Ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale: è
iniziata, già rilevata dall’ISTAT, una brusca inversione di tendenza
della prospettiva di sopravvivenza della popolazione italiana. Ciò è
drammatico non solo in sé, ma anche in quanto è il risultato, come
ipotizzato dallo stesso Avvenire, giornale cattolico, della riduzione delle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale e dell’assistenza agli anziani.
E’ da rilevare che una riduzione della prospettiva
di vita di una popolazione è un evento doloroso che storicamente
ricorre in coincidenza di guerre o crisi sociali, politiche ed
economiche di proporzioni e durata gigantesca. Un esempio per tutti, in
tempi recenti: il crollo di quasi venti anni della prospettiva di vita
della popolazione russa maschile nel periodo compreso, all’incirca,
tra il 1980 e il 2000 -in seguito parzialmente recuperato- conseguente
ai processi di disfacimento dell’URSS.
La cosa più paradossale è che, pur di fronte a
questa drammatica ed avvilente riduzione della prospettiva di vita
della nostra popolazione (ma dove è il progresso?), prosegue
sfacciatamente l’aumento dell’età pensionabile. A tal proposito è
opportuno evidenziare che la legge di “riforma” delle pensioni
Monti-Fornero ha previsto che l’età pensionabile segua sempre
l’andamento della prospettiva di vita solo se questo è positivo, ma non
lo segua nel caso divenisse negativo: l’età pensionabile può solo
aumentare e in nessun caso ridursi (ciò è stato sottaciuto). Si può
pertanto facilmente intuire che i legislatori -su mandato della BCE e
dei creditori europei, banchieri e capitalisti internazionali- sin da
allora preconizzassero che la curva di incremento della prospettiva di
vita della popolazione italiana avrebbe subito un’inversione negli anni
successivi. Come chiamare tutto ciò se non una truffa premeditata? La
questione più grave dell’aumento dell’età pensionabile -oltre al fatto
di togliere il diritto al meritato riposo agli anziani, sottraendo
anche alle famiglie il loro aiuto, ad esempio, nella cura dei nipoti- è
il rischio catastrofico di essere espulsi dal lavoro ancor prima del
raggiungimento dell’età della pensione. Molti posti di lavoro infatti
oggi sono in bilico e le aziende fanno e faranno di tutto per liberarsi
proprio dei lavoratori anziani, in quanto meno in salute e meno forti
fisicamente, tecnicamente obsolescenti e in genere meglio pagati.
Per apparire comprensivo nei confronti dei
lavoratori il governo ha predisposto l’anticipo pensionistico (APE)
volontario, con il quale, a determinate condizioni e sopra i 63 anni, è
possibile ricevere un assegno mensile pensionistico. In realtà con
l’APE nulla viene regalato al lavoratore: detto anticipo infatti
consiste propriamente in un prestito che dovrà essere rimborsato in
venti anni a partire dal momento del raggiungimento della “effettiva”
età pensionabile, prelevandolo automaticamente ogni mese dalla
pensione. Questi lo pagherà molto caro: oltre al capitale ricevuto da
rimborsare, le spese gestionali ed il profitto, il lavoratore dovrà
infatti pagare anche gli interessi sul prestito, nonché
un’assicurazione sulla vita che copre il creditore dal rischio di
premorienza negli anni che intercorrono dall’inizio dell’erogazione
fino al completamento del rimborso.
Si parla sempre della piaga europea, ma soprattutto
italiana, della disoccupazione giovanile: ma come si pensa di
risolverla se viene continuamente aumentata la permanenza al lavoro? A
meno che si vorranno attuare licenziamenti di massa dei lavoratori
anziani, i quali, non potendo ancora accedere alla pensione,
finirebbero sul lastrico. A questo proposito ci si può aspettare che a
breve torneranno a tuonare i proclami dell’ideologia neoliberista
contro quei residui dell’articolo 18 che ancora tutelano parzialmente i
lavoratori assunti prima del 2015, al motto astioso “basta lavoratori
troppo garantiti sulle spalle delle giovani generazioni!” e “il job act
va esteso a tutti, anche per equità!”. Insomma, anziché ridurre in
modo generalizzato l’orario di lavoro per assorbire l’occupazione
giovanile, si opta per un elevato tasso di disoccupazione finalizzato
ad abbassare i salari e peggiorare le condizioni di lavoro, con
incremento dei profitti del capitale (le oligarchie capitalistiche
praticano la lotta di classe, mentre molti, a sinistra, credono che le
classi siano ormai scomparse).
Così, oltre alla impressionante disoccupazione
giovanile, intorno al 40%, si stima che un quarto circa dei giovani tra
14 e 25 anni non lavorano né studiano -i cosiddetti NEET-.
Di fronte a tali drammatici numeri si deve parlare di patologia sociale
piuttosto che individuale. Infatti avviene che al giovane è richiesto
di partecipare ad una angosciante impegnativa competizione con i propri
coetanei per conquistare e poi mantenere o riconquistare un posto di
lavoro (ma anche solo per accedere ad un corso di laurea, ormai quasi
tutti a numero chiuso) e poter sopravvivere o comunque rendersi
indipendente, accedere ai consumi, inserirsi nella società e farsi una
famiglia. Ma l’esito di una tale estenuante competizione, che impone di
superare ostacoli, delusioni ed umiliazioni, non è affatto scontato:
sono in troppi a competere per pochi posti di lavoro, senza contare che
la maggior parte di questi sono lavoretti precari, sfruttati e mal
pagati. Paradossale ed imbarazzante, ma significativo, che moltissimi
centri di formazione istituiscano corsi anziché per ampliare o affinare
conoscenze e competenze, per addestrarsi a questa stessa competizione:
come redigere un curriculum vitae o cercare lavoro o prepararsi ad
affrontare un colloquio o un test di lavoro. E’ del tutto naturale che
in tale contesto di esasperata competizione individuale, in cui le
probabilità di fallimento sono tanto elevate, molti giovani rinuncino a
parteciparvi. Molti di essi preferiscono sottrarsi al giudizio della
società isolandosi dal mondo ed entrando, semmai, nella realtà virtuale
delle attuali tecnologie informatiche, nella quale l’io virtuale ed il
mondo virtuale possono essere ancora manipolati dal soggetto.
Gli attacchi ai lavoratori sembrano ormai non avere
più argini. E’ di questi giorni, ad esempio, la richiesta, che sarà a
breve attuata, di ampliare da quattro a sette l’orario in cui il
lavoratore in malattia del settore privato dovrà essere reperibile
all’indirizzo comunicato, per l’accertamento dello stato di salute da
parte del medico fiscale. In sostanza dette fasce di controllo, in
teoria concepite per accertare lo stato effettivo di salute, vanno
assumendo lo scopo di rendere la vita difficile al lavoratore in
malattia, per dissuaderlo dall’assentarsi dal lavoro. Così, per il
lavoratore agli arresti domiciliari, cioè in malattia, se non ha in
casa un maggiordomo o dei famigliari a disposizione (magari
disoccupati: forse a questo servono!) sarà un problema persino recarsi
in farmacia (“ma ci son le farmacie notturne!”) o procurarsi delle
fette biscottate o dei limoni. Provocatoriamente, non si potrebbe
proporre che il lavoratore in malattia venga recluso in un’istituzione,
magari senza televisione, ma dove gli sarebbe fornito un pasto caldo
ed eventuali farmaci qualora necessari (o costerebbe troppo?).
Insomma, questa politica economica neoliberista,
con l’arretramento impetuoso dei diritti dei lavoratori, costituisce il
naturale corso nel sistema capitalistico attuale, in cui le lotte dei
lavoratori, ormai disuniti, segnano il passo, non vi sono più partiti
comunisti e l’Unione Sovietica è un ricordo del passato. Bisogna
tuttavia che i lavoratori e le organizzazioni sindacali e politiche
riprendano a rivendicare istanze di interesse comune e non solo
particolare, di breve prospettiva o opportunistico. Occorre lottare per
la riduzione -anziché l’aumento- dell’età della pensione per dare
lavoro ai giovani, i quali hanno massima capacità e voglia di lavorare,
e che invece si abbrutiscono e si demoralizzano senza far nulla,
persino alla fine disabituandosi alla vita attiva ed al lavoro; è
necessaria una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro al fine di
ridurre la disoccupazione; è necessario aumentare, anziché ridurre,
la spesa sociale per la sanità, l’istruzione ed il trasporto pubblico.
Non ci sono i soldi? Si vada a vedere quanti yacht smisurati ci sono a
porto Cervo, a Portofino e Santa Margherita Ligure, a Punta Ala, in
Costa Smeralda o a Montecarlo (ove neppure si pagano le tasse), o
quante Ferrari o Lamborghini si vendono, per non parlare delle spese
militari (acquisto di caccia bombardieri F35, ecc.).
Dobbiamo allora riflettere ed opporci ad una
organizzazione dei rapporti sociali di produzione (il sistema
capitalistico) che crea miseria e sofferenza, polarizzazione smisurata
della ricchezza (indice di caduta della civiltà), arretramento dei
diritti e del benessere dei cittadini, e in cui i giovani sono esclusi
dall’attività, i talenti sprecati e le risorse umane umiliate. Per non
parlare di come viene trattato l’ecosistema del nostro pianeta e la
salute umana, sottomessi alle logiche del mercato, cioè del profitto.
E’ inaccettabile dunque un sistema in cui il futuro per la maggior
parte degli individui costituisca inesorabilmente un’angosciante
minaccia: dal rischio della perdita del posto di lavoro alla pensione
che si allontana, dalla riduzione dell’accesso alle cure mediche ed
assistenziali alla mancanza di lavoro per i nostri figli, dal timore
degli effetti sempre più impattanti della devastazione ecologica alla
minaccia di guerre nucleari.
Dobbiamo invece riappropriarci del nostro futuro,
consapevoli che la storia non è finita, ma dipende da noi, dalla nostra
volontà e capacità di organizzarci e cambiare il mondo (il concetto
marxista di prassi): l’essenza della ragione umana è invero proprio nel
pensiero e nell’azione rivolta al futuro. Dobbiamo respingere la scala
di valori del qui ed ora, dell’uomo pratico, astorico e
acritico, a suo agio all’interno del sistema dato (quella gestione
del’immediato che, per quanto irrinunciabile, ci accomuna agli
animali), valori inculcati dall’ideologia del mercato, funzionali al
consumismo e alla valorizzazione del capitale, ma deleteri per lo
sviluppo umano.
Occorre dunque rimettere al centro l’uomo, con la
sua la ragione hegeliana storico-dialettica, respingendo sia le
filosofie irrazionaliste della rassegnazione (da Schopenhauer fino al
postmodernismo) sia le filosofie che negano al soggetto pensante la
possibilità e il compito di trasformare il mondo sociale (posizioni
positivistico-empiriste alla Popper). Nello specifico, secondo queste
ultime alla filosofia non spetta valutare e tanto meno interferire con
la struttura del sistema economico, considerato parte del mondo
naturale, studiabile al più da tecnici economisti ed amministratori.
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