mercoledì 18 marzo 2015

Come cambierà il Senato con la riforma di Renzi

Errare è umano, perseverare è diabolico. Citando il vecchio adagio, c’è un punto su cui il premier Matteo Renzi si è incaponito a torto: la riforma del Senato. La riforma, che parte dai lavori del sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio e della ministra Maria Elena Boschi, fa acqua da tutte le parti. Il già bravo sindaco di Reggio Emilia e medico (come direbbe Di Pietro: “che c’azzecca un dottore con le riforme?”) e la giovane ministra hanno fatto un pastrocchio. Renzi vuol tirar dritto su un Senato non elettivo, con molti membri nominati dal Capo dello Stato e con tutto il baraccone dei commessi e segretari in funzione.
Circa un paio di volte al mese 74 esponenti delle regioni, 21 sindaci scelti non si sa con che criterio e 5 paracadutati dal Quirinale si troveranno a Palazzo Madama per discutere in stile CNEL (l’organismo che Renzi ha appena chiuso in quanto dispendioso e poco utile) di leggi costituzionali, referendum popolari, leggi elettorali degli enti locali, diritto di famiglia, matrimonio e salute e ratifiche dei trattati internazionali. Tra le varie pecche, i cittadini dei grossi centri saranno rappresentati in Senato maggiormente rispetto a quelli che vivono nei piccoli comuni: i sindaci in Senato verranno con maggiore probabilità dai capoluoghi e dalle città più popolose. Insomma, la città discriminerà la campagna.
Nemmeno le funzioni di questo nuovo Senato sono chiare. Un notabile storico della sinistra e parlamentare di lungo corso come Vannino Chiti ha fatto una proposta senz’altro migliore rispetto a quella renziana. Il testo di Chiti, già firmato da diversi senatori del PD tra cui l’ex magistrato Felice Casson, prevede il dimezzamento del numero dei parlamentari di Montecitorio; l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia e della legge di bilancio; l’attribuzione anche al Senato dell’esame e del voto delle leggi costituzionali, elettorali, dei trattati europei e dei provvedimenti che investano diritti fondamentali della persona. «La Camera sarà composta da 315 deputati, la metà degli attuali 630; il Senato da 100 eletti nelle Regioni (contestualmente al voto per i Consigli regionali) più 6 in rappresentanza degli italiani all’estero. Meno della metà degli attuali 315. Voglio sottolineare come tale proposta preveda una riduzione dei costi della politica ben superiore a quella prevista dal disegno del governo» dice Chiti.
Insomma, alle politiche si voterebbe per la Camera che darà, lei sola, la fiducia all’esecutivo e alle elezioni regionali si daranno le preferenze anche per i senatori, senza ulteriori tornate alle urne. La proposta Chiti non sarà la migliore del mondo ma sicuramente è la meno peggio di tutte quelle che si sono sentite in questi mesi. Le riforme costituzionali le fanno i parlamenti e non i governi. Con una riforma Chiti avremmo meno parlamentari ma eletti dal popolo, con una Camera all’europea e un Senato all’americana. Ci si troverebbe di fronte a un parlamento nettamente migliore rispetto a quello della strampalata riforma che vuole con ottusità il governo.
Già le province sono scomparse, ma solo come organo elettivo e legislativo. Anche il Senato farà la stessa fine. Si riducono i poteri dell’ente in quanto tale, ma il potere più forte lo perdono i cittadini, non potendo scegliere di persona chi comunque avrà voce in capitolo su questioni importanti. Un altro pezzo di democrazia se ne và. E questo per merito di una classe dirigente di un partito che si definisce “Democratico”.

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