Il 18 aprile è uscito nelle librerie “La France tra Macron e Mélenchon. La sfida di France Insoumise”
(Pgreco Edizioni, 2019) di Giacomo Marchetti, Andrea Mencarelli e
Lorenzo Trapani. Il libro indaga tre differenti “oggetti politici”:
l’affermazione e la crisi del Macronismo, la crescita e il
posizionamento politico de La France Insoumise, lo sviluppo e le
dinamiche del grande movimento di protesta popolare dei Gilets Jaunes.
Le
questioni sono numerose, articolate, intrecciate, complesse, risultato
di una realtà oggettiva che richiede uno sforzo maggiore di
comprensione, andando a coniugare all’attenzione quotidiana un
approfondimento concreto, soprattutto in una fase di accelerazione degli
eventi e di loro continua evoluzione.
Il
libro rappresenta un tentativo in questa direzione, attraverso una
cronaca ragionata basata sulla rielaborazione dei contributi pubblicati
in chiave giornalistica, interviste inedite e traduzioni dei documenti.
Senza alcuna presunzione didattica, si cerca di offrire una fotografia
dinamica del contesto politico e sociale francese negli ultimi due anni,
andando a cogliere quegli aspetti fondamentali che segnano l’evoluzione
e la trasformazione del panorama d’oltralpe.
Qui la prefazione: http://contropiano.org/news/cultura-news/2019/04/08/la-francia-tra-macron-e-melenchon-la-sfida-di-france-insoumise-0114256
Pubblichiamo l’intervista a Clémentine Autain (deputata di France Insoumise e direttrice della rivista Regards)
realizzata da Andrea Mencarelli e contenuta nel libro. Si ringrazia
Giada Pistilli (Potere al Popolo! Parigi) per la collaborazione e per la
trascrizione dell’intervista.
***
Sei
stata tra i firmatari de “L’appello dei 58” (“Noi manifestiamo durante
lo stato di emergenza”), a seguito della decisione di François Hollande
di attuare lo stato di emergenza dopo gli attacchi del 2015. Hai
sostenuto la mozione di rifiuto dell’estensione voluta da Emmanuel
Macron, in quanto pregiudizievole per le libertà civili e il diritto di
manifestare. Le conseguenze sui dimostranti sono state visibili durante
la lotta contro la Loi Travail e la COP21. Recentemente,
Amnesty ha dichiarato che il diritto di manifestare è sotto minaccia in
Francia, in particolare nel contesto degli ultimi mesi con la
mobilitazione dei Gilets Jaunes. Questo rischio esiste davvero?
Dall’epoca
di Thatcher in poi, c’è stato un binomio ben funzionante tra il
liberalismo economico e la deregolamentazione, da un lato, e una
maggiore repressione e autoritarismo, dall’altro. Tutto ciò
contrariamente alla favola che ci è stata raccontata per molto tempo,
secondo la quale sarebbero stati il comunismo e le esperienze in stile
sovietico ad essere etichettate come totalitarismo, e quindi società
liberticide. Inoltre, ci hanno raccontato che il capitalismo avrebbe naturalmente portato con sé più libertà, più democrazia…
Siamo
in una nuova fase politica ed economica in cui vediamo un’affermazione
dello Stato attraverso un maggiore controllo sociale. E in Francia
questo non è del tutto nuovo. Direi che con Macron, a differenza della
sua parvenza (il fatto che sia giovane, che affermi di essere “moderno”,
che sembri aperto e amichevole), non ci aspettavamo necessariamente che
ci cadessero addosso leggi così violente dal punto di vista dei diritti
umani.
La
prima, che credo abbia avuto un impatto significativo sulla mente delle
persone, è stata l’incorporazione delle misure di emergenza nel diritto
comune: esse hanno trasposto misure eccezionali nel diritto comune (la
prima legge che viola i diritti e le libertà fondamentali). Poi hanno
fatto questa Loi Asile-Immigration, che è prima di tutto uno
scandalo in relazione all’obbligo di umanità necessaria nel momento
storico che stiamo attraversando, ma è anche uno scandalo insieme al
fatto che Macron si è presentato ai francesi come il bastione contro
l’estrema destra.
Il
governo si vantava di aver trovato un equilibrio, dicendo: “È
protezione e fermezza”. Questo equilibrio non è affatto presente nel
testo, poiché non migliora per niente i diritti dei migranti. Al
contrario, la legge complica la possibilità di accedere a un permesso di
soggiorno e di essere accolti in Francia. Contiene misure
particolarmente inaccettabili, come quelle che consentono
l’incarcerazione di giovani minori.
Quindi,
non solo tutto rimane complicato nel diritto di accesso al permesso di
soggiorno (è quindi la fermezza che ha dominato), ma ci sono anche
misure molto dannose per i diritti dei bambini, il che è assolutamente
allucinante.
Dall’arrivo
di Macron come Presidente della Repubblica, la situazione sembra essere
peggiorata sotto i suoi stessi auspici, come dimostra anche il caso
Benalla.
A
mio parere, non si dice abbastanza, ma l’ONU ha ripreso la situazione
francese; c’è un funzionario dell’ONU che è venuto a redigere una
relazione preliminare in estate e che ha messo in guardia sulla
questione delle libertà pubbliche in Francia. Siamo quindi in una
situazione di conflitto… per non parlare del profilo monarchico del
nostro Presidente della Repubblica: egli è veramente il monarca! E lui
stesso ci aveva avvertito! Durante le elezioni ha detto in sostanza che i
francesi avevano bisogno di un re!
I
francesi sarebbero nostalgici del re ed è per questo che lo chiamano
Giove. E il caso Benalla evidenzia questo rapporto con i diritti e la
giustizia, poiché il Presidente della Repubblica ne ha parlato molto
chiaramente. In Francia è un grosso scandalo che ci ha tenuto molto
occupati la scorsa estate – e non è ancora finita! Perché ogni giorno ci
sono nuovi pezzi della storia che vengono aggiunti.
É
pazzesco: in questo caso, quando si deve effettuare una perquisizione a
casa di una persona prossima al Presidente della Repubblica, questa può
essere rinviata al giorno successivo. Nel frattempo, la cassaforte che
gli investigatori erano andati a prendere è scomparsa nella notte…
E
Benalla ha passaporti diplomatici che avrebbero dovuto essere
restituiti dopo il suo licenziamento, ma l’amministrazione non li ha
dichiarati nulli e lui è andato all’estero a fare i suoi affari!
Anche
l’apparato statale repressivo ha trovato nuovi metodi e meccanismi per
reprimere le proteste sociali degli ultimi anni, derivanti dalla crisi
economica e dalle politiche liberali dei governi di Hollande e Macron.
Poiché
il sistema economico sta colpendo molto violentemente le persone, è
imperativo avere un modo per controllare la rabbia legittima, che
certamente si esprimerà. E così, per arginarla, ci sono oggi mezzi di
coercizione piuttosto violenti. Inoltre, il movimento dei Gilets Jaunes è
stato represso ad un livello mai visto dal maggio 1968. Abbiamo avuto
più di 5.000 persone in garde à vue, più di 1.000 feriti (dati di
gennaio), alcuni dei quali gravemente (avendo perso una mano o un
occhio), per l’uso di flashball a tutto campo e delle famose granate
GLI-F4 (che sono utilizzate solo in Francia) e un tono di violenza
estremamente eccessivo.
I
sindacati sono in difficoltà anche perché il ruolo negoziale e di
mediazione che hanno svolto nel XX secolo è al livello minimo. Perché
tutti i governi che si sono succeduti – non è solo Macron, ma comincia
già da prima – non giocano più un ruolo nel mediare e dare guadagni ai
sindacati…
Quindi
siamo in una situazione in cui la partita si gioca altrove – è il caso
del movimento dei Gilets Jaunes – perché c’è un problema di credibilità
anche per i sindacati relativa alla loro capacità di essere buoni
convogli per migliorare le condizioni di vita e di lavoro e far
progredire le rivendicazioni.
Così
tutto ciò accade all’esterno del gioco istituzionale e si crea una
situazione di crisi sociale e politica. Inoltre, la questione della
mediazione è una vera problematica, specialmente in una società in cui
tutte le possibilità di mediazione sono state tagliate fuori (quelli che
in Francia rappresentano i “corpi intermedi”).
Abbiamo parlato del movimento dei Gilets Jaunes. Puoi darci in breve la tua opinione sulle rivendicazioni?
Quello
che ci ha colpito in Francia è che, di solito, mobilitazioni sociali di
questo tipo hanno a che fare con il movimento operaio; significa che
sono spinte, infuse, penetrate dai sindacati, dalle forze
comuniste/socialiste (sto parlando delle lotte del XX secolo e anche
dell’inizio del XXI secolo).
Dall’inizio
del XXI secolo, ma già da prima (’95, il movimento dei pensionati, il
movimento degli insegnanti, il CPE…), tutte le lotte sociali che abbiamo
avuto negli ultimi decenni sono state fatte da movimenti in cui noi ci
siamo comportati naturalmente, come pesci nell’acqua, e li abbiamo
sostenuti.
Qui,
con i Gilets Jaunes, il fenomeno è abbastanza nuovo: ci troviamo con
una mobilitazione che non è guidata da dirigenti di organizzazioni note
al movimento operaio, sostenute in parte dall’estrema destra e molto da
noi – il che è estremamente atipico!
É
necessario essere in grado di comprendere questa situazione senza
precedenti. Questo riguarda sia la parte di persone che si sono
mobilitate per via della loro appartenenza geografica, abbastanza chiara
in quei luoghi come le rotatorie, e che corrisponde ad un certo tipo di
popolazione che costituisce il popolo, ma non l’intero popolo!
Per
esempio, io sono deputata di Seine Saint-Denis… Nella periferia
popolare non sto dicendo che non ci sono Gilets Jaunes, ce ne sono
alcuni, ma non è un grande movimento come il movimento dei ferrovieri,
infermieri (che all’inizio diceva “non vogliamo stare con i gilets
gialli”).
La
sfida e la difficoltà per il futuro sarebbe riuscire a federare queste
diverse parti del popolo: assicurare che ci sia una possibile
convergenza tra coloro che continuano ad esistere perché fanno parte
della tradizione del movimento dei lavoratori e tra ciò che di nuovo si
cristallizzando intorno ai Gilets Jaunes.
Se
non arriviamo a questa convergenza, penso che ci troveremmo in una
situazione pericolosa, perché ci potrebbe essere una lettura sommaria e
superficiale, propria dell’estrema destra, che dirà “guardate, sono i
bianchi della periferia di cui stiamo parlando, e che hanno voluto
sfuggire a queste pericolose periferie dove c’è una popolazione
risultato dell’immigrazione, loro rappresentano il vero popolo bianco,
di commercianti, indipendente”.
Hai
fortemente criticato il disegno di legge sui Gilets Jaunes proposto dal
governo Macron, che, di fronte al desiderio di giustizia sociale e
fiscale, distribuisce solo le briciole. Quali sono le responsabilità
della sinistra, negli anni precedenti e soprattutto oggi?
Penso
che sia stato necessario fin dall’inizio essere presenti, sia per
andare lì (alle manifestazioni dei Gilets Jaunes) sia per anticipare con
estrema precisione le difficoltà in cui ci saremmo trovati dopo. La
nostra strategia è proprio quella di essere presenti, pur avendo chiari i
limiti del pericolo che esiste, ovvero quello di offuscare i punti di
riferimento politici. Avevamo anche bisogno di lungimiranza per capire
che stavamo iniziando un rapporto di forza che ci era sfavorevole…
Voglio
dire, Le Pen era al secondo turno delle elezioni presidenziali; il
rapporto di forza in tutti i sondaggi dimostra ancora che non siamo
davanti all’estrema destra, quindi sono in un certo senso più avanti di
noi. Quindi, se non comprendiamo tutto questo, il voto sull’efficacia
del discorso politico andrà più al Front National che a noi.
Penso
che questa sia la sfida, come quando abbiamo lottato nel 2005 durante
la consultazione sulla Costituzione europea, dove ci siamo trovati
subito in quella che poteva essere trappola del “no”, dove c’era anche
l’estrema destra. Il rischio è il tono del dibattito potesse essere
quello del ripiegamento nazionale identitario, la xenofobia, ecc…
Invece
abbiamo lottato bene, abbiamo fatto collettivi per il “no” al TCEU da
sinistra, con sindacati, partiti politici, personalità, appelli di
intellettuali. Era davvero un movimento centripeto, molto orizzontale e
vario. Alla fine, abbiamo vinto la battaglia delle idee e ciò significa
che il “no” è stato totalmente importato dalla nostra famiglia politica,
dalle nostre idee per il progresso, per la nostra idea di Europa e non
per la chiusura delle frontiere.
Il
movimento dei Gilets Jaunes ci mostra come ci stiamo muovendo in un’era
senza un vero e proprio movimento operaio e dei lavoratori. In più, il
movimento delle donne in gilets giallo non mi è piaciuto affatto e su
quello bisogna intervenire, perché ho sentito cose del tipo “noi siamo
donne, ma non femministe”.
Dobbiamo
provare a raccontare questa realtà dei Gilets Jaunes come sta facendo
Ruffin. Quando dici qualcosa, il modo in cui lo fai contribuisce alla
lettura del fenomeno, anche se credo che funzioni fino ad un certo
limite. Ma di sicuro non si può vivere nel completo rifiuto di
affrontare questa analisi e queste sfide.
Che dire del rischio di recuperi da parte dell’estrema destra?
Questa
è la nostra difficoltà: come esserci dentro (ovviamente, perché è una
rabbia popolare – come non essere sensibili ad un movimento che è contro
le disuguaglianze territoriali e finanziarie?), ma vedendo che c’è una
potenziale trappola. Isolare questa parte del popolo dal resto della
popolazione sarebbe un rischio e un errore (penso in particolare alle
periferie popolari o ai ferrovieri).
Come
fare questa sintesi? Come federiamo questo popolo e come riusciamo ad
essere ben identificati su una questione di progresso sociale, che non è
assolutamente quella dell’estrema destra?
Non
meno importante, ciò che il movimento dei Gilets Jaunes ci insegna
molto chiaramente è che fino ad ora, quando abbiamo parlato di popolo,
abbiamo avuto una visione che si basava principalmente sulla questione
dello status o dello stipendio, e non sulla questione dell’appartenenza
ad un territorio. Penso che la questione dell’uguaglianza territoriale
(del territorio e degli stili di vita che lo accompagnano – perché
quando ci si trova in un territorio sono coinvolti anche gli stili di
vita) sia fondamentale.
Catherine Tricot (giornalista di Regards) lo dice in un articolo molto interessante su Le Monde,
dove parla del desiderio di gran parte dei Gilets Jaunes, che si
trovavano in fondo alla scala sociale e che vogliono fuggire dalla banlieue,
ma che sognano di trasferirsi una casa con il proprio barbecue e avere
una certa indipendenza professionale. Questo è ancora un sogno piuttosto
liberale, che ha portato molte persone a contrarre debiti. In più, la
distanza sempre maggiore dai servizi pubblici è una questione che non è
mai stata affrontata e che rende la loro situazione ancor più difficile.
Quindi,
questa questione del territorio, a mio parere, si presenta anche con i
Gilets Jaunes e deve essere affrontata a testa alta. Abbiamo alcuni
pensatori di quella che chiamiamo la geografia del capitale e di tutte
queste questioni legate al territorio, due grandi pensatori come Henri
Lefebvre e David Harvey, che hanno lavorato bene su queste sfide e su
questo modo di pensare politicamente la questione del territorio.
Eri
con i collettivi del 29 maggio per la campagna contro il Trattato
costituzionale europeo, durante il referendum francese del 2005. Oggi
nel programma politico per le elezioni europee di Francia Insoumise è
chiaramente scritto che “bisogna uscire dagli attuali trattati europei”.
Penso che la France Insoumise abbia ben articolato la sua posizione
sull’Unione Europea e sul ruolo dei trattati europei. Puoi spiegare
quali sono state per te le tappe principali di questa evoluzione?
Abbiamo
capito chiaramente questa difficoltà all’epoca dell’episodio greco, che
certamente rappresentava in Francia, anche nelle nostre sfere
militanti, una terribile spina nel fianco, se confrontata ai nostri
discorsi. Anche se ne eravamo già abbastanza consapevoli, credo che
tutti abbiano ora compreso la determinazione della Troika e della
violenza concreta che la Germania e tutti gli attori di questa logica
possono assumere a livello europeo.
Quindi,
comprendiamo bene la portata delle difficoltà, ma il nostro punto di
partenza è poter affermare che “vogliamo essere in grado di implementare
il nostro programma”, qualora venissimo eletti.
Vorrei
aggiungere un secondo punto, oltre ad attuare il nostro programma,
relativo al fatto che la storia ci ha insegnato che il socialismo in un
singolo paese non dà ottimi risultati, soprattutto perché oggi siamo in
un mondo sempre più globalizzato. Questo per dire che, in questo mondo
globalizzato, l’idea che la Francia da sola, limitandosi entro i suoi
confini, possa riuscire ad affrontare il capitalismo globalizzato è
un’idea piuttosto folle.
Quindi, non si tratta esclusivamente della possibilità di applicare il nostro programma, ma della necessità di costruire una mobilitazione popolare a livello europeo che permetta di imporre in tutti i paesi un altro corso degli eventi.
Oggi
l’Unione Europea sta andando verso il disastro – in più perde pezzi con
la Brexit – e siamo in un momento in cui non sappiamo se e quanto
questa tenuta durerà. Quello che vogliamo, intanto, è poter costruire
delle collaborazioni di cooperazione con gli altri paesi.
Su
questo punto siamo molto diversi dall’estrema destra, perché a questa
non importa se c’è una più ampia solidarietà continentale
internazionale, ma è soltanto interessata ai francesi in patria e non
guarda al resto del mondo.
Quali sono le prospettive politiche, a questo proposito, dell’appello “E ora il popolo!”?
Trovo
molto positivo che siamo riusciti a costruire una lista con elementi
comuni, con Podemos, con Potere al Popolo, con Bloco de Esquerda, ecc…
Per me questo appello comune e questo impegno è davvero una grande
speranza per costruire questo progetto politico per l’Europa.
Dobbiamo
ancora riflettere attentamente su come uscire da questi trattati, come
fare alleanze che ci permettono di andare avanti non solo in Francia… ma
il punto di partenza dell’appello “E ora il popolo” è davvero buono.
Come
dicevo, c’è una questione fondamentale, ovvero applicare il nostro
programma anche a livello europeo, essendo ben consapevoli che non
riusciremo a farcela da soli e che abbiamo bisogno di una scala politica
più ampia della sola Francia. L’Europa è quindi un ovvio sostegno, ma
per il momento questa Unione Europea ci sta letteralmente portando allo
sfascio, quindi dobbiamo riorientarla e questo significa sviluppare dei
rapporti internazionali.
Tutti
devono essere in grado di progredire. Lo si può e lo si deve fare
insieme, elaborando solidarietà, integrazione e cooperazione
internazionale tra i paesi che condividono questa visione. Quindi, oggi
l’appello “E ora il popolo!” restituisce entusiasmo e permette di
avviare questo processo, anche alla luce di quanto successo in Grecia
qualche anno fa, quando i greci sono morti per mancanza di solidarietà.
Abbiamo
partecipato alla riunione della corrente Ensemble-Insoumis in ottobre,
nella quale Laurence Lyonnais ha introdotto il dibattito “Nè Macron, Nè
Orban: quale orientamento per la campagna delle europee”. Come Potere al
Popolo, si è detto che, dal punto di vista mediatico, esiste una falsa
alternativa tra l’europeismo liberista di sinistra e il nazionalismo
liberista di destra. Che ne pensi?
Penso
all’esempio di Prodi, ovvero alla morte della sinistra italiana quando
tutti si sono messi dietro Romano Prodi per “combattere meglio
Berlusconi”. Non solo non sono ci sono riusciti, ma poi Berlusconi è
diventato ancor più forte. Quell’idea è stata un fallimento totale. Il
fatto che la sinistra italiana del tempo si sia allineata solo su questo
tema, non solo ha reso Berlusconi più forte, ma ha affossato anche la
sinistra stessa.
Noi
ci siamo affidati al vostro contro-esempio, che penso sia rappresentato
da quello che Mélenchon ha fatto con il Front de Gauche prima e ora con
la France Insoumise: resistere, reagire, non lasciarsi coinvolgere nel
fallimento di Hollande, senza rinunciare ai nostri valori e alle nostre
idee in nome della lotta contro il Front National.
Proprio
per esistere in futuro dobbiamo avere questa sinistra di rottura e di
cambiamento. Ho l’impressione che il panorama politico in Francia non è
lo stesso del vostro in Italia, perché abbiamo anche imparato qualcosa
dall’evoluzione del Movimento 5 Stelle e da come questa alleanza di
governo con la Lega sia un disastro.
In
questo momento, direi che il caso del M5S serve anche più come supporto
quando diciamo di “fare attenzione a quello che facciamo e dove
andiamo”. Oggi l’estrema destra “modernizzata” trova punti di vicinanza e
di alleanza anche con quella che in Francia è la destra repubblicana,
con la quale ci sono relazioni molto importanti che stanno diventando
operative (intorno a Marion Le Pen, ma anche con Mariani, che viene
comunque da quell’area e che ora si trova a sostegno di Marine Le Pen e
del Front National). Possiamo comprendere come il recente posizionamento
del FN sta facendo saltare in aria gli argini che erano stati posti da
Jean Marie Le Pen, con questo partito che si sta muovendo verso una
soluzione di maggioranza.
C’è
un senso della storia in Francia e non dobbiamo perderlo. Vedo che tra i
giovani non è sempre ovvio: l’antifascismo, il rifiuto assoluto e
viscerale dell’estrema destra… non riesco a ritrovarli nei giovani che
hanno 20-30 anni. E tutto questo l’abbiamo visto al secondo turno delle
elezioni presidenziali, quando tanti giovani si sono trovati a dover
votare Macron o Le Pen: “Le Pen è terribile, ma Macron è l’inferno
liberale”. In
questo senso, il rischio si concretizza nel discorso “l’estrema destra
non è buona, sono razzisti, ma alla fin fine…”. Inoltre, Marine Le Pen è
forte e ha risorse economcihe alle sue spalle, non deve essere
sottovalutata per la rilevanza della battaglia da combattere.
Qual è il nostro ruolo nel rompere questa falsa dicotomia tra due visioni che rappresentano due facce della stessa moneta?
Penso
che, di fronte a loro, ciò che ci rende efficaci è opporre a una
visione coerente. Per questo motivo continuo a credere che la lotta
all’immigrazione non sia una lotta marginale. É una lotta che va
combattuta e che dobbiamo immaginare che possa assumere un ruolo guida
nel paese, soprattutto quando tra l’opinione pubblica c’è il 70% dei
francesi che oggi pensa che non possiamo più accogliere i migranti… è un
orrore!
Dobbiamo
vincere questa battaglia, dobbiamo combatterla contro l’estrema destra,
ma anche contro Macron. Guardando i migranti che muoiono nel
Mediterraneo e pensare che Francia, Italia, ecc… nessuno è in grado di
accogliere una barca con 30 o 40 migranti che rischiano la morte, mi
sembra davvero assurdo. Francamente, penso che dobbiamo lavorare su
questo perché dobbiamo convincere la gente del contrario.
Un
altro tema è sul quale lavorare è quello della battaglia ambientale,
anche in opposizione all’estrema destra. Molto spesso è scettica sulle
questioni ambientali e climatiche, ma anche quando ammettono che c’è un
problema di questo tipo, non li sentirete mai parlare di ecologia,
perché non è assolutamente il loro argomento.
Infine,
un altro tema di confronto è relativo alla questione della democrazia e
delle libertà. Su questo punto, noi pensiamo che abbiamo bisogno di una
Sesta Repubblica. Per farla dobbiamo opporci all’estrema destra,
combattendo queste battaglie.
Ad
esempio, le questioni relative alla redistribuzione della ricchezza e
all’accoglienza dei migranti possono essere utilizzate per fare una
chiara differenza con lo status quo difeso dalle politiche liberali di
Macron e dalle politiche reazionarie di Le Pen.
Se
c’è una questione sulla quale stiamo facendo bene, è quella della
redistribuzione della ricchezza, una battaglia sulla quale c’è una
convergenza abbastanza forte con i Gilets Jaunes. Macron è arrivato, ha
abolito l’Impôt de Solidarité sur la Fortune, ha donato miliardi ai più
ricchi e poi spiega al popolo che ora, a causa dell’elevato debito
pubblico, deve fare dei sacrifici.
Ovviamente
tutto ciò non può funzionare. Eppure l’estrema destra non si è
posizionata con forza né in aula né a livello globale contro questa
riforma dell’ISF. Inoltre, è anche contraria all’aumento del salario
minimo, ovvero una delle rivendicazioni essenziali dei Gilets Jaunes.
Pertanto possiamo dire che la redistribuzione della ricchezza non è una
faccenda che interessa né Macron né Le Pen. Penso che spetti a noi
portare avanti questa battaglia, soprattutto perché la loro visione
sociale ed economica è stata messa in discussione da più parti ed è un
completo fallimento.
La
mia convinzione è che dobbiamo essere concentrati su un progetto
sociale più globale, non solo nel dimostrare che il Front National sta
mentendo. Bisogna indicare chiaramente che tipo di politiche vuole
mettere in campo e dire espressamente che noi non siamo d’accordo!
Non
penso che dovremmo mettere il tema dell’immigrazione sotto il tappeto,
perché sarebbe aberrante, come altre questioni che non sono
immediatamente popolari. Penso che ciò ci renderà veramente credibili e
dobbiamo andare a prendere le persone sulle tematiche di sinistra.
L’espressione
sembra non avere più alcun significato, perché la parola “sinistra”
stessa è stata così maltrattata durante il quinquennio di Hollande.
Quindi è un problema quando si arriva sui media e si dice la parola ”
sinistra” perché per molte per molte persone non significa più niente.
D’altra
parte, credo è che ci sono alcune convinzioni nelle caratteristiche più
profonde del paese che sono dalla parte di questo progresso, di questa
emancipazione umana. Ad esempio, se si guarda alla mappa elettorale del
voto di Mélenchon, si può notare una corrispondenza, non totale ma in
buona parte, con la mappa elettorale del voto storico verso il PCF. I
sobborghi rossi, come per esempio quello di Seine Saint-Denis, dove il
PCF faceva punteggi assolutamente incredibili, Mélenchon ha ottenuto i
suoi punteggi migliori.
C’è
un potenziale per risvegliare non solo tutte le persone che da sempre
hanno votato in quel modo, ma anche tutti quelli che ormai sono
disillusi ma che condividono questo nostro stesso punto di vista.
A
livello politico, sei sempre stata attiva sui temi dell’emancipazione
femminile e della parità di genere. Qual è la situazione attuale in
Francia?
La
sfida per la parità di genere in Francia è passare dall’uguaglianza
formale a quella sostanziale. Nel XX secolo sono stati conquistati
diritti, tra cui il diritto di voto, il diritto all’aborto (almeno la
liberalizzazione dell’aborto), e altri importanti progressi legali che
fanno sì che l’uguaglianza sulla carta esista in un certo modo.
Però,
la difficoltà che abbiamo è come passare da questa parità di diritti
formale a un’uguaglianza praticata nella vita reale, il che significa
lottare duramente contro ogni forma di sessismo e coinvolgere le
autorità pubbliche in questo settore. E per farlo, non vedo come si
possa combattere questa battaglia nel quadro dell’austerità. Perché un
modo per combattere queste forme di sessismo è sviluppare moduli
didattici sul tema, formare personale per accogliere donne vittime di
violenza, creare assistenza nel tessuto sociale e luoghi di ascolto.
Sono
solo alcuni esempi concreti, ma che dimostrano che abbiamo bisogno di
investimenti pubblici per sostenere la transizione verso una società
egualitaria dal punto di vista popolare.
Hai detto che con la Loi Asile-Immigration
“le porte si stanno chiudendo mentre il Mediterraneo diventa un
cimitero”. Hai denuncia il caso della nave Sea Watch e hai fatto un
appello per interrogare politicamente il governo francese e l’Unione
Europea, a seguito del rifiuto del governo italiano di accogliere la
nave. Per quanto riguarda questa deriva xenofoba e securitaria che
interessa molti paesi europei, quali politiche dovrebbero essere messe
in atto per affrontare quello che qualcuno chiama il “problema
dell’immigrazione”? Sempre se esiste un problema reale su questo tema…
Contestiamo
fermamente il fatto che vi sia un problema di immigrazione, perché oggi
assistiamo invece a una crisi di accoglienza. Non c’è nessuna
invasione, non è vero. Dobbiamo portare la discussione e il dibattito al
livello adeguato. Ci impegniamo per i diritti di tutte di tutti e
crediamo che questa Loi Asile-Immigration è estremamente rigida
nei confronti dell’accoglienza, producendo situazioni di illegalità e di
mancanza di protezione, aggravando anche la divisione che esiste tra i
lavoratori che hanno i documenti e quelli che non li hanno. Quindi,
tutto questo sistema è assolutamente catastrofico e dobbiamo lottare per
affermare una logica dell’accoglienza incondizionata.
È
estremamente urgente vista la situazione nel Mediterraneo, per poter
affermare prima di tutto il dovere all’umanità. Per quanto riguarda la
regolarizzazione delle persone che si trovano sul nostro territorio,
riteniamo già che tutti coloro che lavorano dovrebbero poter essere
regolarizzati e che il ricongiungimento familiare non dovrebbe ancora
essere impedito, ma al contrario incoraggiato.
Voglio
ribadire con chiarezza che i problemi della Francia non sono in alcun
modo legati all’immigrazione, come qualcuno vuole far credere. Dobbiamo
adoperarci per contrastare questo ripiegamento xenofobo e per farlo non
possiamo impedire a queste persone di avere diritti e di essere accolte
con dignità. Pertanto, se vogliamo fare dei progressi dobbiamo
affrontare la questione con la dovuta attenzione, mettendo in campo un
discorso chiaro di apertura e non di ritiro.
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