martedì 31 ottobre 2017

Pd perde punti: Renzi accerchiato ora apre alle alleanze

Matteo Renzi si sente accerchiato e negli ultimi 5 mesi il Partito democratico ha bruciato ben 5 punti nei consensi elettorali. I dem, secondo un sondaggio Ipsos pubblicato dal Corriere della Sera, sarebbero così in caduta libera conquistando a malapena il 25,5%, mentre il centrodestra con Forza Italia è a 16,1%, la Lega viaggia intorno al 15%, mentre Fratelli d’ltalia è al 4,5% e infine il Movimento 5 Stelle, nelle ultime settimane ha subito una forte contrazione, fermandosi al 27,5%.
Ma un dato allarma i seguaci del Pd. Negli ultimi cinque mesi il partito al governo ha perso ben cinque punti. Così il segretario Matteo Renzi tenta di salvare il salvabile dopo aver fatto terra bruciata attorno a sé e apre nuovamente alle alleanze a sinistra. Durante la Conferenza programmatica del Pd a Napoli prende la parola e parla del partito democratico come il perno di una colazione che sia Renzi che il premier Paolo Gentiloni vogliono ampia, inclusiva, plurale.
“Serve unità, non possiamo permetterci liti o baruffe abbiamo una responsabilità istituzionale, sapere che il Pd ha un compito enorme, scommettere su un modello che non è polemica tutti i giorni. Non si possono mettere veti sulle realtà che vengono dal centro non possiamo permetterci veti alla nostra sinistra. Se qualcuno pensa che fuori dal Pd si possano combattere battaglie di sinistra… io penso che fuori dal Pd non ci sia la rivoluzione socialista ma Salvini e Di Maio. Se c’è disponibilità, sia a sinistra che al centro, di creare delle strutture e parlare di contenuti noi ci siamo, ma senza rinunciare alle idee del Pd”.

lunedì 30 ottobre 2017

Il Qatar scarica Hillary Clinton

L’ex-primo ministro del Qatar Hamad bin Jasim bin Jabar al-Thani, ha concesso un’intervista confermando ciò che chiunque con minima conoscenza degli eventi in Siria, negli ultimi sei anni, sapeva… Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Stati Uniti hanno cospirato per rovesciare il governo di Bashar al-Assad e armare i gruppi terroristici della regione perciò, incluso ciò che è divenuto lo SIIL.
Traduzione parziale dell’intervista a Jabar al-Thani: “Quando si ebbero i primi eventi in Siria, andai in Arabia Saudita e incontrai re Abdullah, gli relazionai secondo le istruzioni di sua altezza il principe, mio padre, e gli dissi che eravamo con loro e ci saremmo coordinati, ma che sarebbero stati responsabili. Non posso entrare nei dettagli ma abbiamo documenti completi e tutto ciò che è stato inviato in Siria, passando per la Turchia in coordinamento con le forze statunitensi, e il tutto veniva distribuito dai turchi e dalle forze statunitensi… E noi, e tutti gli altri eravamo coinvolti, i militari… forse ci furono errori e il sostegno fu dato alla fazione sbagliata… Forse c’era un rapporto con al-Nusra, è possibile ma io stesso non lo so… stavamo combattendo contro la preda (al-Sayda) e ora la preda è andata e ancora combattiamo… e Bashar è ancora lì. Voi (Stati Uniti e Arabia Saudita) eravate con noi nella stessa trincea… non ho alcuna obiezione che si cambi capendo di aver sbagliato, ma almeno informatene il partner… per esempio lasciare Bashar (al-Assad) o fare questo o quello, ma la situazione creata ora non permetterà mai alcun progresso nel GCC (Consiglio di cooperazione del Golfo) o qualsiasi progresso su qualsiasi cosa, se continuiamo a lottare apertamente“.
Gente, vi dico da giorni che il muro di contenimento attorno a Hillary Clinton crolla. Ora il Qatar, che non ha nulla da perdere, a questo punto, accusando di complicità l’amministrazione Obama, specialmente perché i sauditi gli si sono messi contro per farne il capro espiatorio del fallimento dell’insurrezione in Siria. Ma accusare direttamente CIA e dipartimento di Stato degli Stati Uniti, allora controllati da Hillary Clinton, è assolutamente la cosa peggiore da fare adesso. Quindi, cosa è successo agli 1,8 miliardi di dollari che Hillary trasferì in Qatar poche settimane prima delle elezioni? Qualcuno ancora pensa che sia la benvenuta? Penso che la frase operativa sia “Diavolo, mai!” Infatti, mi chiedo perché non sia stata vista lì nelle ultime settimane, non avendo un trattato di estradizione col Qatar…. e ora la risposta è evidente, il Qatar si prepara ad ogni evenienza, mentre molla l’intera operazione. Se dovesse continuare a subire il blocco finanziario e militare, allora tutti lo seguiranno fino in fondo. Questa è l’essenza del Dilemma del prigioniero. Finché non ci sarà sufficiente pressione su uno dei prigionieri, lo status quo può mantenersi e nessuno parlerà. Ma, una volta che l’attrito arriva al punto in cui il silenzio diventa solo un danno, l’intero edificio si sbriciola.
Hillary ha governato con la paura per più di 30 anni, prima in Arkansas e poi a Washington. Nessuno la teme più e nessuno prossimo a lei è morto la settimana passata; forse farsi avanti ed accordarsi è la cosa giusta. Il Qatar ha un futuro con Iran e Russia. L’unica cosa che non se visto, naturalmente, è il ruolo d’Israele in tutto questo. Al-Thani l’ha evitato.

venerdì 27 ottobre 2017

Non si ricicla? Allora non lo compro

Vi ricordate quando Rossano Ercolini di Zero Waste Italia lanciò un anno fa la campagna “La doppia sporca dozzina" contro i prodotti non riciclabili? L’iniziativa aveva il coinvolgimento del Centro Ricerca Rifiuti Zero del comune di Capannori, Zero Waste Italy e l’Associazione Ambiente e Futuro per Rifiuti Zero. Ebbene, a poco più di un anno di distanza si è ancora lontani dal cambio di paradigma, ma una cosa è certa: la situazione è tale da non concedere più tempo. A nessuno.
Attuando i primi sette passi del percorso rifiuti zero, come spiega Ercolini, le comunità possono arrivare a risolvere fino all’85% del problema rifiuti, trasformandoli in risorse con la pratica della raccolta differenziata porta a porta, le isole ecologiche e i Centri per la riparazione e il riuso (per abiti, scarpe, borse, mobili, elettrodomestici, computer ecc.). Ma resta un 15% di indifferenziato ed è anche e molto su quello che occorre agire; per riprogettarne la produzione.
Si sa ormai che ridurre è la parola chiave; anche l’Unione Europea, nella sua piramide sulla gestione dei rifiuti, la mette al primo posto.
Ma come è possibile diminuire il numero di rifiuti non facilmente riciclabili?  Ercolini suggerisce due strade: la prima è quella della sensibilizzare delle persone agli acquisti consapevoli, la seconda, maggiormente incisiva e su cui puntare con forza, è quella della riprogettazione industriale di beni e prodotti, principio alla base dell’economia circolare, e la responsabilità estesa del produttore, che spesso è rappresentato da grandi imprese multinazionali.
Secondo gli studi del Centro Ricerca Rifiuti Zero del comune di Capannori, Zero Waste Italy e l’Associazione Ambiente e Futuro per Rifiuti Zero, sono 24 i prodotti denominati, appunto, “la doppia sporca dozzina”:
  •     pannolini, pannoloni ed assorbenti femminili
  •     cotton fioc
  •     accendini mono uso
  •     spazzolinotubetti di dentifricio e spazzolini da denti
  •     figure adesive
  •     scontrini fiscali
  •     capsule e cialde per il caffè monoporzionato
  •     appendini in plastica
  •     CD, Floppy disk
  •     chewingum
  •     rasoi usa e getta
  •     mozziconi di sigarette
  •     stoviglie usa e getta
  •     penne a sfera e pennarelli
  •     guanti in lattice monouso
  •     salviette umidificanti
  •     cerotti per medicazione
  •     nastro adesivo
  •     carta carbone e carta forno
  •     carta plastificata
  •     tovaglie e tovaglioli in tessuto non tessuto (TNT)
  •     carte di credito, bancomat e tessere plastificate
  •     lettiere sintetiche per gatti e altri animali domestici
Vediamone nel dettaglio alcuni con le possibili alternative in commercio.
Assorbenti femminili, pannolini e pannoloni  - Questo “flusso” di rifiuti, come ci ricorda Ercolini, rappresenta circa il 25% del totale dei rifiuti urbani residui (RUR) e quindi una delle “voci” più importanti per abbattere la produzione di rifiuti difficilmente riciclabili. Per gli assorbenti esistono alcune alternative, ad esempio, in commercio si trovano quelli biodegradabili da conferire nell’organico (ma non nell’auto-compostaggio in quanto richiedono un trattamento negli impianti industriali di compostaggio), altra alternativa è rappresentata dalla coppetta mestruale igienica e funzionale. Per i pannolini l’alternativa più efficace rimane il pannolino lavabile che, però, per essere sufficientemente comoda va integrata con un servizio di lavanderia per permettere alle famiglie di disporre, ad un costo ragionevole, del servizio di lavaggio, se non intendono effettuarlo in autonomia. Si potrebbe pensare, ad esempio, di ubicare il servizio di lavanderia negli asili nido facendolo, magari, gestire da una cooperativa sociale. Più complicato è il problema dei pannoloni, per i quali risulta utile fare i conti con lo “stato dell’arte”, ovvero con tutte quelle tecnologie in grado di riciclare questi rifiuti evitando così la produzione di una mole di scarti destinati solo ad essere smaltiti.
Cotton Fioc – Le alternative a quelli non riciclabili, spesso scaricati nel water close e quindi corresponsabili dell’inquinamento da plastiche nei mari, ci sono; ne esistono, infatti, di vegetali ed anche in plastica biodegradabile.
Accendini mono uso – Si può fare a meno degli accendini usa e getta utilizzando quelli ricaricabili (USB). Certo, all’inizio costano di più ma possono durare molto a lungo.
Spazzolini da denti – Ne esistono di canna di bambù interamente biodegradabili (ed auto compostabili) come esistono quelli in cui si può sostituire la parte a contatto con i denti, ovvero la testina consumata.
Tubetti di dentifricio – Esiste il dentifricio in pastiglie in confezioni di vetro/carta e quindi riciclabili. Interessante e simpatico anche prodursi in proprio il dentifricio. Ovviamente, questo per i più motivati e coerenti.
Figurine adesive – Esistono alcune soluzioni per ridurre o evitare di ricorrere agli adesivi (le figurine adesive non possono essere riciclate perché plastificate). Tra le altre soluzioni, quella dell’album prodotta dal WWF nel quale si sistemano le figurine non plastificate negli appositi angoli "ad incastro".
Scontrini fiscali in carta termica – Gli attuali scontrini sono prodotti in carta chimica non riciclabile (vanno messi nell’indifferenziato), dal 1996 se ne prevede la dismissione ed un sistema alternativo che mantenga tutte le caratteristiche tese ad evitare le evasioni fiscali. Purtroppo il loro utilizzo continua nonostante si possa procedere nello stessa funzione attraverso sistemi informatizzati.
Capsule e cialde per il caffè monoporzionato - Questo caso studio è certo il più famoso lanciato nel 2010 dal CRRZ che ha portato alcune importanti marche di caffè ma anche la grande distribuzione a produrre sistemi in plastica biodegradabile. La battaglia non è vinta ma sono stati fatti dei passi nella giusta direzione.
Appendi abiti (in plastica) – A differenza di quelli in ferro, che possono essere conferiti nelle isole ecologiche (i metalli sono ben remunerati), quelli in plastica, dopo una circolare di COREPLA (che li riconosce parte dell’imballaggio), possono essere conferiti nel multi-materiale. Così la doppia sporca dozzina fortunatamente perde un membro che nessuno rimpiange.
CD–DVD – Abbiamo appreso che possono essere facilmente riciclati. Il CD è in policarbonato e i DVD in PVC. Il problema purtroppo non si risolve perché se tali possibilità tecniche di riciclo sono disponibili, esse possono valere per i venditori di “dischi” e non per le utenze domestiche che dovrebbero essere informate sulla necessità di conferire tali prodotti nelle isole ecologiche (in alternativa al loro smaltimento). Una buona idea potrebbe essere quella di fornire i negozi di dischi e tutte le scuole di appositi contenitori dove conferire i vecchi CD.
Gomme da masticare – Esiste un’unica gomma biodegradabile disponibile grazie al mercato equo e solidale.
Rasoi usa e getta – Per questi prodotti oggi si punta a promuovere soluzioni commerciali che moltiplicano il numero delle prestazioni di un’unica lametta. Meglio, sempre, la testina ricaricabile.
Mozziconi di sigarette – Meglio non fumare! Comunque per la normativa vigente i mozziconi devono essere raccolti attraverso sistemi diffusi dai Comuni e gli abbandoni devono essere sanzionati con multa. Talvolta all’abbandono della “cicca” corrisponde l’abbandono in strada del pacchetto che invece è perfettamente riciclabile essendo in cartoncino e foderato all’interno con carta stagnola.
Stoviglie usa e getta – I Comuni possono fare tanto, ad esempio usare nelle mense pubbliche solo piatti in ceramica e normali posate e dotare le strutture di lavastoviglie. In feste, sagre e simili, si può, nell’ordine, usare la cellulosa della canna da zucchero (piatti, bicchieri ecc. completamente compostabili ed auto compostabili), contenitori realizzati con foglie di palma e solo in ultimo le bio plastiche. Occorre, in proposito, che i Consigli comunali adottino specifici regolamenti modulando con incentivi e disincentivi il ricorso alle buone pratiche.
Penne e pennarelli – Per i pennarelli che i bambini a scuola consumano in quantità notevoli abbiamo trovato alcune marche che vendono pennarelli ricaricabili che il Centro Ricerca Rifiuti Zero (CCRZ) sta testando per verificarne le prestazioni.
Carta forno – Bisogna fare attenzione al momento dell’acquisto, infatti, sul mercato sono disponibili modelli biodegradabili conferibili nell’organico. Qui la sensibilità del consumatore può fare la differenza !

giovedì 26 ottobre 2017

Crescita economica mondiale 2000-2016: Grecia e Italia agli ultimissimi posti

Nel mese di maggio, qui su The Sounding Line, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’Euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità.

“L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo”.
 
L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così.

Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (PIL) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono microstati (Monaco, Andorra ecc.); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.


Escludendo i paesi di cui sopra, la Grecia ha sperimentato la maggior riduzione assoluta del PIL reale rispetto a qualsiasi paese al mondo nel 21 ° secolo e (insieme con la Repubblica Centrafricana) il terzo peggior tasso di crescita economica di qualsiasi paese.


Gli evidenti effetti negativi dell’appartenenza all’Eurozona non sono limitati alla Grecia.
Subito dopo la Grecia e la Repubblica Centrafricana viene l’Italia, che ha visto la quarta più lenta crescita economica di tutto il mondo nel 21° secolo, una crescita a malapena dell’1% nel corso degli ultimi 16 anni. Non molto lontano, il Portogallo risulta la sesta economia più lenta al mondo, con una crescita negli ultimi 16 anni del 3%.

Da notare che tra i 25 paesi con la crescita economica più lenta del mondo, sette sono paesi dell’eurozona, tra cui la Germania (un po’ sorprendente), i Paesi Bassi, la Finlandia e la Francia. La Danimarca, che è nell’UE, ma non nell’area dell’euro (però ha la moneta agganciata all’euro, ndVdE), è anche lei tra i 25 paesi con la crescita più lenta al mondo.

Comunque possiamo congratularci con i leader economici dell’Eurozona per avere ridotto l’economia della Grecia meno (parlando di percentuali) di quanto ha fatto un dittatore di 93 anni come Robert Mugabe nello Zimbabwe e delle varie fazioni che governano lo Yemen lacerato dalla guerra.

In altre parole, negli ultimi 17 anni la crescita economica greca, italiana e portoghese è stata peggiore rispetto a: Iraq (nonostante 15 estenuanti anni di guerra e insurrezione), Iran (nonostante gli anni di schiaccianti sanzioni internazionali), Ucraina (nonostante il suo conflitto con la Russia), Liberia (nonostante la guerra civile e migliaia di persone uccise da Ebola), Sudan (nonostante anni di genocidio, guerra civile e la divisione in due del paese) e di quasi tutti gli altri paesi del mondo.

Naturalmente, mantenere elevati tassi di crescita è più difficile per le grandi economie sviluppate. Tuttavia, questa non è una scusa per la crescita negativa o vicina a zero osservata in Grecia, Italia e Portogallo. Tutte le grandi economie sviluppate al di fuori dell’Eurozona infatti sono cresciute notevolmente nello stesso periodo. Questo è particolarmente vero visto che anche l’economia – famigerata per la sua lentezza – del Giappone è cresciuta di un relativamente veloce 13%, la Svizzera del 31%, il Regno Unito del 32%, gli Stati Uniti del 33%, il Canada del 36%, l’Australia del 59%, la Russia del 71% e la Cina di un incredibile 325%.

Sebbene la crescita economica non sia l’unica misura importante per giudicare un’economia, né garantisca che la ricchezza economica sia distribuita in modo equo, in assenza di crescita, semplicemente, non è possibile avere sostanziali miglioramenti economici per la popolazione di un paese.

Ciò che sta succedendo in diverse economie dell’Eurozona non può essere attribuito a un rallentamento economico ciclico, né a un recupero lento dalla crisi finanziaria del 2008, né è semplicemente una conseguenza inevitabile per un’economia sviluppata. Lo smentiscono le prestazioni migliori di praticamente qualsiasi altro paese sulla Terra, dai più grandi paesi avanzati ai paesi del Terzo mondo che hanno affrontato guerre, genocidi, epidemie, corruzione e rivoluzioni.
Grecia, Italia, Portogallo e alcuni altri paesi dell’Eurozona soffrono di profondi problemi strutturali (per esempio una moneta strutturalmente sopravvalutata, ndVdE) e di una gestione economica tra le più incapaci del mondo. Forse è giunto il momento di iniziare a considerare i leader economici dell’autodichiarata élite che gestisce l’eurozona responsabili dei risultati che hanno ottenuto.
E, dato che la Grecia continua a lottare per sostenere il suo debito sovrano non ripagabile, vale la pena di notare che i sette paesi africani e centroamericani che hanno scelto di fare default sui propri debiti sovrani a partire dal 2000, sono tutti cresciuti più della Grecia (con la probabile eccezione del Venezuela). Forse la Grecia dovrebbe cogliere il suggerimento.

mercoledì 25 ottobre 2017

Poste italiane e la dilagante precarietà di Stato

Se è vero che il postino bussa sempre due volte, i contratti precari bussano molto più forte e molto più spesso alle porte dei postini. Anche le Poste Italiane, infatti, sono afflitte da quella che molti chiamano impropriamente "piaga del precariato" come se si trattasse di un'immane tragedia figlia della casualità e non il frutto di anni di scelte politiche che hanno reso precaria ogni forma di lavoro, incluse le Poste Italiane.
La vicenda dei lavoratori e delle lavoratrici di Poste Italiane è, infatti, il racconto di un'agonia che coinvolge strati sempre più ampi del nostro paese. È la storia di una degenerazione che travolge le fondamenta di quella che una volta si chiamava "civiltà del lavoro", e che frantuma le certezze giuridiche e sociali su cui si doveva fondare l'assetto della nostra democrazia.
Privatizzazione e precarizzazione, le due parole d'ordine che hanno accompagnato il destino di Poste Italiane, hanno stretto in una tenaglia le condizioni contrattuali dei lavoratori e la qualità del servizio pubblico. Tutto è iniziato nel decennio delle privatizzazioni, quello compreso tra il '93 e il 2003, in cui Poste Italiane si è trasformata in una società per azioni, dove il capitale pubblico si è via via ridotto, trasferendo quote di controllo al mercato finanziario. Mentre i privati avanzavano, le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici e i loro diritti arretravano drasticamente, e i contratti a termine sono cresciuti, fino a coprire dal 30 al 50 % della forza lavoro impiegata nei servizi di recapito.
Si è scelto di eludere le stabilizzazioni di chi aspirava a un rapporto di lavoro duraturo con una costante sostituzione di lavoratori precari con nuovi lavoratori precari, alimentando così la competizione tra le figure più deboli del settore.
Dal 2006 al 2014 prima della riforma Poletti, che ha diminuito le tutele giuridiche dei lavoratori a termine, migliaia di lavoratori aprirono un contenzioso contro Poste Italiane, rivendicando la violazione della disciplina sui contratti a termine e della clausole previste dalla direttiva 1999/70. Alcuni lavoratori vinsero la causa e vennero assunti da Poste Italiane, altri videro rigettato il ricorso e le promesse di una stabilizzazione, che non è mai arrivata. Da allora molti lavoratori del settore continuano a battersi nel silenzio delle grandi testate d'informazione, per veder riconosciuto il diritto a essere reintegrati.
Negli anni la politica di riduzione del costo del lavoro promossa da Poste Italiane non ha incontrato limiti. La forza lavoro occupata negli ultimi 5 anni è costantemente diminuita, dal 2012 ad oggi sono 7000 mila in meno i lavoratori impiegati. E se gli occupati a tempo indeterminato diminuiscono da 144 mila nel 2012 a 135 mila nel 2016, i lavoratori a termine aumentano sino a superare la soglia di 6 mila occupati.
Numeri che si accompagnano al trend positivo dei ricavi di Poste Italiane, che nel 2017 si attestano ai 18 miliardi con una crescita del 2% rispetto al primo semestre del 2016. Un risultato costruito con politiche di moderazione salariale e riduzione del costo del lavoro. Sono gli stessi dirigenti di Poste Italiane ad ammetterlo nella relazione finanziaria del gruppo:
La componente ordinaria del costo del lavoro, connessa a stipendi, contributi e oneri diversi si riduce di 49 milioni di euro, passando da 5.787 milioni di euro del 2015 a 5.738 milioni di euro nel 2016, per effetto della riduzione dell'organico stabile e flessibile mediamente impiegato nell'anno (circa -2.400 risorse full time equivalent – FTE rispetto al 2015) che ha compensato i maggiori costi derivanti da festività cadenti di domenica, dal mancato riconoscimento della decontribuzione sul premio di risultato, e dagli accantonamenti connessi con le attese di rinnovo della componente economica del contratto collettivo nazionale di lavoro.
Il Decreto Poletti e il Jobs Act hanno permesso a Poste Italiane di consolidare uno schema di reclutamento del personale, che si avvale della possibilità di prorogare contratti a termine di brevissima durata, senza una chiara e giustificata motivazione di carattere produttivo e organizzativo. La licenza a "precarizzare" le condizioni di lavoro è stata utilizzata senza limiti.
Negli ultimi tre anni Poste Italiane ha prorogato i contratti temporanei sino ai 24 mesi per eludere gli obblighi derivanti dal Contratto Collettivo Nazionale in merito agli scatti di livello e agli adeguamenti salariali. Sono circa 6000 mila i lavoratori e le lavoratrici sottoposte a questo continuo ricatto occupazionale. Part-time involontari, lavoratori assunti in somministrazione, frammentazione del ciclo produttivo con il ricorso ad appalti dove l'unico criterio di assunzione è il "massimo ribasso". Sono le ultime frontiere della precarietà di Stato, sotto lo sguardo assente del principale azionista di Poste Italiane: il governo. Un ricatto che si serve dell'ampia schiera di disoccupati e working poor che popolano il nostro paese per rimpiazzare chi prova ad alzare la testa e rivendicare condizioni di lavoro degne.
C'è chi dice che in un'epoca in cui le e-mail hanno sostituito le lettere è strutturale e inevitabile una riduzione del personale di Poste Italiane. Ebbene, chi dice ciò mente sapendo di mentire, sia perché a ridursi non sono le ore lavorate, ma i diritti e i salari di chi lavora.
Quello che accade in Poste Italiane è lo specchio fedele di una dinamica generale del mercato del lavoro italiano. Agli organici ridotti si risponde aumentando l'intensità di lavoro di chi è occupato e riducendo i costi di produzione, con il ricorso parallelo a contratti a termine e all'abuso di straordinari. Una condizione che coinvolge prevalentemente i lavoratori impiegati nel settore della logistica e delle spedizioni, che vivono in prima persona l'intensificazione dei tempi di lavoro e la precarizzazione delle condizioni contrattuali.
Un quadro che andrebbe profondamente modificato, assegnando centralità ad un piano di reclutamento del personale, accompagnato da un'analisi complessiva delle competenze da formare e valorizzare. Avviando quella stabilizzazione dei tanti lavoratori e delle tante lavoratrici che hanno consentito a Poste Italiane di aumentare i propri ricavi e che ora chiedono in cambio il riconoscimento di quanto gli spetta.

martedì 24 ottobre 2017

Pensioni, in Italia disparità finanziaria enorme tra generazioni

In Italia con la riforma del sistema pensionistico si sta creando una disparità finanziaria enorme tra le generazioni. Negli ultimi 50 anni in Italia il rapporto tra persone che lavorano e i pensionati è sceso da sette a due e mezzo: questo fa sì che si verificherà una disparità finanziaria, anche all’interno di uno stesso nucleo familiare.
Lo standard di vita che i pensionati devono aspettarsi è in generale sotto la media mondiale e inoltre non sono così tanti gli anni in cui gli italiani potranno godersi la vita fuori dal mondo lavorativo. Dal 2021 infatti, senza agevolazioni particolari, si andrà in pensione a 67 anni: significa che al massimo ci saranno 22 anni al massimo, un periodo relativamente breve, per godersi l’assegno previdenziale.
Sono alcune delle considerazioni principali contenute nel primo “International Pension Gap Index“, report del Chief Investment Office di UBS Wealth Management in cui vengono esaminati i vantaggi dei sistemi pensionistici obbligatori in dodici paesi, dal Nord America all’Europa, fino all’Asia-Pacifico e dal quale emerge anche che i requisiti di risparmio sono quattro volte più alti in Italia rispetto alla Svizzera.
Lo studio calcola la percentuale dell’attuale reddito netto che un cittadino di cinquant’anni deve risparmiare privatamente per garantirsi un adeguato standard di vita una volta raggiunta la pensione. Dallo studio emerge che in nessuna di queste città il risparmiatore medio può affidarsi esclusivamente al sistema pensionistico obbligatorio per finanziare il proprio costo della vita una volta in pensione. (Il report confronta le città in modo omogeneo utilizzando un case study chiamato “Average Jane”, che evidenzia anche alcune delle sfide che gli investitori femminili devono affrontare in queste città).
La Svizzera occupa la prima posizione del Pension Gap index. Tra le città che UBS ha analizzato infatti, a Zurigo Jane può contare su un sistema pensionistico obbligatorio che, ad oggi, le permette uno standard di vita migliore. I risultati dell’Asia-Pacifico sono contrastanti: l’Australia e Singapore, nonostante occupino la seconda posizione della classifica mondiale, sono abbastanza distanti dalla Svizzera, mentre Giappone, Hong Kong e Taiwan ricoprono le ultime posizioni.
In base a quanto emerso dall’”Average Jane”, i requisiti di risparmio in Francia, Germania, Italia e Regno Unito sono quasi quattro volte più elevati rispetto alla Svizzera. Negli Stati Uniti e in Canada, invece, Jane deve risparmiare più della metà del reddito attuale. Le città utilizzate come case study sono: Londra (Regno Unito), Monaco (Germania), Parigi (Francia), Milano (Italia), Zurigo (Svizzera), New York (USA), Toronto (Canada), Sydney (Australia), Hong Kong, Tokyo (Giappone) e Taipei (Taiwan).
In un report separato, il Mercer Melbourne Global Pension Index giunto alla sua nona edizione, emerge come il sistema delle pensioni italiano sia migliorato leggermente sebbene si dimostri ancora debole dal punto di vista della sostenibilità. Il MMGPI è la più completa indagine globale sui sistemi pensionistici condotta da Mercer e dall’Australian Centre for Financial Studies (ACFS), con il supporto dello stato di Victoria e dal Finnish Centre for Pensions, L’indice, che quest’anno prende in esame 30 Paesi e i relativi sistemi pensionistici, vede la Danimarca confermarsi in testa per il sesto anno consecutivo. Migliora leggermente il piazzamento in classifica dell’Italia

lunedì 23 ottobre 2017

Altro che rifiuti zero, in Italia gli scarti da riciclo arrivano a 2,5 milioni di tonnellate l’anno

L’economia circolare in Italia è oggi un anello con due grandi strozzature: la domanda di prodotti riciclati cresce più lentamente dell’offerta, e al contempo manca anche uno sbocco adeguato per la gestione degli scarti che – come ogni industria manifatturiera – anche le aziende che operano nel mondo del riciclo a loro volta producono. Sono questi i due grandi problemi messi ieri in evidenza da Assorecuperi e Fise Unire – entrambi associazioni delle imprese di settore –, che hanno posto l’accento su difficoltà tanto ingenti quanto invisibili, sommersi da un dibattito che sovente si culla sullo slogan rifiuti zero senza conoscere la realtà industriale cui fa riferimento.
«Qualsiasi attività di trattamento dei rifiuti – spiega dunque dice Andrea Fluttero, presidente di Fise Unire – produce più o meno scarti: ad esempio, per carta, plastica, vetro, legno e organico nel 2014 sono stati complessivamente quantificati scarti dalle attività di riciclo per 2,5 milioni di tonnellate (dati ultimo rapporto “Italia riciclo 2016”), che necessitano di una collocazione, rappresentata generalmente dal recupero energetico, ove tecnicamente possibile, o dalla discarica. Purtroppo sta diventando sempre più difficile la gestione degli scarti da processi di riciclo dei rifiuti provenienti da attività produttive e da alcuni flussi della raccolta differenziata degli urbani, in particolare quelli degli imballaggi in plastica post-consumo. Ciò crea una “strozzatura” per le attività di riciclo e, a ritroso nella filiera, al normale funzionamento delle raccolte; tale ostacolo da congiunturale sta diventando strutturale e rischia di inceppare in modo irreversibile il meccanismo virtuoso dell’economia circolare, a livello sia locale che di sistema».
Per dare un senso ai numeri, i 2,5 milioni di tonnellate di scarti prodotti dal riciclo dei rifiuti in Italia sono superiori a tutti i rifiuti urbani raccolti in un intero anno all’interno di una Regione come la Toscana (dove la produzione di rifiuti urbani è stata pari a 2,31 milioni di tonnellate nel 2016).
E questo contando i “soli” scarti da riciclo. Guardando ai soli rifiuti urbani, ammesso che si riuscisse a portare la raccolta differenziata al 100% (in Italia siamo al 47,5%), prima ancora di arrivare agli scarti da riciclo dovremmo occuparci di poter gestire la frazione estranea e i rifiuti da selezione (tutti classificabili come rifiuti speciali). Senza dimenticare che, allargando adesso la prospettiva, se anche venisse raggiunto il 100% di raccolta differenziata, questa rappresenterebbe circa il 70% dell’intera produzione degli urbani e appena il 14% dell’intera produzione dei rifiuti (urbani+speciali). Un quadro – come si può notare – assai complesso, dove peraltro il legislatore mostra spesso di saper mettere le mani solo maldestramente. Quanto sta accadendo oggi in Lombardia (e non solo) ne è l’ultimo esempio.
«Le aziende lombarde che ritirano e trattano i rifiuti non sanno più dove smaltire il residuale, gli inceneritori e le discariche regionali sono saturi e i prezzi per i conferimenti stanno lievitando. Questo – spiega il presidente di Assorecuperi Tiziano Brembilla – nonostante in Lombardia ci siano ben 13 inceneritori di rifiuti con una notevole capacità di ricezione che potrebbe soddisfare  tutto il fabbisogno regionale e permettere lo smaltimento anche di notevoli quantità di rifiuti extraregionali” “La crisi scaturisce dall’entrata in vigore del Decreto Sblocca Italia,  ed in particolare dell’art. 35, con il quale il Governo ha permesso da un lato di aumentare i quantitativi di rifiuti trattati dagli inceneritori, bypassando le varie restrizioni imposte dalle autorizzazioni rilasciate dalla regione,  dall’altro ha imposto agli stessi di dare priorità ai rifiuti urbani extraregionali rispetto agli speciali locali. Questo obbligo ha creato l’odierna situazione di crisi: gli inceneritori sono saturati dai rifiuti extraregionali mentre il residuale derivante dall’urbano lombardo e i rifiuti speciali delle aziende locali non possono più essere smaltiti». Altro che “Sblocca Italia”, dunque: anche quando gli impianti per la gestione dei rifiuti sono presenti sul territorio, ci pensa la normativa a bloccarli.

venerdì 20 ottobre 2017

Gli Stati Uniti aumentano la pressione su Iran ed Hezbollah, senza risultati

Gli Stati Uniti hanno aumentato le tensioni con l’Iran senza intraprendere alcuna iniziativa concreta per uscire dall’accordo nucleare. Il motivo per cui Trump si limiterà all’abuso verbale continuando a minacciare misure ostili contro Teheran, senza eseguirle, è fondamentalmente evitare una frattura tra Stati Uniti ed UE. L’accordo nucleare non è bilaterale, per cui il ritiro degli Stati Uniti non può teoricamente estinguerlo. Ciononostante, per l’Iran, probabilmente in questo caso l’accordo sarebbe totalmente nullo, con ciò che implica. Così gli Stati Uniti continuano la loro aggressiva campagna verbale contro l’Iran, confondendo gli europei che giustamente non riescono a prevedere quali decisioni questo presidente degli Stati Uniti possa adottare nel medio-lungo termine. Tuttavia, l’obiettivo non è solo l’Iran ma anche il principale alleato e braccio militare in Medio Oriente: Hezbollah libanese. Gli Stati Uniti hanno pubblicato le taglie di due aderenti al Consiglio militare di Hezbollah (la massima autorità militare dell’organizzazione), Haj Fuad Shuqr e Haj Talal Hamiyah, assegnando “12 milioni di dollari a chiunque possa dare informazioni” utili a processarli. La taglia mostra volutamente vecchie foto dei due uomini per evitare di rivelare le fonti d’intelligence che ne hanno fornito di più recenti. Resta la domanda: quale Paese ne trarrebbe vantaggio? L’Iran non è più interessato a ciò che Donald Trump farà dell’accordo nucleare. La leadership iraniana ha creato centinaia di società commerciali durante l’embargo, soprattutto in Oman, Dubai e Abu Dhabi, per contrastare oltre 30 anni di sanzioni ed embargo statunitensi. Inoltre, l’Iran impiega oro e petrolio in cambio di beni e tecnologia da molti anni accettando di acquistare a prezzi più elevati che sul mercato aperto. Oggi l’accordo nucleare ha aperto il mercato iraniano e l’ha collegato a quelli europei. L’Unione europea non è disposta a perderlo in questo momento, soprattutto con la crisi finanziaria che il vecchio continente vive dal 2008, solo perché Trump, presidente degli Stati Uniti (l’unico tra i firmatari) ritiene unilateralmente che “lo spirito dell’accordo nucleare sia stato violato”. Gli Stati Uniti vorrebbero vedere il programma missilistico iraniano finire assieme all’invio di armi ad Hezbollah: questo sarebbe favorito anche da Arabia Saudita e Israele. Tuttavia questi temi sono considerati da tutti i Paesi firmatari (incluso l’Iran ma con l’eccezione degli Stati Uniti) come non correlati ed esclusi dall’accordo nucleare. I funzionari sauditi hanno visitato recentemente Washington, offrendo assistenza finanziaria illimitata affinché gli Stati Uniti distruggano Hezbollah e limitino l’influenza dell’Iran nel Medio Oriente. Infatti, Hezbollah è considerato la rovina del gioco dei Paesi internazionali e regionali che sostennero il cambio di regime in Siria. Pertanto, molti vorrebbero vedere Hezbollah, braccio dell’Iran, eliminato completamente, perché così l’Iran diverrebbe un gigante senza braccia. Inoltre, durante la visita del re saudita a Mosca, la monarchia informò il Presidente Vladimir Putin che tutti i gruppi operanti in Siria, come “Stato islamico” (SIIL), al-Qaida e Hezbollah, sono considerati terroristi e dovrebbero essere eliminati. Putin, nonostante la generosa offerta finanziaria del re ad investire nei prodotti russi, era molto chiaro: qualsiasi Paese o gruppo che combatte in Siria su richiesta del governo legittimo non è un gruppo terroristico. Il “capo di Hezbollah” non era sul tavolo della capitale russa.Per quanto riguarda le ricompense statunitensi, i leader di Hezbollah del primo, secondo e terzo ramo dell’organizzazione si muovono liberamente tra Beirut, Damasco, Teheran e Baghdad, in base alle esigenze della “guerra al terrore” in cui l’organizzazione partecipa contro “Stato islamico” (SIIL) e al-Qaida in Siria e in Iraq. Nessuna autorità, né libanese né statunitense, oserebbe arrestare uno dei leader di Hezbollah senza subire conseguenze dirette, che andrebbero dall’attacco ai loro soldati ad attaccare i loro interessi in Medio Oriente. Il rapimento (o cattura) va trattato in modo simile e respinto senza esitazione. L’ultimo “incidente” si verificò in Iraq quando Washington espresse il desiderio, quando Baghdad chiedeva alle forze statunitensi di uscire dall’Iraq sotto il presidente Barack Obama, di rapire negli USA il comandante di Hezbollah Ali Musa Daqduq. Hezbollah quindi inviò un messaggio chiaro all’amministrazione statunitense, attraverso i leader iracheni, che rapire Daqdouq avrebbe significato che ogni soldato e ufficiale statunitense in Medio Oriente, soprattutto in Iraq, sarebbero stato un ostaggio. Ciò spinse Washington a chiudere un occhio e lasciare gli iracheni decidere sul destino dell’ufficiale di Hezbollah che partecipò all’eliminazione di cinque soldati e ufficiali statunitensi in un’operazione impressionante a Qarbala. Nel gennaio 2007, Daqduq, insieme al gruppo della resistenza di Muqtada al-Sadr, Asaayb Ahl al-Haq, utilizzò le auto blindate di un ministro iracheno che gli stessi Stati Uniti gli avevano donato. Il fatto che Daqduq fosse a bordo facilitò l’ingresso del convoglio nell’edificio governativo senza sollevare i sospetti delle forze statunitensi all’interno. Hezbollah sa che molti soldati e ufficiali statunitensi viaggiano liberamente in Libano, operando principalmente con l’esercito libanese. Pertanto, l’organizzazione si assicura che gli Stati Uniti sappiano della sua capacità di rispondere e di non lasciare suoi uomini prigionieri senza una risposta. Hezbollah ritiene che i propri leader siano sicuri dal rapimento, ma non dai tentativi di assassinio. Così, “le taglie” degli Stati Uniti sui due comandanti di Hezbollah mirano ad accontentare gli alleati mediorientali (Israele e Arabia Saudita) dicendo che “siamo tutti sulla stessa barca contro la presenza e le capacità operative di Hezbollah”. Infatti, dimostra come Washington prenda seriamente misure politiche piuttosto che operative per limitare Hezbollah e Iran nel Medio Oriente. Entrambi considerati nemici degli Stati Uniti e dai loro stretti collaboratori israeliani e sauditi.
Tel Aviv, come Washington, si limita ad adottare una minacciosa retorica, parlando di “guerra imminente” contro Hezbollah, ma senza andare oltre od adottare passi bellicosi oltre al rullo dei tamburi. Nell’improbabile caso di guerra tra Israele e Hezbollah, non c’è dubbio che Israele abbia la capacità militare distruttiva di riportare il Libano all'”età della pietra”, come afferma. Tuttavia, è una situazione che i libanesi hanno già vissuto con la guerra civile nel 1975 e le due (1982 e 2006) guerre israeliane. In queste guerre Israele attaccò e distrusse le infrastrutture libanesi, uccidendo migliaia di civili e centinaia di militanti di Hezbollah. Tuttavia, non c’è dubbio anche che Hezbollah avrebbe inflitto ad Israele lo stesso scenario da “età della pietra”, con decine di migliaia di razzi e missili, anche ad alta precisione. La popolazione israeliana però non è abituata a un tale scenario: i missili di Hezbollah colpirebbero infrastrutture (ponti, centri di concentrazione, mercati, acqua, elettricità, impianti chimici e altro), porti, aeroporti, caserme e istituzioni militari e case civili. È vero che i capi politici e militari israeliani non sono ingenui e non scambiano mai la propria sicurezza col sostegno economico e finanziario (offerto dall’Arabia Saudita per distruggere Hezbollah), non importa quanto sia sostanziale. Israele non scambia un rapporto diplomatico pubblico con l’Arabia Saudita e la maggior parte dei Paesi del Golfo rinunciando alla propria sicurezza e al benessere del proprio popolo. I comandanti israeliani sanno bene dell’esperienza militare unica che Hezbollah ha sviluppato in Siria e Iraq e come utilizzi nuovi bunker sotterranei per i missili a lungo raggio al confine libanese-israeliano. Tuttavia, Israele e Stati Uniti possono effettuare attacchi militari e d’intelligence per colpire i leader di Hezbollah, come fecero in passato col Segretario generale Sayad Abas al-Musaui, con il vice di Sayad Hasan Nasrallah Imad Mughniyah e contro altri della leadership come Husayn al-Laqis, Samir Qantar, Jihad Mughniyah ecc. Il “conto” è ancora aperto tra Hezbollah e Israele. L’organizzazione libanese ha certamente tentato simili attacchi d’intelligence contro Israele. Tuttavia, diversi tentativi sono falliti a causa della cattiva pianificazione e della violazione per mano dell’intelligence statunitense e israeliana della sicurezza di Hezbollah, tramite un ufficiale dell’unità per le operazioni estere. Ma l’equilibrio del terrore tra Hezbollah e Israele rimane: Hezbollah è più a suo agio in Siria oggi e può dedicare più risorse alla lotta contro Israele ed alleati nella regione. Così, la pressione statunitense rimane nei limiti dell’incapacità di chiunque ad attuarla: non c’è Paese o entità che voglia affrontare un rivale come Hezbollah, addestrato nell’arte della guerra e della politica ed attore essenziale nel Medio Oriente e nelle arene internazionali.

giovedì 19 ottobre 2017

Continua la “fuga” degli italiani all’estero: toccata quota 5 milioni

Ritorno al passato per i giovani italiani. Non più stipati nei vecchi bastimenti ma a bordo di aerei e treni, con lo stesso sogno di nonni e bisnonni: una vita dignitosa.
Al 1° gennaio 2017 i nostri connazionali iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) sono quasi 5 milioni, esattamente 4 milioni 973mila 942. L’8,2% della popolazione nazionale, 60,5 milioni. A pagare dazio è soprattutto il Sud. La metà (50,1%) degli iscritti all’Aire proviene dal Meridione. E’ un’istantanea che sa di antico quella della XII edizione del Rapporto Italiani nel Mondo della fondazione Migrantes.
Dal 2006 al 2017, la mobilità italiana è aumentata del 60,1% passando da poco più di 3 milioni a quasi 5 milioni di iscritti all’Aire. Solo nel 2016 sono partiti ben 124.076 italiani, il 15,5% più dell’anno precedente.
A spostarsi sono soprattutto i giovani. Nel 2016, in particolare, si è registrato un boom di nuove leve in uscita dal nostro Paese. Circa 48.600 nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni, il 39% per cento del totale, oltre 9mila in più rispetto al 2015. Aumentano i single, cala il numero dei coniugati. In crescita anche gli italiani nati all’estero: dai circa 1,7 milioni del 2014 sono passati ai quasi 2 milioni del 2017.
Le partenze non sono individuali ma di ”famiglia”, intendendo sia il nucleo familiare più ristretto, ovvero quello che comprende i minori (oltre il 20%, di cui il 12,9% ha meno di 10 anni) sia la famiglia ”allargata”, quella cioè in cui i genitori, ormai oltre la soglia dei 65 anni, diventano ”accompagnatori e sostenitori” del progetto migratorio dei figli (il 5,2% del totale).
A questi si aggiunge il 9,7% di chi ha tra i 50 e i 64 anni, i tanti “disoccupati senza speranza”, rimasti senza lavoro in Italia e con enormi difficoltà di riuscire a trovare alternative occupazionali concrete per continuare a mantenere la propria famiglia. Le donne sono meno numerose in tutte le classi di età ad esclusione di quella degli over 85 anni (358 donne rispetto a 222 uomini).
Tra gli approdi preferiti dagli italiani figurano Gran Bretagna (24.771 iscritti), Germania (19.178), Svizzera (11.759), Francia (11.108), Brasile (6.829) e Stati Uniti (5.939). Le comunità italiane più numerose si trovano in Argentina (804mila), Germania (724mila) e Svizzera (606mila).
La Lombardia, con quasi 23 mila partenze, si conferma la prima regione per emigranti, seguita dal Veneto (11.611), dalla Sicilia (11.501), dal Lazio (11.114) e dal Piemonte (9.022).
Si parte per inseguire una sorte diversa rispetto a quella a cui si è destinati nel territorio di origine. La mobilità è sempre più “unidirezionale”, dall’Italia verso l’estero, con partenze più massicce e ritorni sempre più improbabili.
“La questione, si legge nel Rapporto, non è tanto quella di agire sul numero delle partenze, anche perché nel mondo globale la libertà di movimento, il sentirsi parte di spazi più ampi e di identità arricchite è quanto si sta costruendo da decenni, ma piuttosto di trasformare l’unidirezionalità in circolarità in modo tale da non interrompere un percorso di apprendimento e formazione continuo e crescente, da migliorare le conoscenze e le competenze mettendosi alla prova con esperienze in contesti culturali e professionali diversi tenendosi aggiornati e al passo con il mondo che cambia”.

mercoledì 18 ottobre 2017

Le scuole italiane non sono sicure: solo il 12% è a prova di terremoto


Le scuole italiane sono sicure? A fare il punto della situazione è il dossier Ecosistema scuola, redatto da Legambiente. Secondo l'analisi, oltre il 41% degli edifici scolastici dei comuni capoluogo (pari a 15.055) si trova in zona sismica 1 e 2, cioè a rischio di terremoti fortissimi o forti.
Di questi, il 43% è stato costruito prima del 1976, anno in cui entrò in vigore la normativa antisismica. Inoltre, solo il 12,3% delle scuole presenti in queste aree è stato progettato o adeguato alle tecniche di costruzione antisismica.
In quattro anni, sono stati finanziati 992 progetti tra interventi per adeguamento sismico e nuovi edifici, di cui solo 532, pari al 3,5% del totale, in aree a rischio elevato. Per questo, secondo l'associazione, saranno necessari
  • “altri 113 anni per mettere in sicurezza le scuole nelle aree più fragili del Paese”.
Ad esempio, considerando una città come Messina che sorge in un'area sismica 1, ci sono 115 edifici scolastici di cui ben 96 risalenti a prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica. Eppure, la messa in sicurezza complessiva, ai ritmi attuali, ossia 18 interventi in quattro anni, richiederebbe 150 anni.
Lo stesso tempo necessario a Roma per adeguare dal punto di vista energetico le sue scuole che già nel 2014 avevano bisogno di manutenzione urgente (nel 36% dei casi) e che oggi dall’efficientamento energetico potrebbero beneficiare enormemente sia in termini di benessere che di risparmio economico.
Peccato però che non ci sia tempo da perdere, prima di tutto per garantire la sicurezza e poi per promuovere il risparmio e l'efficienza energetica. Per questo, il dossier ribadisce l'esigenza di un'anagrafe scolastica affidabile, purtroppo oggi incompleta: mancano all’appello ben 6.315 edifici, il 15% del totale e imprecisa (ci sono 14.711 istituti registrati due volte) e riporta una zonizzazione del rischio vecchia.
Secondo l'analisi, le nostre scuole sono di bassa qualità, con carenze significative di vario tipo, dalla messa in sicurezza antisismica all’adeguamento alle normative (circa 1 scuola su 2 non ha il certificato di idoneità statica, di collaudo statico, di agibilità e di prevenzione incendi). Gli enti locali che hanno risposto al questionario sulla base del quale è stata condotta l'indagine hanno sottolineato che occorrono interventi di manutenzione urgenti per il 43,8% del totale nazionale, dato in crescita rispetto allo scorso anno. Dato che aumenta sopratutto al Sud (56%) e nelle Isole (50%).


Dei 9,5 miliardi messi a disposizione dal 2014 per la riqualificazione dell'edilizia scolastica, solo 4 miliardi sono stati finanziati per la realizzazione di 12.271 interventi, di cui però solo la metà è stata portata a termine. Tra l'altro, il maggior numero degli interventi ha riguardato parti non strutturali degli edifici.
Forte ancora il divario fra Nord e Sud. La media di investimento in manutenzione straordinaria annua per singolo edificio, degli ultimi 5 anni, infatti, vede una media nazionale di 20.535 euro, con una forbice che va dai 28.536 euro degli edifici del Nord Italia ai 3.397 del Sud.
L'utilizzo di fonti rinnovabili e l'efficientamento energetico potrebbero aiutare le scuole a recuperare le risorse, eppure solo lo 0,3% degli edifici si trova in classe A e solo il 4,2% nelle prime tre classi energetiche (A, B, C), mentre la metà degli edifici si trova ancora in classe G. Inoltre, solo il 18% delle scuole sfruttano le fonti rinnovabili

martedì 17 ottobre 2017

La pecora nera di Italo Calvino: Esiste un Uomo onesto?

’era un paese dove erano tutti ladri. La notte ogni abitante usciva, coi grimaldelli e la lanterna cieca, e andava a scassinare la casa di un vicino. Rincasava all’alba, carico, e trovata la casa svaligiata.
E così tutti vivevano in concordia e senza danno, poiché l’uno rubava all’altro, e questo a un altro ancora e così via, finché non si rubava a un ultimo che rubava al primo.
Il commercio in quel paese si praticava solo sotto forma d’imbroglio e da parte di chi vendeva e da parte di chi comprava. Il governo era un’associazione a delinquere ai danni dei sudditi, e i sudditi dal canto loro badavano solo a frodare il governo. Così la vita proseguiva senza inciampi, e non c’erano né ricchi né poveri.
Ora, non si sa come, accadde che nel paese di venisse a trovare un uomo onesto. La notte, invece di uscirsene col sacco e la lanterna, stava in casa a fumare e a leggere romanzi. Venivano i ladri, vedevano la luce accesa e non salivano.
Questo fatto durò per un poco: poi bisognò fargli comprendere che se lui voleva vivere senza far niente, non era una buona ragione per non lasciar fare agli altri. Ogni notte che lui passava in casa, era una famiglia che non mangiava l’indomani. Di fronte a queste ragioni l’uomo onesto non poteva opporsi. Prese anche lui a uscire la sera per tornare all’alba, ma a rubare non ci andava.
Onesto era, non c’era nulla da fare. Andava fino al ponte e stava a veder passare l’acqua sotto. Tornava a casa, e la trovava svaligiata.
In meno di una settimana l’uomo onesto si trovò senza un soldo, senza di che mangiare, con la casa vuota. Ma fin qui poco male, perché era colpa sua; il guaio era che da questo suo modo di fare ne nasceva tutto un cambiamento. Perché lui si faceva rubare tutto e intanto non rubava a nessuno; così c’era sempre qualcuno che rincasando all’alba trovava la casa intatta: la casa che avrebbe dovuto svaligiare lui.
Fatto sta che dopo un poco quelli che non venivano derubati si trovarono ad essere più ricchi degli altri e a non voler più rubare. E, d’altronde, quelli che venivano per rubare in casa dell’uomo onesto la trovarono sempre vuota; così diventavano poveri. Intanto, quelli diventati ricchi presero l’abitudine anche loro di andare la notte sul punte, a veder l’acqua che passava sotto. Questo aumentò lo scompiglio, perché ci furono molti altri che diventarono ricchi e molti altri che diventarono poveri.
Ora, i ricchi videro che ad andare la notte sul punte, dopo un po’ sarebbero diventati poveri. E pensarono:  “Paghiamo dei poveri che vadano a rubare per conto nostro”.
Si fecero i contratti, furono stabiliti i salari, le percentuali: naturalmente sempre ladri erano, e cercavano di ingannarsi gli uni con gli altri. Ma, come succede, i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. C’erano dei ricchi così ricchi da non avere più bisogno di rubare per continuare a esser ricchi. Però se smettevano di rubare diventavano poveri perché i poveri li derubavano. Allora pagarono i più poveri dei poveri per difendere la roba loro dagli altri poveri, e così istituirono la polizia, e costruirono le carceri.
In tal modo, già pochi anni dopo l’avvenimento dell’uomo onesto, non si parlava più di rubare o di esser derubati ma solo di ricchi e poveri; eppure erano sempre tutti ladri.
Di onesti c’è stato solo quel tale, ed era morto subito, di fame”. Italo Calvino
Da leggere: Non voglio essere più italiano, Mi Dimetto

Conviene ancora essere onesti?

Oggi visto l’andazzo generale è ancora una buona cosa essere onesti? Per certe persone la dignità, la morale, vuol dire tanto, per altre non vuol dir niente. Per chi tiene alla propria dignità, comportarsi onestamente è la logica conseguenza, agli altri non fregherà nulla. Se poi ci fosse uno Stato che i disonesti li punisse
In un Paese corrotto, secondo il nuovo Report di Transparency international siamo al sessantesimo posto su 176 paesi, terzultima in Europa, la questione morale non ha dignità di esistere. Ma questo è un’altro racconto paradossale.





lunedì 16 ottobre 2017

Legge elettorale, una camicia cucita su misura per il trasformismo di Renzi

Che il potere davvero logori chi non lo ha, come diceva la buonanima di Andreotti? È forse il caso di Renzi. Con un nuovo colpo di mano, il segretario del PD è pronto a reimpadronirsi della politica italiana. La nuova legge elettorale verrà votata dai due rami del Parlamento con la fiducia. Un atto di forza emblematico del modo in cui il nuovo pd renziano arriva al 2018.
Il Rosatellum bis, come è stato ribattezzato è una versione riveduta e corretta del Mattarellum, ma alla maniera di Renzi. Dopo il fallimento del maggio scorso il segretario PD stavolta tenta di accontentare tutti gli alleati, cercando di colpire gli scissionisti di Mdp e il M5S.
Il decreto se approvato dalla Camera introdurrebbe una quota di 231 collegi uninominali, assegnando circa il 30% dei seggi con il maggioritario, soglia di sbarramento al 3% per i partiti che corrono da soli e 10% per le coalizioni.
Una legge che favorisce in primis l’AP di Angelino Alfano, che sarebbe stato fortemente penalizzato dalla precedente proposta di legge, ma anche Silvio Berlusconi, che costringerebbe Salvini a correre insieme a Forza Italia. L’M5S invece viene fortemente penalizzato, ritrovandosi a correre da solo contro le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra.
“È un inciucio di Berlusconi e Renzi contro di noi” aveva già tuonato a settembre il candidato premier del M5S Luigi Di Mai. Gli hanno fatto eco i suoi colleghi di partito, da Toninelli a Di Battista, che ieri e oggi sono usciti dalle aule e hanno manifestato il loro dissenso davanti Montecitorio, chiedendo al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di non firmare un disegno di legge approvato con l’escamotage della fiducia, “un gesto che aveva fatto anche Mussolini” spiega Di Battista.
Ma l’inciucio se così si può chiamare colpisce anche i fuoriusciti dell’Mdp che dovranno decidere se continuare il loro percorso con Sinistra Italiana, rischiando di non sbarrare la soglia del 10% o ritornare nell’alveo del Pd.
La mossa del Governo Gentiloni e quindi del segretario del PD, Matteo Renzi di ricorrere allo strumento della fiducia contro il voto segreto ha scontentato stavolta del tutto anche la sinistra dei fuoriusciti, che a settembre erano tiepidi sulla proposta di un nuovo Rosatellum, ma non dl tutto contrari alla proposta. Il partito di Mdp ha promesso una sua manifestazione contro il voto della legge elettorale nel tardo pomeriggio.
Sul fronte del centrodestra Matteo Salvini si è dichiarato disposto a votare la proposta di legge anche subito, pur non favorendo del tutto la lega, che però sembra ormai essersi convinta a recitare di nuovo il suo ruolo di forza stampella di Berlusconi, o forse di appropriarsi della leadership dell’area politica dei conservatori e populisti. Il Rosatellum bis permetterebbe infatti al segretario leghista di ottenere la leadership dell’intero centrodestra con il prezioso aiuto di Berlusconi, in una situazione finanziaria non del tutto solida in Via Bellerio, dopo la decisione della magistratura di bloccare tutti i conti del Carroccio. Ma è un passo avanti o uno indietro rispetto al lepenismo di qualche tempo fa?
Renzi si sarebbe garantito in questo modo di tenere in mano un ampio mazzo di carte con il quale scegliere le proprie alleanze, qualora le cose andassero male il prossimo anno, quando si terranno le elezioni per la XVIIIª Legislatura. Da un ritorno all’alleanza con l’Mdp e la sinistra al solito amico-nemico Silvio Berlusconi con il quale potrebbe clamorosamente guidare un governo se ci fossero i numeri sufficienti. L’M5S esce naturalmente penalizzato da una legge che ricalca una sorta di “maggioritario all’italiana”. Sebbene soltanto 1/3 dei seggi verrà assegnato con dei collegi uninominali, la reintroduzione delle coalizioni favorisce le ammucchiate, falsando l’assegnazione dei seggi sia sul lato della rappresentanza, con partiti piccoli che vengono sovrarappresentati per le loro scelte di lista a discapito di altri che non parteciperanno alle ammucchiate, sia sul lato della qualità: un partito che prende tanti voti da solo non può essere penalizzato dalle coalizioni.
Siamo quindi nuovamente di fronte a un grande pastrocchio all’italiana, una legge elettorale che non risolve i problemi di pluralità della proposta politica nel nostro paese, e che si appresta, se fosse approvata, a mantenere un sistema non chiaro nell’assegnazione dei seggi.
Purtroppo la malattia del maggioritario, peggio ancora quello “all’italiana” che avrebbe dovuto trasformare in meglio l’Italia della corruzione e dell’immobilismo secondo alcuni, è dura a morire, nonostante non abbia garantito né stabilità politica né il miglioramento delle condizioni economiche e sociali del nostro paese.
Il nuovo Rosatellum è dunque un nuovo pastrocchio elettorale pari ai precedenti, da Mattarella a Calderoli, un atto stucchevole di trasformismo del segretario PD degno di Giovanni Giolitti. Ciò che è chiaro ormai che a meno di risultati clamorosi, in un modo o nell’altro Renzi si ritroverà a vincere tornando in sella alla guida del paese, dopo aver tessuto la sua tela.
Come è chiaro anche ormai da un pezzo che tutto ciò che importa veramente alla classe politica non è quella di scrivere la legge più adatta al paese, ma quella più adatta alla conservazione del potere e delle poltrone.

venerdì 13 ottobre 2017

Allarme pensioni anticipate: un flop, valanga di domande respinte

Un nutrito numero di italiani desiderosi di smettere di lavorare prima del tempo si è vista respingere le domande per la pensione anticipata. È l’allarme lanciato dai sindacati. In un dossier dell’Inca, il patronato della Cgil si dice che a causa di una “interpretazione eccessivamente restrittiva delle norme”, molte richieste di accesso all’Ape sociale arrivate entro luglio.
Ancora il sindacato dice di non avere a disposizione i numeri esatti del fenomeno preoccupante, ma che a giudicare dalla segnalazioni ricevute saranno “tutt’altro che irrisori”. “Ancora una volta – denuncia la Cgil – l’Istituto previdenziale pubblico si rende protagonista di interpretazioni eccessivamente restrittive delle norme, tali da ridurre in modo consistente il numero dei beneficiari dell’indennità Ape sociale a 63 anni di età, anche se sono nelle condizioni di particolare fragilità occupazionale”.
Si può dunque parlare di “un flop ampiamente prevedibile a causa delle eccessive rigidità imposte da Inps, in contrasto con le intenzioni del legislatore e in alcuni casi addirittura contro legge, che rischia di vanificare del tutto le pur magre aspettative di reinserire qualche elemento di flessibilità nel sistema previdenziale italiano, più volte richiesto unitariamente da Cgil, Cisl e Uil”.
“Con motivazioni diverse, in contrasto con le disposizioni della norma e del decreto applicativo relativo all’Ape sociale, il rigetto delle richieste da parte di Inps è tutt’altro che circoscritto a casi isolati“.
L’appuntamento con il responso ufficiale dell’Inps sulle oltre 60mila domande di Ape social già presentate si avvicina (è previsto per il 15 ottobre) ma, avvertono i sindacati, “considerando il numero di quelle respinte, l’appuntamento rischia di svelare amare sorprese per chi ne ha fatto richiesta”.
Nel frattempo è arrivato l’ok al cumulo gratuito dei contributi previdenziali, ma dal Comitato Opzione Donna Social chiedono anche l’apertura dell’opzione donna, ovvero l’estensione della norma alle lavoratrici che attraverso questo istituto potrebbero maturare il diritto al pensionamento.
Giorni fa Tito Boeri, presidente dell’Inps, aveva annunciato il via libera del cumulo gratuito dei contributi pensionistici, ma l’effettiva entrata in vigore delle misure dopo mesi di attese è arrivata solo in queste ore, nella forma di una circolare dell’Istituto nazionale di previdenza che detta le regole per chi vuole andare i pensione cumulando i contributi versati a diverse casse, il tutto gratuitamente.
I beneficiari principali sono le categorie di commercianti, avvocati, medici, professionisti ma anche coloro che hanno avuto carriere discontinue e hanno maturato il diritto alla pensione. Prima, salvo pagamento per ricongiungere, i richiedenti si vedevano negata la reciprocità e il cumulo dei contributi versati in casse previdenziali differenti.

giovedì 12 ottobre 2017

Il risentimento dell’Europa dell’Est contro la Germania significa guai per Berlino e Bruxelles

Nell’Europa centrale e orientale la convergenza salariale con l’Occidente è in stallo – e chi è sotto accusa è la Germania.

I tedeschi sono ormai abituati al fatto che molti, nell’Europa del Sud e dell’Ovest, non sono stati sempre felici della politica economica tedesca (un esempio smagliante dell’attualità dell’antica figura retorica dell’eufemismo, NdVdE), in particolare dell’insistenza sulla linea dell’austerità durante la crisi dell’euro (che l’ha aggravata e perpetuata, NdVdE). Quello che invece è in gran parte sfuggito ai radar è il fatto che il malcontento nei confronti del predominio economico della Germania sta crescendo anche al di fuori dell’area euro e in particolare negli Stati membri dell’Europa centrale e orientale.

L’ho notato di recente durante un convegno di centro-sinistra tenuto in occasione dell’avvicinarsi delle elezioni ceche (previste per il 20/21 ottobre). Ciò che è stato subito evidente dagli interventi dei partecipanti è che c’è una profonda preoccupazione riguardo al fatto che i salari cechi non stanno più mostrando segni di volersi allineare a quelli tedeschi. Mentre negli anni ’90 e nei primi anni 2000 si è registrata una costante convergenza, dal 2007 non si sono più registrati progressi.

Compenso nominale per occupato in Repubblica Ceca espresso in percentuale rispetto al compenso in Germania


La colpa dell’interruzione della convergenza è attribuita agli investitori stranieri, con una narrazione che dice che “Germania, Francia e Stati Uniti hanno investito nella Repubblica Ceca e ora stanno drenando i profitti mentre i Cechi rimangono poveri” (Narrazione davvero strabiliante: chi l’avrebbe mai detto? A quanto pare non tutti concordano con i cantori liberisti dell'”attirare gli investimenti stranieri”, sempre intenti a convincerci che gli investitori stranieri vengono a lastricarci le strade d’oro, NdVdE).

La fonte del malcontento è legata al fatto che ormai praticamente tutto il settore finanziario e la metà del settore manifatturiero sono di proprietà straniera. Le multinazionali fissano i prezzi per i semilavorati che escono dalle fabbriche ceche e, imponendo prezzi bassi, schiacciano i salari in Repubblica ceca, aumentando così i loro margini di profitto.

Una storia che sembra essere ripetuta all’infinito è che i lavoratori impiegati alle catene di montaggio nelle fabbriche della Volkswagen in Repubblica Ceca guadagnano solo un terzo del salario dei lavoratori VW in Germania, anche se le linee di montaggio lavorano alle stessa velocità di quelle di Wolfsburg. Quindi, benché la produttività fisica dei lavoratori cechi sia presumibilmente uguale a quella che c’è in Germania, i salari sono significativamente inferiori. Il valore aggiunto così ricavato può essere distribuito ai lavoratori tedeschi e agli azionisti Volkswagen – con il presunto tacito appoggio del governo tedesco (se non fosse così, d’altra parte, perché la Volkswagen avrebbe trasferito gli stabilimenti in Repubblica Ceca? NdVdE).

Questo cambiamento nella percezione del ruolo delle imprese tedesche colpisce in modo particolare, dato che molti paesi dell’Europa centrale e orientale hanno a lungo visto la Germania come loro principale alleato nel loro sforzo di far convergere i redditi con l’Occidente. La Repubblica Ceca, in particolare, ha appoggiato a lungo una politica esplicita di attirare gli investitori stranieri nel paese, per accelerare l’integrazione con i mercati globali (e dell’UE) (e poi vatti a fidare dei mercati, NdVdE).

Questa sensazione (solo una sensazione? NdVdE) di essere cittadini europei di seconda classe quando si tratta di salari ha conseguenze in altri campi della politica. Uno dei partecipanti è arrivato ad affermare che la resistenza dei Cechi contro l’accettazione dei rifugiati deriva dalla sensazione che la Germania si sta comportando come un “potere imperiale” e che i Cechi avrebbero accettato i rifugiati, se la Germania avesse facilitato una corretta convergenza salariale.

Questo potrebbe essere un’esagerazione, ma dimostra un sorprendente (davvero sorprendente? NdVdE) livello di scontento nei confronti  dei risultati economici dell’adesione all’UE. E suggerisce che Berlino e Bruxelles abbiano trascurato la questione degli standard di vita nell’Europa centrale e orientale, forse in parte a causa della loro comprensibile preoccupazione per la crisi dell’euro nel cuore dell’Unione (peraltro aggravata e perpetuata, se non propriamente scatenata, da Berlino e Bruxelles, quindi l’auspicio che ora dedichino in maggior misura le loro tenere cure all’Europa orientale ci pare leggermente imprudente, NdVdE).

Rigenerare questo equilibrio ora sembra necessario se l’Unione europea vuole arginare la crescita del populismo in questi Stati che hanno aderito all’Unione più di recente e fare sì che restino impegnati nel progetto

mercoledì 11 ottobre 2017

Gli investitori esteri si riversano in Russia

La crescente fiducia degli investitori nella Russia mentre l’inflazione storicamente elevata continua a diminuire, e l’economia supera la recessione, ha ricevuto una forte conferma con la notizia che per la prima volta la Russia ha superato l’India come opzione d’investimento preferito dagli investitori sui mercati emergenti. Questa conferma proviene dalla fonte più autorevole possibile, un articolo del Financial Times, negli ultimi anni fortemente critico verso la Russia. “La Russia ha superato l’India come prima posizione per i fondi azionari sui mercati emergenti. Nonostante l’imposizione di sanzioni sempre più severe a Mosca, i prezzi del petrolio ancora bassi e un’economia che ora esce da una grave recessione, ancora assalita da tassi d’interesse reali adattati all’inflazione del 5,2 per cento. Al contrario, l’India era da tempo preferita dagli investitori esteri che si leccavano i baffi alla prospettiva del Paese più popoloso del mondo che cresceva a un alto tasso, grazie allo zelo riformista del Primo ministro Narendra Modi. “La Russia è ora la maggiore opzione per i gestori dei mercati emergenti, per la prima volta dai record avutisi all’inizio del 2011, superando la lungamente preferita India”, dichiarava Steven Holden, fondatore della Copley Fund Research, che ha compilato i dati e confessato “sorpresa” per la nuova popolarità della Russia. Il fondo di investimenti ormai attribuisce alla Russia 1,46 punti percentuali, superando gli 1,4 punti percentuali dell’India, dove i gestori dei fondi avevano una esposizione media del 4,4 per cento all’inizio del 2015, secondo Copley, come mostrato nel primo grafico. I dati si basano sulle partecipazioni di 126 fondi con attività combinate per 300 miliardi di dollari. Di questi fondi, il 72,8 per cento oramai punta alla Russia, contro solo il 60 per cento per l’India…” L’articolo osserva correttamente che gli interessi degli investitori esteri in Russia partono da una base molto bassa e che la Russia ha superato l’India per via della recente perdita di attrattiva, mentre aumenta quella della Russia. Tuttavia, l’articolo chiarisce che l’aumento dell’interesse degli investitori per la Russia è determinata dai suoi fondamentali sempre più forti. “Il signor Jain, tea gli investitori dal grande fervore per la Russia, di cui è sorpreso essendo un “ultra ribassista da 15 anni”, è CIO della Vontobel Asset Management svizzera, che gestisce 32 miliardi di dollari. Ancora oggi il suo fondo GQG Partners Emerging Markets Equity ha un’esposizione del 10,2 per cento in Russia, più di tre volte l’indice. “Ero pubblicamente critico nell’investire in Russia. L’ho seguita per 25 anni e questo è il massimo che ho avuto”, ha detto. Nicholas Field, stratega EM di Schroders e co-direttore del fondo del gruppo Global Emerging Market Opportunities, è un altro convertito, con l’aumento dell’attribuzione del 14,2 per cento. “Molti dei titoli che si leggono sulla Russia riguardano geopolitica e relazioni con gli Stati Uniti e così via, ma quando si guarda all’economia si vedono alcune cose interessanti per gli investitori”, ha detto. La tesi di Jain è che le sanzioni imposte alla Russia da Stati Uniti e UE e la scivolata nei prezzi del petrolio, sono state utili agli investitori esteri perché hanno costretto le compagnie russe a ridurre i costi. L’India è molto costosa. È divenuta da molto economica a uno dei mercati più costosi. In particolare, le compagnie petrolifere russe furono costrette a sviluppare in proprio complesse tecnologie di trivellazione, aiutandosi a lungo termine, mentre alcune aziende agricole nazionali, come i caseifici, hanno beneficiato della riduzione della concorrenza estera con le contro-sanzioni russe alle importazioni alimentari europee. “Le sanzioni sono state positive per le aziende russe, costrette ad agire insieme, con un massiccio sforzo nel tagliare i costi”, secondo Jain. “A causa di questa riduzione dei costi, i profitti operativi sono superiori alle stime. Gli utili aziendali cominciano a recuperare dopo un lungo crollo. Vanno seguiti i profitti aziendali”. Vede anche positivi i travagli di Otkritie e B&N Bank, due banche private espunte dalla banca centrale e nazionalizzate nelle ultime settimane, dopo aver subito difficoltà finanziarie. Circa il 4,2 per cento del fondo Jain è investito nella Sberbank, la più grande banca della Russia. Ha detto: “L’industria bancaria ha visto un massiccio consolidamento. Ora tre banche controllano il 70% degli attivi”. Sberbank è assai ben gestita, con profitti per sei volte. Quante banche fanno il 20% del ROE (ritorno sul patrimonio) in piena recessione? La posizione che hanno avuto non sarebbe consentita in molti Paesi, e ora c’è una straordinaria crescita del credito e i NPL (prestiti non performanti) escono”. Nel complesso, vede spazio per l’ulteriore crescita del reddito, l’espansione dei margini e la riqualificazione del mercato, dato che Mosca attualmente ha un rapporto prezzo/profitto di solo 7,8 e un rendimento dei dividendi del 4,7 per cento”.
. La crescente forza del sistema finanziario e bancario russo, storicamente tallone d’Achille dell’economia post-sovietica della Russia, è stata discussa molte volte  Ciò che accade è che la comunità internazionale degli investimenti, e il Financial Times, finalmente comprende la verità. Dato l’enorme “rumore” negativo di cui soffre la Russia e la lunga ostilità del Financial Times, l’articolo sugli investitori internazionali che vanno in Russia non sorprende che alla fine sia piccato. “Il crescente interesse per la Russia non è dovuto presumibilmente alle prospettive economiche a lungo termine buone, ma alla ripresa della Russia dalla recessione. L’ottimismo del signor Field è alimentato dalla ripresa economica del Paese, che prevede di proseguire almeno fino alla metà del 2018. “La domanda è depressa, per cui il recupero dovrebbe continuare per un po’. L’inflazione è scesa al 3,3 per cento, abbastanza inaudita per la Russia. Nei prossimi 12-24 mesi c’è spazio per riduzioni dei tassi di interesse certamente stimolando l’economia. L’unica cosa che può sconvolgere è un’altra mossa importante sul prezzo del petrolio”, secondo Field. Tuttavia, non durerà a lungo. “Non pensiamo che la crescita strutturale sia a lungo termine molto elevata, così molti acquistano in Russia ora non perché ha 10 o 20 anni gloriosi davanti, ma perché recupera“. Sentiremo numerosi commenti nei prossimi mesi, poiché la crescita economica rinnovata della Russia è impossibile negarla anche da chi in precedenza disse non ci sarebbe mai stata. Tali commenti sono in realtà inutili. In che senso il recupero dell’economia dalla recessione sarebbe un motivo per dubitarne della futura crescita? Mettendo ciò da parte, l’articolo fornisce esempi abbondanti sui “motivi strutturali” per cui è probabile una forte crescita in futuro. Riprendendo le osservazioni nell’articolo di Rajiv Jain, “…Le compagnie petrolifere russe sono state costrette a sviluppare in proprio complesse tecnologie per la perforazione, aiutandole a lungo termine, mentre alcune aziende agricole nazionali, come i caseifici, hanno beneficiato della riduzione della concorrenza straniera con le contro-sanzioni russe ai prodotti alimentari europei importati. Le sanzioni sono state positive per le aziende russe, costrette ad agire insieme, con un massiccio sforzo per ridurre i costi”, secondo Jain. “A causa di questa riduzione dei costi, i profitti operativi sono superiori alle stime. Gli utili aziendali cominciano a recuperare dopo un lungo crollo. Vanno seguiti i profitti aziendali”. Vede anche positivi i travagli di Otkritie e B&N Bank, due banche private espunte dalla banca centrale e nazionalizzate nelle ultime settimane dopo aver subito difficoltà finanziarie. Circa il 4,2 per cento del fondo Jain è investito nella Sberbank, la più grande banca della Russia. Ha detto: “L’industria bancaria ha visto un massiccio consolidamento. Ora tre banche controllano il 70% degli attivi. “Sberbank è molto ben gestita, con profitti per sei volte. Quante banche fanno il 20% di ROE (ritorno sul patrimonio) in piena recessione? La posizione che hanno avuto non sarebbe consentita in molti Paesi, e ora c’è una straordinaria crescita del credito e i NPL (prestiti non performanti) escono”.”
Cosa significa riduzione dei costi, maggiore efficienza, sviluppo di nuovi prodotti e nuove tecnologie, elevati profitti operativi e (nel sistema bancario) consolidamento dell’industria se non la prova che l’economia affronta con successo i propri problemi strutturali, garantendosi così la crescita a lungo termine in futuro? Non c’è dubbio che c’è ancora molto da fare, ma perché continuare a fingere che nulla accade quando è tutto chiaro? Una delle discussioni perenni sui problemi dell’economia della Russia è che i suoi critici occidentali insistono ad averli in entrambi i sensi. Sono costretti a concedere che l’economia russa si adatta con successo alle dure condizioni economiche post-2014 in cui si trovava (bassi prezzi petroliferi e sanzioni occidentali) e ora recupera da una recessione che la maggior parte di loro pensava dirompente, ma allo stesso tempo si rifiutano di ammettere questo successo dell’economia russa, nelle stesse condizioni economiche, danneggiando profondamente le loro critiche, spesso anche apocalittiche. In realtà, l’economia che si adatta così rapidamente e con successo alle sfide che affrontava nel 2014 non può essere inefficiente, corrotta, mal gestita, ‘cleptocratica’ e sottovalutata come il ‘Zaire innevato’ immaginato dai critici occidentali. L’articolo del Financial Times dimostra che sempre più gestori di fondi, tra cui Rajiv Jain e Nicholas Field che avevano già acquistato in un quadro cupo, cominciano a vedere la verità.

martedì 10 ottobre 2017

TASSA SACCHETTI BIODEGRADABILI

In fondo, ce lo dovevamo aspettare. Il biologico tira, gli italiani stanno imparando a usare meno plastica, la sostenibilità è entrata nelle nostre teste e nelle nostre case: e allora, zac, i cervelloni del governo, con la consulenza dei noti burocrati mandarini ministeriali, si sono inventati la tassa sul bio. Ovvero: la tassa sui sacchetti biodegradabili che saranno definitivamente obbligatori, in versione leggera e ultraleggera, dal 1° gennaio 2018. Dieci centesimi a sacchetto. Uno spreco sfacciato, e una mini-stangata ai soliti consumatori con le mani in alto in segno di resa. Un conto niente male, se pensate che tra l’altro noi consumiamo qualcosa come 198 sacchetti per la spesa a testa all’anno. Spesso di pura plastica, vietata per gli shopper già dal 2011.
TASSA SACCHETTI FRUTTA E VERDURA La follia di questa tassa, che entra di diritto nel nostro Guinness delle tasse assurde, ha il significato di una doppia beffa, tanto perché quando si tratta di tosare gli italiani non bisogna farsi mancare nulla. La legge prevede che dal 2018 la materia prima di questi shopper, in genere utilizzati per frutta, verdura e generi alimentari, dovrà essere per almeno il 40 per cento, classificata come «rinnovabile». Quindi, un provvedimento giusto lungo la strada dei nuovi stili di vita, della riduzione della plastica e dei suoi consumi. Sbagliatissimo nel momento in cui il cambiamento si abbina a una mini-tassa. Un dazio che certamente scoraggerà i consumatori più sensibili ai temi ambientali. E consentirà il consolidamento di un doppio circuito di distribuzione degli shopper. Da un lato i supermercati e i grandi negozi che proveranno a fare cassa con i nuovi sacchetti, mentre i dettaglianti, i mercatini e gli altri piccoli punti vendita, magari continueranno a usare i vecchi sacchetti di plastica, per non aumentare il conto della spesa dei loro clienti.
Seconda stangata: con la tassa che ne appesantisce il costo, anche gli esercenti saranno in qualche modo incentivati ad aumentare la quota di sacchetti falsi, già oggi molto alta: in alcune regioni siamo attorno al 60 per cento.

TASSA SACCHETTI PER LA SPESA

Infine, udite udite, il governo pensa di utilizzare i soldi raccolti con questa mini- tassa (che poi, sommando i vari acquisti e i tanti consumatori, proprio mini non è) per finanziare le regioni meridionali. Idea geniale, per aumentare il rancore del Nord verso il Sud e per dividere ancora l’Italia.

lunedì 9 ottobre 2017

Comprate terra, perché non la fabbricano più

Comprate terra, perché non la fabbricano più”.
La citazione di Mark Twain è una delle preferite di Warren Buffett, l’investitore più straordinario della storia recente (e non solo) della finanza mondiale. Uno che nella sua lunga carriera è riuscito ad accumulare una fortuna di 75 miliardi di dollari.
E ci è riuscito seguendo una sola regola: badare al sodo, pensare al lungo periodo, non farsi irretire da (presunti) facili guadagni.

Coltivare e immagazzinare cibo potrà rivelarsi una miniera d’oro

Non stupisce dunque che oggi Buffett consigli di investire nella terra. Non si tratta di un nostalgico ritorno al passato. Al contrario, è una lucida analisi di quel che ci attende nel futuro.
La terra, o meglio il cibo, è un bene che inizia a scarseggiare. E c’è chi giura che tra un po’ varrà più dell’oro. I prezzi alimentari sono saliti alle stelle in tutto il mondo e, secondo alcuni analisti, tra un paio d’anni il prezzo del cibo raddoppierà.
Altre risorse: Ecco i prodotti agricoli più coltivati al mondo

La corsa alla terra è già cominciata

Con la crisi del sistema economico e finanziario che ancora oggi imperversa nel nostro mondo, comprare un pezzo di terra è diventata una strategia di investimento a tutti gli effetti.
Basti pensare che solo tra il 2008 e il 2009 sono stati venduti 45 milioni di ettari arabili nel mondo, una superficie pari a una volta e mezzo quella dell’Italia. Prima del 2008, invece, venivano convertiti a coltivazione meno di 4mila ettari all’anno.
E la terra, altro dato estremamente significativo, è finita nel portafoglio di molti grandi investitori finanziari a livello mondiale.
In particolare spicca l’attivismo di George Soros, 87 anni come Buffett e un patrimonio di 14,5 miliardi di dollari, che ha deciso di liberarsi di tutto l’oro che aveva ed investire nella terra e con i 53 milioni di dollari ricavati ha portato al 23,4% la sua quota in Adecoagro, una società che possiede grandi terreni in Sud America ed è leader nella produzione di cibo ed energia rinnovabile.
In regioni come il Sud America e, soprattutto, l’Africa, la corsa a comprare terra ha un carattere meramente industriale e aspetti controversi: da un lato potrebbe essere una risorsa per paesi poveri, perché le compagnie che investono nella terra garantiscono sviluppo tecnologico e infrastrutturale; dall’altro c’è chi pavimenta il rischio di sfruttamento  delle popolazioni locali.
In Italia, dove comunque vi sono grandi gruppi, da Allianz a Generali, a Intesa Sanpaolo, che investono, con ottimi profitti nel settore, gli imprenditori che decidono di diversificare non lo fanno solo con l’ottica del profitto. A guidare Lorenzo Pelliccioli, l’amministratore delegato di DeAgostini che ha acquistato 600 ettari di campagna provenzale a Saint-Rémy, o la famiglia Ferragamo, proprietaria della Tenuta del Borro in Valdarino, e altri imprenditori/manager è prima di tutto la passione.

“Vigneto Italia”, 50 anni di rivalutazione

Anche in Italia il valore dei terreni agricoli è salito considerevolmente negli ultimi anni.
Nell’ultimo mezzo secolo, l’incremento di valore di un ettaro di vigneto a Brunello è del 2.474%, quello dell’Amarone del 1.357%, del Barbaresco del 257%, del Barolo del 206% e quello del Chianti Classico del 129%.

Dal 2000 al 2014, per esempio, i vigneti si sono rivalutati del 145%. E in generale, i terreni del Nordest sono cresciuti del 97%, quelli del Nordovest del 90%. Ben al di sopra del tasso d’inflazione nello stesso periodo.
E siccome il vigneto oltre a rivalutarsi ha sperabilmente prodotto del vino (uno dei 10 prodotti italiani più richiesti al mondo) su cui è stato generato un utile, l’investimento nella terra in aree di produzione di vini di qualità ha avuto un ritorno più che positivo.
Altre risorse: Il “respiro” della terra
La terra, l’oro di domani
Più di 4 italiani su 10 (43%) fanno la spesa dal contadino nei cosiddetti mercati degli agricoltori con un aumento record del 55% negli ultimi 5 anni.
Investire nella terra è, quindi, un buon metodo che potrà far risparmiare denaro e soprattutto salute magiando prodotti naturali e genuini. La passione per la natura, la terra, il vino. Un elogio al contadino.
Se poi davvero, tra qualche anno, il cibo varrà più dell’oro, allora comprare la terra e avere a disposizione un orto per il consumo familiare si sarà rivelato anche il migliore degli investimenti.

venerdì 6 ottobre 2017

La Mafia e lo sbarco in Sicilia

Il fatto è abbastanza noto: oltre 74 anni fa, il 9 luglio 1943, gli Alleati sbarcarono in Sicilia, dopo essere giunti, qualche giorno prima, a Salerno.
L’arrivo nell’isola più grande del Mediterraneo, oltre a rovesciare, a favore delle forze che combattevano l’Asse, le sorti del secondo conflitto mondiale, rappresenta un avvenimento che ha sempre affascinato gli storici, gli studiosi, gli appassionati delle vicende contemporanee. Grazie ai quali, oltre ai numerosissimi documenti ufficiali italiani, americani e britannici, sappiamo che dietro quella operazione militare ci sono tanti attori.
La mafia locale. La mafia americana. Lucky Luciano. Vito Genovese. Calogero Vizzini. Giuseppe Genco Russo. Vincenzo Di Carlo. E tanti altri nomi di potenti mammasantissima. E il Movimento indipendentista siciliano (Mis), perché la Sicilia, in quegli anni e in quelli immediatamente successivi al dopoguerra, è un laboratorio storico-politico. La scelta dell’isola, infatti, non è casuale: sia per evidenti ragioni geografiche (per evitare l’accerchiamento da parte del nemico), sia perché si poteva costituire una testa di ponte in Sicilia proprio sfruttando la mafia.
Per capire, però, cosa c’è dietro quello sbarco, è necessario mettere i tasselli al loro posto. E andare indietro di circa 20 anni, tirando in ballo un altro personaggio: Cesare Mori.
Già, perché nel 1924, l’allora prefetto di Trapani stava cercando di sradicare la mafia dalla Sicilia, attuando una durissima repressione e ricorrendo, spesso, a metodi brutali: furono incardinati 10mila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a emigrare negli States. E, come scrive Giuseppe Carlo Marino in “Storia della mafia”, attraverso il “bastone e la carota”, ridusse ciò che restava della mafia-delinquenza a una condizione “dormiente” e inattiva, ma fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole.
Ecco allora che proprio loro, i baroni, nel 1940, istituirono l’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano il quale, nel 1942, diventò un vero e proprio Comitato d’azione separatista, capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino. Il nome? Movimento per l’indipendenza della Sicilia, Mis.
Nel frattempo, come scrive Massimo Lucioli in “Mafia & Allies”, negli Stati Uniti era già in corso un legame tra US Navy e la mafia italoamericana in quanto, fin dallo scoppio della guerra, nel 1939, gli Usa, per quanto ancora formalmente neutrali, cominciarono a rifornire gratuitamente tutti i nemici dell’Asse. Il porto di New York assumeva, quindi, importanza strategica, e perciò si temevano sabotaggi da parte di spie tedesche e italiane.
E proprio per questo motivo, allora, che uno dei massimi responsabili dell’intelligence Usa (non esisteva ancora la Cia) decise di prendere i primi contatti con il gangster Lucky Luciano, il quale, nonostante stesse scontando in carcere una condanna a 50 anni per sfruttamento della prostituzione, continuava a controllare le attività illecite del porto della Grande Mela. E lui si rivelò subito prezioso. Da un lato iniziò a fornire una valanga di informazioni ai Servizi segreti statunitensi (l’OSS, l’intelligence di guerra), dall’altro lato segnalò i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco (operazione Husky).
Il principale referente sull’isola fu don Calogero Vizzini, che aderì al progetto, unendo insieme le forze dei latifondisti affiliati al Mis – e dei mafiosi – a quelle dei servizi segreti americani. E la testa di ponte tra Vizzini e Luciano era un certo Vito Genovese, dall’America ritornato in Italia prima dello scoppio del conflitto.
Il “progetto Sicilia” vero e proprio fu messo a punto nel luglio 1942, e prevedeva la penetrazione nell’isola di agenti informatori italo-americani per prender contatto con settori disponibili della popolazione e fomentare atti rivoltosi in vista dello sbarco. Fu attuato esattamente un anno dopo e, una volta sbarcati, gli Alleati affidarono molte cariche nel governo provvisorio della Sicilia. E non a gente per caso: Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo divenne primo cittadino di Musumeli, Vincenzo Di Carlo fu scelto come responsabile dell’Ufficio per la requisizione del grano. Ciò diede nuova e sicura autorità ai mafiosi, oltre a concrete possibilità di arricchimento e di accrescimento del loro potere.
E il Mis? Non scompare, anzi si rafforza. Dal 1943 al 1947, infatti, accadde che ebbe un sviluppo molto ampio, sia per il seguito popolare, sia perché “i responsabili del governo militare di occupazione affidarono il 90 per cento delle amministrazioni a politici separatisti”, come ha denunciato la prima relazione della Commissione parlamentare antimafia del 1972.
La crescita del movimento non si limitò, tuttavia, al piano legale ed elettorale, perché costituì persino un suo esercito, l’Esercito volontario di indipendenza siciliana (Evis), nel quale militarono banditi e mafiosi di grosso calibro. Capo indiscusso fu Salvatore Giuliano, il boss di Montelepre, e fu proprio questi a provocare la fine dell’esperienza separatista, con la strage di Portella della Ginestra, il 1 maggio 1947.