I dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico indicano che i cittadini italiani sono in assoluto tra i meno
indebitati del mondo, meno degli Americani, meno dei Francesi e meno dei
Britannici.
Il Regno Unito presenta addirittura il record di
indebitamento delle famiglie. Contrariamente a ciò che ci si potrebbe
aspettare, la disoccupazione e la precarietà costituiscono un incentivo
all’indebitamento. E dove ci sono più disoccupati, cioè tra i giovani,
vi è anche meno percezione dei rischi connessi all’uso della carta di
credito. Il quotidiano “Il Sole-24 ore” comunica a riguardo un dato
sconcertante, secondo il quale almeno il 5% dei giovani utenti inglesi
di carte di credito non ha neppure la consapevolezza che il denaro speso
vada restituito.
Se i dati OCSE confermano invece l’attitudine
prudente e risparmiatrice degli Italiani, l’informazione ufficiale non
perde comunque l’occasione per ricordare che il debito pubblico italiano
appare ancora fuori controllo. I due dati però non sono affatto in
contraddizione come ci si vorrebbe far credere. Se gli Italiani sono
poco indebitati è perché sono in gran parte creditori dello Stato, cioè
tendono a risparmiare in titoli pubblici nonostante i consigli in senso
contrario delle banche, le quali vorrebbero riservare per loro stesse
quel tipo di investimento così scevro da rischi.
Attualmente il
debito pubblico italiano è di nuovo quasi tutto interno ed un governo
meno prono alle lobby finanziarie potrebbe facilmente renderlo tutto
interno, perché c’è un ceto medio ancora capace di comprarlo, quindi
oggi l’emergenza-spread appare più fittizia che mai. Ciò dovrebbe
sfatare molto del terrorismo che ancora si diffonde circa i disastri di
un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro. Evocare continuamente
l’esempio della Grecia per avallare questi terrori non tiene conto del
fatto che il debito pubblico greco è nella gran parte nei confronti di
creditori esteri.
Probabilmente gli “euristi” fanno tanto
terrorismo poiché sono a loro volta terrorizzati; infatti non ci viene
spiegato come mai, in quattordici anni di storia, l’euro non sia mai
diventato una valuta di riserva, cioè una moneta di pagamento per gli
scambi internazionali che fosse alternativa, o almeno complementare, al
dollaro. Il punto è che l’euro va bene per tenere compatto il gregge
europeo sotto lo stemma NATO, ma non certo per dar fastidio agli Stati
Uniti, ovviamente se si vuole rimanere vivi ed in salute (e ciò spiega
la persistente pavidità anche di quegli esponenti della “sinistra” e di
quei dirigenti sindacali che, a differenza di Renzi, non possono
affidare la propria salvezza personale alla prospettiva di farsi
cooptare in qualche lobby multinazionale).
Il motivo per cui in
Italia c’è meno indebitamento delle famiglie non è genericamente
culturale, ma è dovuto appunto alla presenza di un ceto medio vasto e
consistente; un ceto medio che costituisce un notevole datore di lavoro
attraverso il fenomeno dei badanti e che svolge anche la funzione di
ammortizzatore sociale per i giovani lavoratori precari e privi di
garanzie che trovano nella famiglia il proprio punto d’appoggio. Ci
sarebbe comunque da dubitare circa il carattere lusinghiero e
confortante dei dati OCSE sullo scarso indebitamento delle famiglie
italiane. Quei dati indicano infatti che gli Italiani rappresentano un
target dei “servizi finanziari” ancora tutto da colonizzare.
Nel
settembre scorso la Banca Centrale Europea ha rilasciato dichiarazioni
di apprezzamento sui risultati del renziano “Jobs Act”, il quale avrebbe
impresso “dinamismo” all’occupazione. La stessa BCE si lamenta però del
fatto che l’Italia ha contribuito scarsamente alla ripresa economica in
Europa. Le dichiarazioni della BCE sono quindi contraddittorie o
quantomeno equivoche. In realtà se ci fosse stato davvero un aumento
dell’occupazione in Italia, questo si sarebbe riflesso anche in un
aumento della produttività e del PIL, che invece non c’è stato. Non per
niente la BCE, invece di parlare di aumento dell’occupazione, adopera
un’espressione ambigua come “dinamismo”, che può voler dire tutto e
niente.
Le mistificazioni spudorate del nostro compatriota
Mario Draghi dimostrano chiaramente per quale lobby coloniale lavori,
quella che vuole sostituire i redditi da lavoro con i prestiti, ciò che
in termini tecnici si può definire come “finanziarizzazione dei rapporti
sociali”. Il credito/debito diviene quindi la relazione sociale
fondamentale, quella a cui tutte le altre sono subordinate. E questo è
ancora niente, in quanto occorre considerare che il credito elargito in
denaro elettronico/digitale è a rischio zero, poiché l’eventuale
insolvenza del debitore non comporta per le banche nessuna perdita di
liquidità. Il rischio è quindi interamente a carico del debitore. Non si
era mai verificata nella Storia una relazione sociale così squilibrata.
La finanziarizzazione dei rapporti sociali non rappresenta una “fase”
del capitalismo, bensì costituisce l’esito scontato
dell’assistenzialismo per ricchi ogni qual volta i rapporti di forza lo
consentano, ovvero quando la disoccupazione sia ormai cronicizzata.
Gli obiettivi del “Jobs Act” si inquadrano perciò nel progetto
recessivo dell’euro, cioè impoverire e precarizzare la popolazione
lavoratrice e logorare il ceto medio per costringere tutti ad accedere
maggiormente a “servizi finanziari”. Non a caso la stessa BCE, dopo gli
apprezzamenti sul “Jobs Act”, non rinuncia alla solita ramanzina sul
debito pubblico; proprio quel debito pubblico che costituisce tuttora il
rifugio del risparmio delle famiglie e che fa da ombrello persino alle
banche italiane.
Sino alla caduta del Muro di Berlino il ceto
medio proprietario di immobili e titoli era stato uno dei capisaldi
della reazione al comunismo, mentre oggi la lobby finanziaria globale
sta facendo di tutto per spolparlo. Il ceto medio italiano è più nel
mirino di altri perché dispone ancora di parecchio da saccheggiare.
Questo ceto medio ha difficoltà a difendersi a causa della sua
vulnerabilità ideologica nei confronti degli slogan del “rigore” e dell’
“abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”; ciò in conseguenza di
una tradizionale mentalità pauperistica e di un atteggiamento punitivo
nei confronti del lavoro. Tale mentalità può spesso camuffarsi di slogan
progressisti e di moralismo anti-consumistico, ma si smaschera per la
sua tendenza a colpevolizzare le rivendicazioni salariali. Un’alleanza
tra il ceto medio in via di “proletarizzazione” e la classe operaia
rimane quindi problematica e forse impossibile.
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