Fretta
e paura sono pessime consigliere. Ed è vero per tutti, potenti e
irrilevanti. Ovvio che quando paura e fretta – causa crisi permanente –
attanagliano la principale superpotenza economico-militare, ogni
decisione presa diventa uno tsunami oncontrollabile nelle sue
conseguenze.
Donald
Trump – non proprio il più riflessivo tra i presidenti Usa – ha deciso
che le trattative commerciali con la Cina procedevano “troppo
lentamente” e quindi ha deciso di rilanciare, come in una mano di poker:
da venerdì 4 maggio i dazi sulle merci cinesi saliranno dal 10 al 25%,
per un totale stimato in 200 miliardi dollari.
Per
rincarare la dose, verranno applicate imposte doganali del 25% ad altri
prodoti fin qui esenti, per un ammontare di 325 miliardi.
Se
l’intento era chiaramente quello di spaventare l’interlocutore – che,
secondo molti economisti ha rami superato gli Usa come Pil annuale “a
parità di potere d’acquisto” – il risultato pratico rischia di esser
l’opposto: a Pechino starebbero valutando di uscire totalmente dalla
trattativa, perché “la Cina non discute con una p,iostola puntata alla
tempia”.
Tutta
una serie di Stati l’hanno fatto, nel passato anche recente, e dunque a
Washington si è presa la brutta abitudine di mettere la pistola sul
tavolo per alzare il prezzo. Gioco che riesce ora molto più difficile
con chi – almeno sul piano economico – si sente ed è grosso modo alla
pari. Con in più, cosa da non sottovalutare, idee e progetti colossali,
con tutta la liquidità necessaria a realizzarli.
La
mossa del pistolero non sembra del resto troppo lucida stando anche
a,gli ultimi tweet sparati dell’immbiliarista col ciuffo: “Per 10
mesi ,la Cina ha pagato agli Stati Uniti dazi del 25% su 50 miliardi di
dollari di hi-tech e del 10% su 200 miliardi di dollari di altri
prodotti. Questi pagamenti sono in parte responsabili dei nostri buoni
risultati economici”. Insomma, se salta il banco gli Usa si danno la zappa sui piedi.
Tanto
più che lo stesso Trump, solo due giorni fa, ha annunciato un piano di
infrastrutture pubbliche da 2mila miliardi di dollari. La strategia
presidenziale era stata enfatizzata – e poi abbandonata – in campagna
elettorale con il titolo “Rebuilding America”. Ora viene rilanciata,
nella speranza di spingere l’economia americana nel 2020 – anno delle
elezioni, in cui tradizionalmente il Pil rallenta per l’incertezza sulle
intenzioni del prossimo presidente – addirittura con il sostegno
politico dei rivali “democratici”.
Ma
che proprio l’inasprimento della guerra dei dazi con la Cina potrebbe
rimettere in dubbio. Investire così tanto mentre le entrate calano e la
dinamica economica rallenta, non è poi una cosa semplice.
Se
n’è accorta subito anche la Heartland, raggruppamento delle
associazioni commerciali Usa: “Tassare gli americani quando comprano
mobili, elettronica, utensili non ha niente a che fare con la ricerca di
un accordo con la Cina”.
Perché
è ovvio che alzare i dazi rende meno convenienti le merci cinesi, ma se
non produci merci alternative di pari livello, in realtà stai
aumentando prezzi e tasse al tuo popolo. E, nell’anno delle elezioni, se
lo ricorderà di sicuro…
Le
conseguenze planetarie sono invece scontate. Le borse di tutto il mondo
stanno “soffrendo” enormemente, a cominciare da quelle cinesi (Shanghai
-5,58%, e Shenzhen (-7,38%) e asiatiche, per poi dilagare negli altri
continenti: tutte le piazze europee perdono oltre il 2%, e anche Wall
Street è per ora attesa su quei livelli.
Non sei più la superpotenza di una volta, prendine atto…
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