L’Unione
Europea è in profonda crisi, vicina al bivio che può portare
all’esplosione o alla sua definitiva trasformazione in “macchina da
guerra” geopolitica, e cerca un colpevole per questa situazione.
Poiché il colpevole, per definizione, è sempre qualcun altro, ecco che l’indice si alza – quasi scontato – nei confronti dell’Italia.
E qui ci troviamo davanti a una doppia versione: a) è sempre stata colpa di questo paese, tra debito pubblico troppo alto e “eccessivi privilegi” per i lavoratori, nonostante diversi governi “europeisti” abbiano dato botte da orbi soltanto ai secondi; b) è colpa del governo in carica, che avrebbe interrotto la sistematica corsa all’innalzamento dell’età pensionabile e alla riduzione del deficit.
Dunque ci vuole (vorrebbe) una “manovra correttiva” che vada a mettere le mani direttamente sui conti correnti di tutti i cittadini con una patrimoniale “imparziale”, come quella di Giuliano Amato che sottrasse a tutti noi il 6×1.000 destinandolo alla riduzione del debito pubblico.
Due bufale “europeiste” che vengono smontate con grande perizia tecnica dall’editoriale di Guido Salermo Aletta su Milano Finanza (abbiamo evidenziato con corsivo e grassetto i passaggi più significativi).
“Ci sono troppe cose che non funzionano” è un modo semplice per dire che c’è una crisi di sistema. La Germania, infatti, sta in condizioni simili – se non addirittura peggiori nel settore bancario – e non è entrata tecnicamente in recessione (com l’Italia) solo perché il Pil del quarto trimestre è rimasto positivo di una inezia: +0,08%.
Un sistema che non funziona genera problemi, invece di risolverli. Il modo “tedesco” (ordoliberista) di ridurre il debito pubblico è infatti un attentato alla solidità delle economie, rende impossibile qualsiasi crescita e – in tempi di crisi globale – moltiplica la forza della recessione.
L’allungamento dell’età pensionabile, che a ogni cretino sembra l’uovo di colombo per ridurre la spesa pensionistica, blocca il ricambio generazionale sui posti di lavoro, incentivando l’emigrazione dei nostri ragazzi.
La deflazione salariale che tanto favorisce i profitti delle imprese – lo stesso governo stima il livello medio del salario d’ingresso per gli under 30 intorno agli 850 euro, al di sotto della soglia di sopravvivenza – ha la “piccola controindicazione” di ridurre a pochissimole entrate dell’Inps, che deve e dovrà erogare pensioni.
Gli stessi salari da fame impediscono che la grandezza macroeconomica chiamata “domanda interna” possa restare ai livelli precedenti. E quando, come oggi, le esportazioni si riducono insieme alla deglobalizzazione, i consumi interni non riescono a compensare la caduta. Anzi, l’accentuano.
Ma è tutto il modello dell”austerità europea” ad essere comunque al capolinea. Neanche la Bce di Draghi si salva dal naufragio. I suoi quantitative easing, generosi come quantità e benedetti dall’establishment, non si sono mai trasmessi all’economia reale, che anzi ha visto ridursi il flusso dei crediti verso famiglie e imprese.
Un intero sistema va al collasso, e la classe dirigente – sia italiana che europea, imprenditoriale, finanziaria, politica – si trastulla con la ricerca di un colpevole. Se si guardassero allo specchio avrebbero una risposta certa. Ma per loro inaccettabile. Dovrebbero – loro sì – fare una “manovra correttiva” che li eliminerebbe.
Perciò insistono e insisteranno fino all’esplosione.
Anche “a sinistra”, persino in quella che si considera “estrema” o almeno “radicale”, la cecità sulla dimensione di questo contesto appare pressoché totale, immersa in “tavoli” dove di tutto si ragiona, meno che di realtà.
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
Recessione nel quarto trimestre del 2018, caduta di produzione ed ordini industriali a dicembre, export che cede soprattutto verso le destinazioni extra Ue: per l’Italia è stato un pessimo fine d’anno. Per quello in corso, nessuno trattiene il fiato. Tutti già dottori, al capezzale: c’è già chi ha già invocato una manovra correttiva, subito; chi ha proposto un cambio di strategia a favore degli investimenti, e pure chi ha scorto il cigno nero.
E’ la solita Italia, in grado di contagiare con la sua frenata l’intera economia europea: se sballa il rapporto deficit/pil, visto che non c’è la crescita ipotizzata, lo spread schizza alle stelle e ricomincia la sarabanda sui mercati.
La verità è che si cerca solo l’untore: troppe le situazioni di crisi che si affacciano; dalla Brexit alle elezioni spagnole, dalla guerra commerciale tra Usa e Cina al piombo sotto le ali dell’export del Giappone, dell’Australia e della Corea del Sud. Prendersela con l’Italia è un deja vu.
La battaglia è politica, e sarà sempre più violenta. Ci sono in ballo le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, a fine maggio, e continua senza sosta il cannoneggiamento contro i Sovranisti ed i Populisti che macinano consensi crescenti rispetto ai partiti tradizionali. A Bruxelles gongolano: dopo gli scontri violentissimi sulla manovra proposta dal governo italiano che indossa la maglia giallo-verde, possono apertamente attribuire la recessione dell’Italia alle misure adottate dal governo.
Reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni non aiutano la crescita. Sono due misure che hanno messo in discussione, anche se solo in modo minimo, le due riforme strutturali su cui tanto l’Unione europea ha battuto in questi anni: deflazione salariale per assicurare la competitività sull’estero ed allungamento della vita lavorativa per mettere in sicurezza i conti previdenziali.
Senza mai riflettere sul fatto che è vero l’esatto contrario: la vera bomba piazzata sotto i conti previdenziali è la tanto auspicata flessibilità del mercato del lavoro in entrata, con la precarizzazione del lavoro giovanile, e soprattutto la continua svalutazione dei salari. Se si abbatte la massa salariale, i contributi previdenziali si riducono: è questo il vero problema di un sistema a ripartizione.
Guardare solo all’ultima riga del conto economico si sta dimostrando una scelta assolutamente miopie, in un contesto di deglobalizzazione guidato dalla Amministrazione Trump: avendo distrutto la domanda interna falcidiando i salari, ora siamo più esposti che mai ai venti contrari che spirano dall’estero.
In questo momento, ci sarebbe una sola cosa da fare: rispolverare il primo documento di politica economica varato dal governo, l’Aggiornamento al Def 2018 che risale al 27 settembre scorso, che si fondava su una forte ripresa degli investimenti pubblici finanziati in disavanzo, ed il deficit al 2,4% del pil. Sarebbe una decisione anticiclica, ma avrebbe solo il sapore di una ripicca tardiva ed insufficiente, vista la situazione che si è creata. La decelerazione dell’economia è stata più veloce e più forte di quanto non si prevedesse.
Prima di mettere già i numeri di una qualsiasi ipotesi di manovra, correttiva per mantenere i saldi ovvero anticiclica per forzare sulla crescita, serve una operazione verità.
Non è solo il sistema delle previsioni economiche che si sta dimostrando farlocco, assai più degli almanacchi di leopardiana memoria, visto che non ne indovinano una, neppure a preconsuntivo. C’è da mettere in chiaro quali sono le vere cause degli squilibri previdenziali; fare piena luce sulle politiche monetarie cosiddette ultra accomodanti mentre si assiste ad un paurosa contrazione del credito; capire che cosa non funziona minimamente con gli obiettivi di inflazione, che non sono mai stati neppure sfiorati.
Non si tratta solo di fare le pulci ai conti italiani, con il deficit che salirebbe al 3-3,5% del pil, il debito che non scenderebbe affatto, e la crescita che, se va bene, si fermerebbe allo 0,5%. E lasciamo da parte anche le polemiche interne, con la recessione che sarebbe stata determinata dalle preoccupazioni per le politiche del nuovo governo, che sin da luglio avrebbero indotto gli operatori economici e le famiglie e bloccare i investimenti e consumi.
Guardiamo invece alla Germania, che pareva inossidabile. Basta ricordare le previsioni relative alla crescita del suo pil nel 2018, quelle che sono state pubblicate dalla Commissione europea il 21 novembre dello scorso anno e che stimavano ancora un +1,7%, oppure quelle contenute nell’Outlook del Fmi del 9 ottobre, che vaticinavano un entusiasmante +1,9%: il risultato, ben più mogio, è stato appena +1,1%. Dopo un terzo trimestre in contrazione, il quarto ha registrato una crescita dello 0,08%: un grandezza lillipuziana che ha evitato l’ingresso in recessione. Quale virus glallo-verde abbia colpito la Germania non è dato sapere: tutto è stato rigorosamente tenuto coperto. Ora, anche a Berlino il re è nudo.
Neppure i dati dell’inflazione tornano, nonostante il bazooka della Bce abbia immesso ben 2.600 miliardi di euro di nuova liquidità: in Italia, a dicembre scorso, i prezzi al consumo per le famiglie erano cresciuti dell’1% netto rispetto ad un anno prima, e dell’1,8% rispetto a due anni prima. Siamo a meno della metà dell’obiettivo. E non è che a livello europeo i dati siano molto diversi, visto che la media del 2018 è stata dell’1,4%. Anche qui, un altro bel buco nell’acqua.
A dispetto di una politica monetaria della Bce, proclamata ultra accomodante, il credito è addirittura diminuito. Con il Qe, la Banca d’Italia ha messo in portafoglio titoli pubblici per 365 miliardi di euro, ma la liquidità creata in contropartita non è stata immessa in Italia, ma è rimasta all’estero. Si vede perfettamente, infatti, l’aumento delle passività nel sistema Target 2: il saldo di fine dicembre scorso è stato di -482 miliardi di euro, mentre era di soli -192 miliardi nel marzo 2015, data di inizio degli acquisti.
Il credito all’economia italiana cala continuamente, anno dopo anno: a fine 2012, gli impieghi nel settore privato erano stati di 1.660 miliardi di euro. Da allora, un tracollo: secondo l’Abi, gli impieghi che a gennaio 2018 erano stati pari a 1.506 miliardi, a gennaio scorso arrivavano a soli 1.459 miliardi: 47 miliardi in meno, con un deleverage pari al 2,6% del pil in soli 12 mesi. Nello stesso periodo, il credito alle famiglie si è ridotto di 71 miliardi di euro, passando da 1.372 a 1.301 miliardi di euro. Forse, ma neppure forse, questi dati aiutano a capire il blocco degli investimenti e dei consumi molto più delle tante polemiche sulla politica economica del governo. I veri buchi non ci sono solo nel bilancio pubblico, ma anche nel sistema del credito.
A questi dati sull’attività bancaria, che sicuramente hanno avuto un impatto deflattivo dell’economia, dobbiamo aggiungere anche quelli che derivano dal consueto, più che ventennale, drenaggio delle risorse operato con l’avanzo primario della PA, ovvero dalla quota del prelievo fiscale destinata al pagamento di una parte degli interessi sul debito. Nel 2018, è stato pari all’1,8% del pil: mal contati, si tratta di una trentina di miliardi di tasse che non è tornata indietro. L’economia reale ne soffre, e si capisce bene perché.
Ci sono troppe cose che non funzionano, e non sono i bilanci pubblici: abbiamo a che fare con previsioni economiche farlocche; con politiche monetarie accomodanti che però non riescono a conseguire gli obiettivi di inflazione; con una vigilanza bancaria che blocca il credito; con una serie di riforme strutturali in campo salariale e nel mercato del lavoro che stanno demolendo la sostenibilità dei sistemi previdenziali.
Se è vero che finora le elezioni politiche nazionali non sono servite a cambiare le regole europee, come ha sempre proclamato l’ex-ministro delle finanze tedesco Wolfang Shaeuble quando prendeva quasi per la collottola il neo eletto premier greco Alexis Tsipras, che contestava gli accordi assunti dal suo predecessore facendosi forte di un ampio consenso popolare, il rinnovo del Parlamento europeo, a fine maggio, sarà un passaggio cruciale. Andrà molto meglio, o molto peggio, a seconda dei punti di vista: di certo, non ci sarà una via di mezzo.
Poiché il colpevole, per definizione, è sempre qualcun altro, ecco che l’indice si alza – quasi scontato – nei confronti dell’Italia.
E qui ci troviamo davanti a una doppia versione: a) è sempre stata colpa di questo paese, tra debito pubblico troppo alto e “eccessivi privilegi” per i lavoratori, nonostante diversi governi “europeisti” abbiano dato botte da orbi soltanto ai secondi; b) è colpa del governo in carica, che avrebbe interrotto la sistematica corsa all’innalzamento dell’età pensionabile e alla riduzione del deficit.
Dunque ci vuole (vorrebbe) una “manovra correttiva” che vada a mettere le mani direttamente sui conti correnti di tutti i cittadini con una patrimoniale “imparziale”, come quella di Giuliano Amato che sottrasse a tutti noi il 6×1.000 destinandolo alla riduzione del debito pubblico.
Due bufale “europeiste” che vengono smontate con grande perizia tecnica dall’editoriale di Guido Salermo Aletta su Milano Finanza (abbiamo evidenziato con corsivo e grassetto i passaggi più significativi).
“Ci sono troppe cose che non funzionano” è un modo semplice per dire che c’è una crisi di sistema. La Germania, infatti, sta in condizioni simili – se non addirittura peggiori nel settore bancario – e non è entrata tecnicamente in recessione (com l’Italia) solo perché il Pil del quarto trimestre è rimasto positivo di una inezia: +0,08%.
Un sistema che non funziona genera problemi, invece di risolverli. Il modo “tedesco” (ordoliberista) di ridurre il debito pubblico è infatti un attentato alla solidità delle economie, rende impossibile qualsiasi crescita e – in tempi di crisi globale – moltiplica la forza della recessione.
L’allungamento dell’età pensionabile, che a ogni cretino sembra l’uovo di colombo per ridurre la spesa pensionistica, blocca il ricambio generazionale sui posti di lavoro, incentivando l’emigrazione dei nostri ragazzi.
La deflazione salariale che tanto favorisce i profitti delle imprese – lo stesso governo stima il livello medio del salario d’ingresso per gli under 30 intorno agli 850 euro, al di sotto della soglia di sopravvivenza – ha la “piccola controindicazione” di ridurre a pochissimole entrate dell’Inps, che deve e dovrà erogare pensioni.
Gli stessi salari da fame impediscono che la grandezza macroeconomica chiamata “domanda interna” possa restare ai livelli precedenti. E quando, come oggi, le esportazioni si riducono insieme alla deglobalizzazione, i consumi interni non riescono a compensare la caduta. Anzi, l’accentuano.
Ma è tutto il modello dell”austerità europea” ad essere comunque al capolinea. Neanche la Bce di Draghi si salva dal naufragio. I suoi quantitative easing, generosi come quantità e benedetti dall’establishment, non si sono mai trasmessi all’economia reale, che anzi ha visto ridursi il flusso dei crediti verso famiglie e imprese.
Un intero sistema va al collasso, e la classe dirigente – sia italiana che europea, imprenditoriale, finanziaria, politica – si trastulla con la ricerca di un colpevole. Se si guardassero allo specchio avrebbero una risposta certa. Ma per loro inaccettabile. Dovrebbero – loro sì – fare una “manovra correttiva” che li eliminerebbe.
Perciò insistono e insisteranno fino all’esplosione.
Anche “a sinistra”, persino in quella che si considera “estrema” o almeno “radicale”, la cecità sulla dimensione di questo contesto appare pressoché totale, immersa in “tavoli” dove di tutto si ragiona, meno che di realtà.
*****
Ci vuole una manovra correttivaGuido Salerno Aletta – Milano Finanza
Recessione nel quarto trimestre del 2018, caduta di produzione ed ordini industriali a dicembre, export che cede soprattutto verso le destinazioni extra Ue: per l’Italia è stato un pessimo fine d’anno. Per quello in corso, nessuno trattiene il fiato. Tutti già dottori, al capezzale: c’è già chi ha già invocato una manovra correttiva, subito; chi ha proposto un cambio di strategia a favore degli investimenti, e pure chi ha scorto il cigno nero.
E’ la solita Italia, in grado di contagiare con la sua frenata l’intera economia europea: se sballa il rapporto deficit/pil, visto che non c’è la crescita ipotizzata, lo spread schizza alle stelle e ricomincia la sarabanda sui mercati.
La verità è che si cerca solo l’untore: troppe le situazioni di crisi che si affacciano; dalla Brexit alle elezioni spagnole, dalla guerra commerciale tra Usa e Cina al piombo sotto le ali dell’export del Giappone, dell’Australia e della Corea del Sud. Prendersela con l’Italia è un deja vu.
La battaglia è politica, e sarà sempre più violenta. Ci sono in ballo le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, a fine maggio, e continua senza sosta il cannoneggiamento contro i Sovranisti ed i Populisti che macinano consensi crescenti rispetto ai partiti tradizionali. A Bruxelles gongolano: dopo gli scontri violentissimi sulla manovra proposta dal governo italiano che indossa la maglia giallo-verde, possono apertamente attribuire la recessione dell’Italia alle misure adottate dal governo.
Reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni non aiutano la crescita. Sono due misure che hanno messo in discussione, anche se solo in modo minimo, le due riforme strutturali su cui tanto l’Unione europea ha battuto in questi anni: deflazione salariale per assicurare la competitività sull’estero ed allungamento della vita lavorativa per mettere in sicurezza i conti previdenziali.
Senza mai riflettere sul fatto che è vero l’esatto contrario: la vera bomba piazzata sotto i conti previdenziali è la tanto auspicata flessibilità del mercato del lavoro in entrata, con la precarizzazione del lavoro giovanile, e soprattutto la continua svalutazione dei salari. Se si abbatte la massa salariale, i contributi previdenziali si riducono: è questo il vero problema di un sistema a ripartizione.
Guardare solo all’ultima riga del conto economico si sta dimostrando una scelta assolutamente miopie, in un contesto di deglobalizzazione guidato dalla Amministrazione Trump: avendo distrutto la domanda interna falcidiando i salari, ora siamo più esposti che mai ai venti contrari che spirano dall’estero.
In questo momento, ci sarebbe una sola cosa da fare: rispolverare il primo documento di politica economica varato dal governo, l’Aggiornamento al Def 2018 che risale al 27 settembre scorso, che si fondava su una forte ripresa degli investimenti pubblici finanziati in disavanzo, ed il deficit al 2,4% del pil. Sarebbe una decisione anticiclica, ma avrebbe solo il sapore di una ripicca tardiva ed insufficiente, vista la situazione che si è creata. La decelerazione dell’economia è stata più veloce e più forte di quanto non si prevedesse.
Prima di mettere già i numeri di una qualsiasi ipotesi di manovra, correttiva per mantenere i saldi ovvero anticiclica per forzare sulla crescita, serve una operazione verità.
Non è solo il sistema delle previsioni economiche che si sta dimostrando farlocco, assai più degli almanacchi di leopardiana memoria, visto che non ne indovinano una, neppure a preconsuntivo. C’è da mettere in chiaro quali sono le vere cause degli squilibri previdenziali; fare piena luce sulle politiche monetarie cosiddette ultra accomodanti mentre si assiste ad un paurosa contrazione del credito; capire che cosa non funziona minimamente con gli obiettivi di inflazione, che non sono mai stati neppure sfiorati.
Non si tratta solo di fare le pulci ai conti italiani, con il deficit che salirebbe al 3-3,5% del pil, il debito che non scenderebbe affatto, e la crescita che, se va bene, si fermerebbe allo 0,5%. E lasciamo da parte anche le polemiche interne, con la recessione che sarebbe stata determinata dalle preoccupazioni per le politiche del nuovo governo, che sin da luglio avrebbero indotto gli operatori economici e le famiglie e bloccare i investimenti e consumi.
Guardiamo invece alla Germania, che pareva inossidabile. Basta ricordare le previsioni relative alla crescita del suo pil nel 2018, quelle che sono state pubblicate dalla Commissione europea il 21 novembre dello scorso anno e che stimavano ancora un +1,7%, oppure quelle contenute nell’Outlook del Fmi del 9 ottobre, che vaticinavano un entusiasmante +1,9%: il risultato, ben più mogio, è stato appena +1,1%. Dopo un terzo trimestre in contrazione, il quarto ha registrato una crescita dello 0,08%: un grandezza lillipuziana che ha evitato l’ingresso in recessione. Quale virus glallo-verde abbia colpito la Germania non è dato sapere: tutto è stato rigorosamente tenuto coperto. Ora, anche a Berlino il re è nudo.
Neppure i dati dell’inflazione tornano, nonostante il bazooka della Bce abbia immesso ben 2.600 miliardi di euro di nuova liquidità: in Italia, a dicembre scorso, i prezzi al consumo per le famiglie erano cresciuti dell’1% netto rispetto ad un anno prima, e dell’1,8% rispetto a due anni prima. Siamo a meno della metà dell’obiettivo. E non è che a livello europeo i dati siano molto diversi, visto che la media del 2018 è stata dell’1,4%. Anche qui, un altro bel buco nell’acqua.
A dispetto di una politica monetaria della Bce, proclamata ultra accomodante, il credito è addirittura diminuito. Con il Qe, la Banca d’Italia ha messo in portafoglio titoli pubblici per 365 miliardi di euro, ma la liquidità creata in contropartita non è stata immessa in Italia, ma è rimasta all’estero. Si vede perfettamente, infatti, l’aumento delle passività nel sistema Target 2: il saldo di fine dicembre scorso è stato di -482 miliardi di euro, mentre era di soli -192 miliardi nel marzo 2015, data di inizio degli acquisti.
Il credito all’economia italiana cala continuamente, anno dopo anno: a fine 2012, gli impieghi nel settore privato erano stati di 1.660 miliardi di euro. Da allora, un tracollo: secondo l’Abi, gli impieghi che a gennaio 2018 erano stati pari a 1.506 miliardi, a gennaio scorso arrivavano a soli 1.459 miliardi: 47 miliardi in meno, con un deleverage pari al 2,6% del pil in soli 12 mesi. Nello stesso periodo, il credito alle famiglie si è ridotto di 71 miliardi di euro, passando da 1.372 a 1.301 miliardi di euro. Forse, ma neppure forse, questi dati aiutano a capire il blocco degli investimenti e dei consumi molto più delle tante polemiche sulla politica economica del governo. I veri buchi non ci sono solo nel bilancio pubblico, ma anche nel sistema del credito.
A questi dati sull’attività bancaria, che sicuramente hanno avuto un impatto deflattivo dell’economia, dobbiamo aggiungere anche quelli che derivano dal consueto, più che ventennale, drenaggio delle risorse operato con l’avanzo primario della PA, ovvero dalla quota del prelievo fiscale destinata al pagamento di una parte degli interessi sul debito. Nel 2018, è stato pari all’1,8% del pil: mal contati, si tratta di una trentina di miliardi di tasse che non è tornata indietro. L’economia reale ne soffre, e si capisce bene perché.
Ci sono troppe cose che non funzionano, e non sono i bilanci pubblici: abbiamo a che fare con previsioni economiche farlocche; con politiche monetarie accomodanti che però non riescono a conseguire gli obiettivi di inflazione; con una vigilanza bancaria che blocca il credito; con una serie di riforme strutturali in campo salariale e nel mercato del lavoro che stanno demolendo la sostenibilità dei sistemi previdenziali.
Se è vero che finora le elezioni politiche nazionali non sono servite a cambiare le regole europee, come ha sempre proclamato l’ex-ministro delle finanze tedesco Wolfang Shaeuble quando prendeva quasi per la collottola il neo eletto premier greco Alexis Tsipras, che contestava gli accordi assunti dal suo predecessore facendosi forte di un ampio consenso popolare, il rinnovo del Parlamento europeo, a fine maggio, sarà un passaggio cruciale. Andrà molto meglio, o molto peggio, a seconda dei punti di vista: di certo, non ci sarà una via di mezzo.
Nessun commento:
Posta un commento