Piovono
conferme, non avevamo capito male. Il “documento Altmaier” è la
dichiarazione di fallimento del modello economico che è stato imposto
con la forza alla Germania e a tutta l’Unione Europea negli ultimi venti
anni. E l’annuncio, ancora imbarazzato e senza una chiara strategia, di
una inversione di rotta.
Non basta infatti rendersi conto di aver sbagliato tutto, se l’universo concettuale con cui si ragiona è ancora quello che ha prodotto il disastro. Ne abbiamo una dimostrazione nel demenziale “dibattito politico” italiano, dominato da “esperti” che ripetono le antiche sciocchezze sull’austerità necessaria e i “soldi che non ci sono”, incaricati di combattere degli autentici idioti che sentono suonare le campane ma non sanno da dove (Lega e Cinque Stelle).
L’errore, infatti, non è dipeso da un cattivo uso della ragione, ma dalla assoluta prevalenza di interessi materiali: in specifico quella delle multinazionali dell’industria manifatturiera classica e della finanza speculativa. Un’accoppiata che ha impedito di affrontare sul serio le sfide dell’innovazione tecnologica (pur riempiendosene la bocca ad ogni cerimonia ufficiale), ha depresso violentemente il mercato interno europeo (il primo del mondo, quando ancora i salari non erano stati violentemente compressi), e soprattutto distrutto il sistema dell’istruzione (in Italia siamo arrivati addiritura a sentire ministri dire “con la cultura non si mangia”…).
La borghesia multinazionale europea, grazie al dominio della Germania, si è crogiolata nel vantaggio accumulato nei decenni precedenti (grazie a quel “modello sociale europeo” imposto dal conflitto sociale e dalla presenza dell’Urss), mentre gli Stati Uniti delocalizzavano la produzione e i giganti asiatici cominciavano appena a tirarsi fuori dal sottosviluppo.
L’America è a pezzi e si è inventata un Trump per tentare di riprendere almeno il controllo delle sue filiere tradizionali (di qui, tra l’altro, la catena di golpe in America Latina e l’assalto al Venezuela, principale riserva strategica petrolifera del pianeta). La Cina è diventata la locomotiva del mondo e ora punta ad esserne anche il principale mercato per i consumi.
L’Europa è ferma, inchiodata agli ormai problematici profitti di un ristretto gruppo di imprese multinazionali con scarse prospettive di sviluppo nelle nuove condizioni. E senza gli strumenti che potrebbero consentire di invertire rapidamente la marcia, a partire dall’”economia della conoscenza” e dall’intervento dello Stato nell’economia (di cui è andato smarrito, di divieto in divieto, persino il know how di base).
Si fa avanti perciò un’idea pericolosa di “competizione globale” che minaccia sfracelli sociali peggiori e crisi finale anche delle apparenze della democrazia.
Oltre gli articoli già proposti sul tema, di cui forniamo i link a fondo pagina, vi proponiamo l’editoriale di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, che inchioda l’establishment “europeo ed europeista” alle sue responsabilità. E alla sua satolla miopia…
Non basta infatti rendersi conto di aver sbagliato tutto, se l’universo concettuale con cui si ragiona è ancora quello che ha prodotto il disastro. Ne abbiamo una dimostrazione nel demenziale “dibattito politico” italiano, dominato da “esperti” che ripetono le antiche sciocchezze sull’austerità necessaria e i “soldi che non ci sono”, incaricati di combattere degli autentici idioti che sentono suonare le campane ma non sanno da dove (Lega e Cinque Stelle).
L’errore, infatti, non è dipeso da un cattivo uso della ragione, ma dalla assoluta prevalenza di interessi materiali: in specifico quella delle multinazionali dell’industria manifatturiera classica e della finanza speculativa. Un’accoppiata che ha impedito di affrontare sul serio le sfide dell’innovazione tecnologica (pur riempiendosene la bocca ad ogni cerimonia ufficiale), ha depresso violentemente il mercato interno europeo (il primo del mondo, quando ancora i salari non erano stati violentemente compressi), e soprattutto distrutto il sistema dell’istruzione (in Italia siamo arrivati addiritura a sentire ministri dire “con la cultura non si mangia”…).
La borghesia multinazionale europea, grazie al dominio della Germania, si è crogiolata nel vantaggio accumulato nei decenni precedenti (grazie a quel “modello sociale europeo” imposto dal conflitto sociale e dalla presenza dell’Urss), mentre gli Stati Uniti delocalizzavano la produzione e i giganti asiatici cominciavano appena a tirarsi fuori dal sottosviluppo.
L’America è a pezzi e si è inventata un Trump per tentare di riprendere almeno il controllo delle sue filiere tradizionali (di qui, tra l’altro, la catena di golpe in America Latina e l’assalto al Venezuela, principale riserva strategica petrolifera del pianeta). La Cina è diventata la locomotiva del mondo e ora punta ad esserne anche il principale mercato per i consumi.
L’Europa è ferma, inchiodata agli ormai problematici profitti di un ristretto gruppo di imprese multinazionali con scarse prospettive di sviluppo nelle nuove condizioni. E senza gli strumenti che potrebbero consentire di invertire rapidamente la marcia, a partire dall’”economia della conoscenza” e dall’intervento dello Stato nell’economia (di cui è andato smarrito, di divieto in divieto, persino il know how di base).
Si fa avanti perciò un’idea pericolosa di “competizione globale” che minaccia sfracelli sociali peggiori e crisi finale anche delle apparenze della democrazia.
Oltre gli articoli già proposti sul tema, di cui forniamo i link a fondo pagina, vi proponiamo l’editoriale di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, che inchioda l’establishment “europeo ed europeista” alle sue responsabilità. E alla sua satolla miopia…
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