Se è vero che il postino bussa sempre
due volte, i contratti precari bussano molto più forte e molto più
spesso alle porte dei postini. Anche le Poste Italiane, infatti, sono
afflitte da quella che molti chiamano impropriamente "piaga del precariato"
come se si trattasse di un'immane tragedia figlia della casualità e non
il frutto di anni di scelte politiche che hanno reso precaria ogni
forma di lavoro, incluse le Poste Italiane.
La
vicenda dei lavoratori e delle lavoratrici di Poste Italiane è,
infatti, il racconto di un'agonia che coinvolge strati sempre più ampi
del nostro paese. È la storia di una degenerazione che travolge le
fondamenta di quella che una volta si chiamava "civiltà del lavoro", e
che frantuma le certezze giuridiche e sociali su cui si doveva fondare
l'assetto della nostra democrazia.
Privatizzazione
e precarizzazione, le due parole d'ordine che hanno accompagnato il
destino di Poste Italiane, hanno stretto in una tenaglia le condizioni
contrattuali dei lavoratori e la qualità del servizio pubblico. Tutto è
iniziato nel decennio delle privatizzazioni, quello compreso tra il '93 e il 2003,
in cui Poste Italiane si è trasformata in una società per azioni, dove
il capitale pubblico si è via via ridotto, trasferendo quote di
controllo al mercato finanziario. Mentre i privati avanzavano, le
condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici e i loro diritti
arretravano drasticamente, e i contratti a termine sono cresciuti, fino a
coprire dal 30 al 50 % della forza lavoro impiegata nei servizi di
recapito.
Si
è scelto di eludere le stabilizzazioni di chi aspirava a un rapporto di
lavoro duraturo con una costante sostituzione di lavoratori precari con
nuovi lavoratori precari, alimentando così la competizione tra le
figure più deboli del settore.
Dal
2006 al 2014 prima della riforma Poletti, che ha diminuito le tutele
giuridiche dei lavoratori a termine, migliaia di lavoratori aprirono un
contenzioso contro Poste Italiane, rivendicando la violazione della
disciplina sui contratti a termine e della clausole previste dalla direttiva 1999/70.
Alcuni lavoratori vinsero la causa e vennero assunti da Poste Italiane,
altri videro rigettato il ricorso e le promesse di una stabilizzazione,
che non è mai arrivata. Da allora molti lavoratori del settore
continuano a battersi nel silenzio delle grandi testate d'informazione,
per veder riconosciuto il diritto a essere reintegrati.
Negli
anni la politica di riduzione del costo del lavoro promossa da Poste
Italiane non ha incontrato limiti. La forza lavoro occupata negli ultimi
5 anni è costantemente diminuita, dal 2012 ad oggi sono 7000 mila in
meno i lavoratori impiegati. E se gli occupati a tempo indeterminato
diminuiscono da 144 mila nel 2012 a 135 mila nel 2016, i lavoratori a termine aumentano sino a superare la soglia di 6 mila occupati.
Numeri che si accompagnano al trend positivo dei ricavi di Poste Italiane, che nel 2017 si attestano ai 18 miliardi con una crescita del 2% rispetto al primo semestre del 2016.
Un risultato costruito con politiche di moderazione salariale e
riduzione del costo del lavoro. Sono gli stessi dirigenti di Poste
Italiane ad ammetterlo nella relazione finanziaria del gruppo:
La componente ordinaria del costo del lavoro, connessa a stipendi, contributi e oneri diversi si riduce di 49 milioni di euro, passando da 5.787 milioni di euro del 2015 a 5.738 milioni di euro nel 2016, per effetto della riduzione dell'organico stabile e flessibile mediamente impiegato nell'anno (circa -2.400 risorse full time equivalent – FTE rispetto al 2015) che ha compensato i maggiori costi derivanti da festività cadenti di domenica, dal mancato riconoscimento della decontribuzione sul premio di risultato, e dagli accantonamenti connessi con le attese di rinnovo della componente economica del contratto collettivo nazionale di lavoro.
Il
Decreto Poletti e il Jobs Act hanno permesso a Poste Italiane di
consolidare uno schema di reclutamento del personale, che si avvale
della possibilità di prorogare contratti a termine di brevissima durata,
senza una chiara e giustificata motivazione di carattere produttivo e
organizzativo. La licenza a "precarizzare" le condizioni di lavoro è
stata utilizzata senza limiti.
Negli ultimi tre anni Poste Italiane ha prorogato i contratti temporanei sino ai 24 mesi
per eludere gli obblighi derivanti dal Contratto Collettivo Nazionale
in merito agli scatti di livello e agli adeguamenti salariali. Sono circa 6000 mila i lavoratori
e le lavoratrici sottoposte a questo continuo ricatto occupazionale.
Part-time involontari, lavoratori assunti in somministrazione,
frammentazione del ciclo produttivo con il ricorso ad appalti dove
l'unico criterio di assunzione è il "massimo ribasso". Sono le ultime
frontiere della precarietà di Stato, sotto lo sguardo assente del
principale azionista di Poste Italiane: il governo. Un ricatto che si
serve dell'ampia schiera di disoccupati e working poor che popolano il
nostro paese per rimpiazzare chi prova ad alzare la testa e rivendicare
condizioni di lavoro degne.
C'è
chi dice che in un'epoca in cui le e-mail hanno sostituito le lettere è
strutturale e inevitabile una riduzione del personale di Poste
Italiane. Ebbene, chi dice ciò mente sapendo di mentire, sia perché a
ridursi non sono le ore lavorate, ma i diritti e i salari di chi lavora.
Quello
che accade in Poste Italiane è lo specchio fedele di una dinamica
generale del mercato del lavoro italiano. Agli organici ridotti si
risponde aumentando l'intensità di lavoro di chi è occupato e riducendo i
costi di produzione, con il ricorso parallelo a contratti a termine e
all'abuso di straordinari. Una condizione che coinvolge prevalentemente i
lavoratori impiegati nel settore della logistica e delle spedizioni,
che vivono in prima persona l'intensificazione dei tempi di lavoro e la
precarizzazione delle condizioni contrattuali.
Un
quadro che andrebbe profondamente modificato, assegnando centralità ad
un piano di reclutamento del personale, accompagnato da un'analisi
complessiva delle competenze da formare e valorizzare. Avviando quella
stabilizzazione dei tanti lavoratori e delle tante lavoratrici che hanno
consentito a Poste Italiane di aumentare i propri ricavi e che ora
chiedono in cambio il riconoscimento di quanto gli spetta.
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