Errare è umano, perseverare è diabolico. Citando il vecchio adagio,
c’è un punto su cui il premier Matteo Renzi si è incaponito a torto: la
riforma del Senato. La riforma, che parte dai lavori del sottosegretario
alla presidenza Graziano Delrio e della ministra Maria Elena Boschi, fa
acqua da tutte le parti. Il già bravo sindaco di Reggio Emilia e medico
(come direbbe Di Pietro: “che c’azzecca un dottore con le riforme?”) e
la giovane ministra hanno fatto un pastrocchio. Renzi vuol tirar dritto
su un Senato non elettivo, con molti membri nominati dal Capo dello
Stato e con tutto il baraccone dei commessi e segretari in funzione.
Circa un paio di volte al mese 74 esponenti delle regioni, 21 sindaci scelti non si sa con che criterio e 5 paracadutati dal Quirinale si troveranno a Palazzo Madama per discutere in stile CNEL (l’organismo che Renzi ha appena chiuso in quanto dispendioso e poco utile) di leggi costituzionali, referendum popolari, leggi elettorali degli enti locali, diritto di famiglia, matrimonio e salute e ratifiche dei trattati internazionali. Tra le varie pecche, i cittadini dei grossi centri saranno rappresentati in Senato maggiormente rispetto a quelli che vivono nei piccoli comuni: i sindaci in Senato verranno con maggiore probabilità dai capoluoghi e dalle città più popolose. Insomma, la città discriminerà la campagna.
Nemmeno le funzioni di questo nuovo Senato sono chiare. Un notabile storico della sinistra e parlamentare di lungo corso come Vannino Chiti ha fatto una proposta senz’altro migliore rispetto a quella renziana. Il testo di Chiti, già firmato da diversi senatori del PD tra cui l’ex magistrato Felice Casson, prevede il dimezzamento del numero dei parlamentari di Montecitorio; l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia e della legge di bilancio; l’attribuzione anche al Senato dell’esame e del voto delle leggi costituzionali, elettorali, dei trattati europei e dei provvedimenti che investano diritti fondamentali della persona. «La Camera sarà composta da 315 deputati, la metà degli attuali 630; il Senato da 100 eletti nelle Regioni (contestualmente al voto per i Consigli regionali) più 6 in rappresentanza degli italiani all’estero. Meno della metà degli attuali 315. Voglio sottolineare come tale proposta preveda una riduzione dei costi della politica ben superiore a quella prevista dal disegno del governo» dice Chiti.
Insomma, alle politiche si voterebbe per la Camera che darà, lei sola, la fiducia all’esecutivo e alle elezioni regionali si daranno le preferenze anche per i senatori, senza ulteriori tornate alle urne. La proposta Chiti non sarà la migliore del mondo ma sicuramente è la meno peggio di tutte quelle che si sono sentite in questi mesi. Le riforme costituzionali le fanno i parlamenti e non i governi. Con una riforma Chiti avremmo meno parlamentari ma eletti dal popolo, con una Camera all’europea e un Senato all’americana. Ci si troverebbe di fronte a un parlamento nettamente migliore rispetto a quello della strampalata riforma che vuole con ottusità il governo.
Già le province sono scomparse, ma solo come organo elettivo e legislativo. Anche il Senato farà la stessa fine. Si riducono i poteri dell’ente in quanto tale, ma il potere più forte lo perdono i cittadini, non potendo scegliere di persona chi comunque avrà voce in capitolo su questioni importanti. Un altro pezzo di democrazia se ne và. E questo per merito di una classe dirigente di un partito che si definisce “Democratico”.
Circa un paio di volte al mese 74 esponenti delle regioni, 21 sindaci scelti non si sa con che criterio e 5 paracadutati dal Quirinale si troveranno a Palazzo Madama per discutere in stile CNEL (l’organismo che Renzi ha appena chiuso in quanto dispendioso e poco utile) di leggi costituzionali, referendum popolari, leggi elettorali degli enti locali, diritto di famiglia, matrimonio e salute e ratifiche dei trattati internazionali. Tra le varie pecche, i cittadini dei grossi centri saranno rappresentati in Senato maggiormente rispetto a quelli che vivono nei piccoli comuni: i sindaci in Senato verranno con maggiore probabilità dai capoluoghi e dalle città più popolose. Insomma, la città discriminerà la campagna.
Nemmeno le funzioni di questo nuovo Senato sono chiare. Un notabile storico della sinistra e parlamentare di lungo corso come Vannino Chiti ha fatto una proposta senz’altro migliore rispetto a quella renziana. Il testo di Chiti, già firmato da diversi senatori del PD tra cui l’ex magistrato Felice Casson, prevede il dimezzamento del numero dei parlamentari di Montecitorio; l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia e della legge di bilancio; l’attribuzione anche al Senato dell’esame e del voto delle leggi costituzionali, elettorali, dei trattati europei e dei provvedimenti che investano diritti fondamentali della persona. «La Camera sarà composta da 315 deputati, la metà degli attuali 630; il Senato da 100 eletti nelle Regioni (contestualmente al voto per i Consigli regionali) più 6 in rappresentanza degli italiani all’estero. Meno della metà degli attuali 315. Voglio sottolineare come tale proposta preveda una riduzione dei costi della politica ben superiore a quella prevista dal disegno del governo» dice Chiti.
Insomma, alle politiche si voterebbe per la Camera che darà, lei sola, la fiducia all’esecutivo e alle elezioni regionali si daranno le preferenze anche per i senatori, senza ulteriori tornate alle urne. La proposta Chiti non sarà la migliore del mondo ma sicuramente è la meno peggio di tutte quelle che si sono sentite in questi mesi. Le riforme costituzionali le fanno i parlamenti e non i governi. Con una riforma Chiti avremmo meno parlamentari ma eletti dal popolo, con una Camera all’europea e un Senato all’americana. Ci si troverebbe di fronte a un parlamento nettamente migliore rispetto a quello della strampalata riforma che vuole con ottusità il governo.
Già le province sono scomparse, ma solo come organo elettivo e legislativo. Anche il Senato farà la stessa fine. Si riducono i poteri dell’ente in quanto tale, ma il potere più forte lo perdono i cittadini, non potendo scegliere di persona chi comunque avrà voce in capitolo su questioni importanti. Un altro pezzo di democrazia se ne và. E questo per merito di una classe dirigente di un partito che si definisce “Democratico”.
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