni scorsi con l’MPS sempre sugli obbligazionisti subordinati, che a suo tempo avevano acquistato dei titoli con un livello moderato di rischio e si sono ritrovati, pena la perdita di tutto, a doverli sostituire con degli altri titoli molto più rischiosi. Sottolineiamo infine la bocciatura recente, da parte della Corte Costituzionale, del progetto governativo di riforma delle banche popolari, studiato come al solito con molta fretta ed improvvisazione.
Soprattutto, comunque, il governo Renzi non voleva sentir parlare di nazionalizzazione della banca senese, avendo, tra l’altro, una visione fanaticamente liberista dell’economia. E così le aveva provate tutte. In particolare, si era rivolto agli amici americani, nella persona in particolare di Jamie Dimon, della JPMorgan, a suo tempo fanatico oppositore negli Stati Uniti di ogni intervento pubblico di regolazione del sistema finanziario.
Si era così messa in piedi una cordata di banche internazionali che promettevano di trovare la via per aumentare il capitale della banca dei cinque miliardi necessari, mentre il fondo Atlante avrebbe pensato a coprire la partita dei crediti in sofferenza.
Ma si è visto poi che, nella sostanza, si trattava di propaganda pre-referendum e il cinque di dicembre il tavolo è saltato.
Noi non sappiamo cosa succederà ora veramente, le cose non sono ancora del tutto chiare, ma appare del tutto evidente che bisognerà arrivare nei prossimi giorni all’annuncio di un provvedimento di intervento pubblico nel capitale, sotto qualche forma, non solo nel Monte dei Paschi, ma probabilmente anche in quello delle altre banche in difficoltà. Si ipotizza così uno stanziamento di 15 miliardi di euro. Non sappiamo poi quali saranno le contropartite che ci chiederà la Bce, né quale sarà la sorte dei creditori dell’istituto. Ignoriamo anche cosà succederà alle altre banche e a tutti gli attori che si sono mossi intorno al loro salvataggio.
Noi siamo da tempo sostenitori di un intervento pubblico nel settore bancario, ma lo vedevamo nell’ambito di un disegno strategico che puntasse a fare delle banche nazionalizzate il perno di una nuova politica del credito, concentrata sul sostegno alle piccole e medie imprese, sull’incremento dell’occupazione, sulla crescita degli investimenti pubblici e dell’innovazione tecnologica, su una forte spinta, infine, al settore dell’economia verde.
Purtroppo, per come si presenta ora la cosa, come una via obbligata che non si aveva nessuna intenzione di percorrere, per di più con un governo in crisi e con la politica che pensa a tutt’altro, l’intervento potrebbe facilmente rivelarsi come il solito pasticcio, cui bisognerà poi porre in qualche modo rimedio.
Nessun commento:
Posta un commento