Pecunia non olet. Di tutti i detti tramandataci dagli antichi romani, questo è senza dubbio quello che si riverbera come il più attuale nel clan globalizzato che è oggi il nostro mondo. La società odierna, un melting pot cultural-capitalistico, erettasi sulle ceneri delle ideologie del Novecento, è oggi più che mai sorretta dalla ricchezza o dalla ricerca della stessa. In tale contesto è assiomatico che la prerogativa generalizzata sia quella di ottenere profitti, a discapito di tutto e tutti, facendo affari con chiunque, a prescindere dalla moralità dei soggetti con i quali si concludono accordi, purché il loro portafogli sia pieno. Certamente non può esentarsi da questo paradigma il commercio internazionale di armi.
La fine della Guerra Fredda ha sospinto in Europa e nel mondo un inatteso vento di distensione, dopo anni trascorsi sull’orlo di un olocausto nucleare. Una brezza che però è stata a più riprese interrotta dai vari conflitti geolocalizzati che hanno reso questi ultimi tempi una mera pace armata. Di tale condizione ha di certo beneficiato il succitato import-export bellico. Analizzando gli ultimi dati del rapporto rilasciato dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), istituto internazionale di ricerca indipendente basato nella capitale svedese, si evince che le spese militari negli ultimi anni hanno subito un incremento generoso e costante. Solamente nel 2016, l’export militare è cresciuto in media più che negli ultimi cinque anni. Principale mercato di esportazione è l’Asia, in particolare l’area mediorientale e il subcontinente indiano. Il maggior importatore di armamenti al mondo è l’India, che da sola occupa il 13% del totale, avvalendosi principalmente delle tecnologie francesi e russe, con ingenti acquisti di caccia Rafale e Sukhoi T-50. Seguono, come volume di acquisti, le monarchie del Golfo. L’instabilità diffusa nel Medio Oriente ha portato ad un generale riarmo di paesi come Qatar, Emirati Arabi, Kuwait e Arabia Saudita, quest’ultima seconda solo all’India per volumi di import militare nell’ultimo anno.

La monarchia dei Saud ha infatti affrontato negli ultimi anni spese ingenti per l’accrescimento del suo peso militare nella regione. L’incremento dei costi bellici sauditi è diretta conseguenza sia dell’impegno di Riad in Yemen contro i ribelli sciiti houthi, che della minaccia iraniana, unico vero competitor di rilievo nella regione. Una vera e propria Mecca per USA e Europa, che oltre a concedere supporto logistico, riforniscono di armi la coalizione a guida saudita in Yemen, dove, complice un silenzio assordante della comunità internazionale, si sta consumando un genocidio.
In questo desolante  scenario vi è però un paese europeo che vanta un export rilevante nel settore bellico e che ha deciso di andare controcorrente, rifiutando i petrodollari sauditi; la Svezia. Forte di una partnership con Riad che dura dal 2005, nel 2015 Stoccolma ha deciso unilateralmente di interrompere i suoi rapporti commerciali in questo settore con lo stato wahabita. La decisione è stata presa dal gabinetto del Premier Stefan Lofven a seguito di un episodio contrario alla più basilare creanza diplomatica. Nel marzo 2015 la Lega Araba (organizzazione politica degli stati arabi dove l’Arabia Saudita ha una posizione egemonica) riunita in una conferenza al Cairo ha impedito alla ministra degli esteri svedese Margot Wallström di tenere un discorso nella capitale egiziana sul rispetto dei diritti umani e su quelli delle donne, con particolare riguardo per la situazione saudita. Da questo increscioso episodio la decisione, annunciata dal ministro della difesa svedese Peter Hultqvist, di non rinnovare l’accordo sulla vendita delle armi all’Arabia Saudita in vigore dal 2005, che avrebbe dovuto essere riconfermato di lì a breve. Un accordo che solo nel 2014 ha portato alla Svezia ricavi per 37 milioni di euro grazie alla vendita a Riad di armamenti e del sistema radar Erieye, prodotto dalla svedese Saab.
Non pago del suo risonante rifiuto, il governo di sinistra in collaborazione con i quattro partiti di centrodestra, sta approntando una normativa atta a limitare pesantemente l’export di armi in paesi autocratici che violano i diritti umani, impegnati in guerre di aggressione. Come suddetto, l’apporto svedese al commercio internazionale di armi è tutt’altro che marginale: un’industria che vale oltre un miliardo di euro, all’avanguardia in svariati settori, tra cui quello aereonautico, con gli eccellenti Saab JAS 39 Gripen, che in quello marittimo, con i suoi sottomarini super-silenziosi A26. Una normativa, quella in cantiere a Stoccolma, che se supportata doverosamente da un’abbondante eco mediatica, potrebbe fare da apripista ad un adeguamento europeo in tal senso.
In Europa sono molti infatti i paesi che commerciano in armamenti con le monarchie del Golfo, Italia compresa. Secondo i dati forniti dal ministero degli Esteri le esportazioni italiane di armi nel 2016 hanno raggiunto i 14,6 miliardi di euro, rispetto ai 7,9 miliardi del 2015. Il Kuwait è il primo partner commerciale del Belpaese in tal senso, grazie alla recente fornitura di 28 Eurofighter al piccolo emirato asiatico. Seguono poi Arabia Saudita e Qatar come principali mercati di sbocco per l’Italia nell’area mediorientale. Eppure in Italia una legge come quella svedese esiste già, solamente che la stessa è subordinata al riconoscimento da parte di organismi internazionali, come l’ONU, del non rispetto dei diritti umani da parte dei paesi importatori. Recentemente l’Arabia Saudita è stata selezionata per far parte della Commissione delle Nazioni Unite a tutela delle donne o United Nations Commission on the Status of Women (UNCSW), principale strumento dell’ONU per promuovere la parità dei sessi, dopo aver ottenuto già nel 2015 una rappresentanza al Consiglio dei Diritti Umani. Pertanto una presa di coscienza dell’ONU in tal senso è da escludersi, salvaguardando così l’export italiano di armi da eventuali leggi restrittive verso i mercati mediorientali.

A onor di cronaca, timidi segnali stanno arrivando da Riyad, come la recente rimozione al divieto di guida per le donne o la possibilità per il gentil sesso di entrare negli stadi, ma sono passi troppo piccoli per un paese che è 141esimo su 144 nella classifica della disparità di genere stilata dall’ultimo Forum Economico Mondiale. E gli Stati Uniti? Donald Trump in estate, nel suo primo viaggio ufficiale internazionale, ha stretto un accordo con il Re Salman dell’Arabia Saudita per una vendita da 110 miliardi di dollari di armamenti e sistemi difensivi, compreso il sistema THAAD, salito recentemente alla ribalta per il suo dispiegamento in Corea del Sud.
In conclusione, il sospetto è che l’antesignana presa di posizione svedese sia destinata a rimanere un caso isolato, poiché, se non supportata da un’abbondante seguito a livello europeo e americano, sarà oscurata dalle preminenti politiche economiche delle grandi nazioni, che esportano armi guardando come unico criterio di selezione la capienza del portafogli e non l’utilizzo effettivo che di questi strumenti si fa, Yemen semper et ubique docet.