La
chiusura di 23 pagine Facebook italiane – buona parte “tifose” della
Lega o dei Cinque Stelle – è una classica “novità” da esaminare con
attenzione.
La decisione dei vertici del social fondato a Mark Zuckerberg è arrivata dopo un’inchiesta condotta da Avaaz, una ong internazionale che ha censito con cura una serie di account intestati a nomi improbabili e che “informazioni false e contenuti divisivi contro i migranti, antivaccini e antisemiti”.
Roba da chiudere anche a mazzate, insomma. E, fin qui, nulla da eccepire. Siamo tutti tormentati quotidianamente da centinaia di post “condivisi” – spesso da gente che si fa abbindolare solo da un titolo studiato apposta – che sparano idiozie di ogni tipo. Noi stessi, quasi ogni giorno, segnaliamo ai nostri lettori fake news di grande rilevanza, magari diffuse dai più accreditati media mainstream…
Stiamo parlando qui di pagine abbastanza seguite (un totale di quasi due milioni e mezzo di followers), che contribuivano insomma a creare un pubblico intossicato da “informazioni” false, slogan razzisti, credenze antiscientifiche, ecc. Gente che poi vota in base a quel che crede di “sapere”…
I problemi su cui ragionare, dunque, non riguardano affatto la “difesa della libertà di espressione” – che ai falsari consapevoli va sempre negata (gli errori sono un’altra cosa, e li commettono tutti: si riconoscono, si chiede scusa e si va avanti) – ma sull’origine di questa operazione di “pulizia”.
Che è totalmente privata. Lo è l’ong Avaaz; lo è soprattutto Facebook, il social con più utenti al mondo, che sulle scemenze e i profili individuali rivenduti sul “mercato” ha costruito l’immensa fortuna del suo fondatore.
Un “privato” può indubbiamente negare a chiunque creda l’accesso sulla sua piattaforma. Ma questo toglie parecchio fascino a un “luogo” che è stato presentato come un palestra di libera espressione. In futuro, per esser chiari, a seconda delle vicende politiche del mondo, potrebbero essere “bannate” altre tipologie di utenti o creatori di pagine, in base a criteri decisi soltanto dal “proprietario”.
Non si tratta di un’illazione, in quanto tra motivazioni addotte c’è esplicitamente anche la capacità di quelle pagine di “influire sulle elezioni”. Se questa volta l’operazione “repulisti” ha colpito gente che poteva essere tranquillamente repressa dalla “mano pubblica” (ma ce lo vedete voi Salvini chudere le pagine dei contafrottole che l’hanno gonfiato come un pallone nei consensi?), la prossima potrà toccare ad altre forze o ideologie sgradite al “proprietario”.
Una volta inaugurata la prassi dell’esclusione “per via privata”, insomma, non c’è teoricamente o legalmente alcun limite: tutto dipende dagli interessi di mr. Zuckerberg (sia commerciali che politici o geopolitici).
In questo senso, si conferma in mondo concreto che la “globalizzazione” è finita. E con essa l’indifferenza per le varie opzioni, idee, concezioni del mondo, ideologie. E Facebook tende a trasformarsi in “piattaforma dell’Occidente”, contrapposta a quelle cinesi o russe o – se ne esistessero, nella decadente Unione Europea dell’austerità e della ridottissima ricerca scientifica – europea. Anzi, di un Occidente politically correct il cui baricentro viene fissato da un solo azionista…
Non è l’unico punto critico nascosto sotto questa notizia. C’è il tema dell’impotenza degli Stati – specie quelli meno grandi e meno dottati sul piano tecnologico – davanti allo strapotere delle multinazionali (come se non bastassero le “oscillazioni di mercato” e lo spread). Il fatto che la legalità di alcuni contenuti – la loro “propagandabilità” – sia decisa non da istituzioni democraticamente elette, ma da singoli imprenditori, segna un fondamentale punto di crisi nello sviluppo della democrazia.
C’è il tema del significato reale delle presunte “condivisioni”, istituzionalmente ridotte a impressioni senza alcun fondamento. La superficialità con cui, su qualsiasi social network, si concede un like o si gira un contenuto – rendendolo potenzialmente virale – è un risultato di un lungo processo di svuotamento del pensiero. Sia individuale che collettivo.
Pensateci un attimo. Si dedica meno tempo – e riflessione – a un atto del genere, potenzialmente creatore di un senso comune politicamente influente, piuttosto che a qualsiasi altro gesto della banalissima vita quotidiana. Al punto che ci si “affilia” a una linea ideologica con molta meno attenzione di quanto non si dedica alla cottura di due uova al tegamino.
La decisione dei vertici del social fondato a Mark Zuckerberg è arrivata dopo un’inchiesta condotta da Avaaz, una ong internazionale che ha censito con cura una serie di account intestati a nomi improbabili e che “informazioni false e contenuti divisivi contro i migranti, antivaccini e antisemiti”.
Roba da chiudere anche a mazzate, insomma. E, fin qui, nulla da eccepire. Siamo tutti tormentati quotidianamente da centinaia di post “condivisi” – spesso da gente che si fa abbindolare solo da un titolo studiato apposta – che sparano idiozie di ogni tipo. Noi stessi, quasi ogni giorno, segnaliamo ai nostri lettori fake news di grande rilevanza, magari diffuse dai più accreditati media mainstream…
Stiamo parlando qui di pagine abbastanza seguite (un totale di quasi due milioni e mezzo di followers), che contribuivano insomma a creare un pubblico intossicato da “informazioni” false, slogan razzisti, credenze antiscientifiche, ecc. Gente che poi vota in base a quel che crede di “sapere”…
I problemi su cui ragionare, dunque, non riguardano affatto la “difesa della libertà di espressione” – che ai falsari consapevoli va sempre negata (gli errori sono un’altra cosa, e li commettono tutti: si riconoscono, si chiede scusa e si va avanti) – ma sull’origine di questa operazione di “pulizia”.
Che è totalmente privata. Lo è l’ong Avaaz; lo è soprattutto Facebook, il social con più utenti al mondo, che sulle scemenze e i profili individuali rivenduti sul “mercato” ha costruito l’immensa fortuna del suo fondatore.
Un “privato” può indubbiamente negare a chiunque creda l’accesso sulla sua piattaforma. Ma questo toglie parecchio fascino a un “luogo” che è stato presentato come un palestra di libera espressione. In futuro, per esser chiari, a seconda delle vicende politiche del mondo, potrebbero essere “bannate” altre tipologie di utenti o creatori di pagine, in base a criteri decisi soltanto dal “proprietario”.
Non si tratta di un’illazione, in quanto tra motivazioni addotte c’è esplicitamente anche la capacità di quelle pagine di “influire sulle elezioni”. Se questa volta l’operazione “repulisti” ha colpito gente che poteva essere tranquillamente repressa dalla “mano pubblica” (ma ce lo vedete voi Salvini chudere le pagine dei contafrottole che l’hanno gonfiato come un pallone nei consensi?), la prossima potrà toccare ad altre forze o ideologie sgradite al “proprietario”.
Una volta inaugurata la prassi dell’esclusione “per via privata”, insomma, non c’è teoricamente o legalmente alcun limite: tutto dipende dagli interessi di mr. Zuckerberg (sia commerciali che politici o geopolitici).
In questo senso, si conferma in mondo concreto che la “globalizzazione” è finita. E con essa l’indifferenza per le varie opzioni, idee, concezioni del mondo, ideologie. E Facebook tende a trasformarsi in “piattaforma dell’Occidente”, contrapposta a quelle cinesi o russe o – se ne esistessero, nella decadente Unione Europea dell’austerità e della ridottissima ricerca scientifica – europea. Anzi, di un Occidente politically correct il cui baricentro viene fissato da un solo azionista…
Non è l’unico punto critico nascosto sotto questa notizia. C’è il tema dell’impotenza degli Stati – specie quelli meno grandi e meno dottati sul piano tecnologico – davanti allo strapotere delle multinazionali (come se non bastassero le “oscillazioni di mercato” e lo spread). Il fatto che la legalità di alcuni contenuti – la loro “propagandabilità” – sia decisa non da istituzioni democraticamente elette, ma da singoli imprenditori, segna un fondamentale punto di crisi nello sviluppo della democrazia.
C’è il tema del significato reale delle presunte “condivisioni”, istituzionalmente ridotte a impressioni senza alcun fondamento. La superficialità con cui, su qualsiasi social network, si concede un like o si gira un contenuto – rendendolo potenzialmente virale – è un risultato di un lungo processo di svuotamento del pensiero. Sia individuale che collettivo.
Pensateci un attimo. Si dedica meno tempo – e riflessione – a un atto del genere, potenzialmente creatore di un senso comune politicamente influente, piuttosto che a qualsiasi altro gesto della banalissima vita quotidiana. Al punto che ci si “affilia” a una linea ideologica con molta meno attenzione di quanto non si dedica alla cottura di due uova al tegamino.
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