«Ci
sono momenti in cui è necessario gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Come diceva XYZ, e pensando anche quelle parole lontane, ma oggi così
vicine, noi diciamo sì. Lo facciamo non a cuor leggero, consapevoli
degli errori che sono stati commessi nel passato. Ma è proprio per
dimostrare che si può fare bene ciò che è stato fatto male in passato
che noi diciamo sì. Perché vogliamo dimostrare che la sostenibilità
ambientale ed economica è qualcosa che si può fare. A coloro che dicono
“no”, legittimamente, noi rispondiamo: stiamo lavorando anche per voi,
per far ritornare la fiducia anche in coloro che l’avevano persa. Daremo
tutta la nostra passione e il nostro coraggio per costruire insieme un
evento bello, forte, sostenibile, ecologico. Noi trasformeremo gli
errori del passato in lavoro, crescita, sviluppo. Quindi Torino [ma
forse ci sarà anche Milano, N.d.R.] dice “Sì” alla candidatura per le
Olimpiadi di Torino 2026.»
Probabile la deriva «noi ci mettiamo la faccia». Applausi, pagine sul giornale di famiglia, il «coraggio del pragmatismo», «il senso di responsabilità e la visione di futuro», oppure «Torino rilancia la sfida», «ripartenza». Campagna mediatica già ampiamente in corso.
Con ogni probabilità tutto questo, tra pochi giorni, verrà pronunciato dal centro del cratere olimpico di Torino. Città che elegge ogni cinque anni un commissario fallimentare, figura indispensabile per ripianare il maxidebito lasciato dalle Olimpiadi, quelle del 2006.
Dall’uno vale uno, all’uno vale l’altro.
La Stampa di lunedì 30 ottobre 2017, a proposito della difficile situazione finanziaria del Gruppo Trasporti Torinesi e di conseguenza del Comune di Torino:
«…È Stefano Lo Russo, oggi capogruppo del PD in Consiglio comunale, ma fino alla precedente legislatura uomo chiave della squadra di Fassino intercettato il 4 novembre del 2016 mentre era al telefono con un giornalista. In realtà l’intercettazione è stata effettuata per un’altra inchiesta ma finisce nel faldone GTT perché le dichiarazioni dell’ex assessore sono da considerare eloquenti. Gli inquirenti, che stanno lavorando sul disallineamento dei conti del Comune e sulle Partecipate, vengono colpiti dalla fermezza con cui Lo Russo spiega che i problemi dei conti di Torino sono nati con le Olimpiadi e che poi hanno cercato di nascondere le cose.»
È veramente un peccato dover associare la parole del filosofo tedesco a queste cosine ridicole della storia, e chi volesse avere un quadro completo della tragedia, stadio originario della farsa prossima, può leggere qui.
Le cose, contano solo le cose
Il costo preventivo delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, non «low cost», fu pari a 550 milioni di euro.
Il preventivo, informale, delle Olimpiadi invernali di Torino 2026, «low cost», è pari a 975 milioni di euro.
Potremmo fermarci qui, stappare un bottiglia di vino forte affinché, come cantava il poeta, «ci sia allegria anche in agonia.» Ma dato che la vicenda deborda nel grottesco vale la pena di spenderci qualche parola.
Curiosa locuzione, «low cost»: ben conosciuta in Valsusa, perché la Torino – Lione, non è più Tav, ma Tav «Low cost»: ribatezzata così da Graziano Delrio, costa appena 4.7 miliardi di euro. I sostenitori del Tav come quelli delle Olimpiadi hanno in comune la voluta distorsione della realtà economica, nonché un uso spregiudicato, e vagamente ridicolo, delle locuzioni. Ma perché sono poi «low cost»?
Il Cio chiede con nuove norme di rendere sostenibili i giochi e dà vaghe indicazioni in merito. Quindi, par di capire, è necessario svenare le casse pubbliche dello Stato per riutilizzare, per altri quindici giorni, impianti abbandonati al termine dei precedenti Giochi del 2006. I proponenti, con ampio uso retorico, sostengono che verranno riutilizzati gli impianti abbandonati: questo processo viene definito, niente meno, «il sogno». Intendono quindi rimettere in sesto:
«Il sogno» – ricicliamo – non tiene conto di cosa fare di questi impianti dopo le Olimpiadi: lo schema sarebbe ovviamente quello del 2006, ancor più sicuro perché questa volta non ci sarebbero – se veramente si vogliono tagliare i costi – fondi necessari per il riutilizzo successivo. Certo, giureranno che dopo la cerimonia di chiusura sarà un florilegio di attività, di cittadelle dello sport, di «Coverciano della neve»: l’hanno già fatto i predecessori nel 2006, dilapidando miliardi, mentre si chiudono gli ospedali. Quanto costerebbe quindi la ristrutturazione pro tempore? Nessuno al momento può dirlo, nemmeno coloro che sostengono il principio del «riciclo».
Per quanto riguarda il Villaggio Olimpico, la situazione è ancora più pericolosa e ridicola. In esso vivono circa 1400 migranti, fantasmi della città che hanno trovato in questi palazzi un luogo dove ripararsi. Si dovrebbe quindi buttarli fuori e sparpagliarli per la città, dato che il processo di «sgombero dolce» organizzato da Comune, fondazioni bancarie e curia, è ormai fallito. Le casette inoltre, costate oltre 140 milioni di euro, risultano devastate, non dalla presenza dei migranti, bensì dalla loro debolezza infrastrutturale. Si dovrebbero rifare da cima a fondo, quindi. Un vecchio adagio torinese dice così «a volte costa più la corda del sacco»: ma ovviamente si punta ai soldi per la corda con i grandi eventi. Se gli atleti verranno ospitati a Torino, è molto probabile un nuovo villaggio olimpico.
Anche perché ci sono appetiti da soddisfare, la corrente cementizia della città già scalpita, e non si accontenteranno di ridare il bianco a qualche muro. Sono in molti ad avere «sogni» e «vision» a Torino, in questi giorni.
In generale, inoltre, tutti gli impianti olimpici che potrebbero essere utilizzati, oggi sono «gestiti» da privati. il Parco Olimpico era interamente di proprietà della Fondazione XX marzo 2006. Nel 2009 il 70% delle azioni è stato affidato ai privati. La gara è stata vinta dalla società americana Live Nation, in collaborazione con la società torinese Set Up.
Vi è inoltre un costo non comprimibile della spesa, e non ammortizzabile, in geometrica espansione dato il contesto storico: quello afferente alla sicurezza. Organizzare le Olimpiadi è come organizzare una guerra: e il Cio, su questo punto, non vuole sentir parlare di risparmi o «low cost». Torino, dopo il disastro di Piazza san Carlo, dovrebbe aver imparato la lezione.
Il riciclo degli impianti, quindi, inciderà minimamente sul piano della spesa finale, è solo fumo gettato negli occhi. In realtà, come sempre accade, nessuno in questo momento può neanche immaginare quanto si spenderà. Nel 2012 il Guardian fece un’analisi di questo fenomeno mettendo sotto la lente le Olimpiadi di Londra. Le sfortunate Olimpiadi parigine del 2024, anch’esse ribattezzate «low cost», si stanno rivelando – come tutte quelle del passato – una voragine senza fine.
Innsbruck – che ha gli impianti a disposizione, e in funzione, su un territorio molto meno vasto – si è ritirata dopo un referendum, e nemmeno Stoccolma ha superato la fase iniziale. L’idea di organizzare giochi olimpici invernali sembra non piacere neanche agli svizzeri. In base a un sondaggio realizzato a quattro mesi dal cruciale voto sul progetto di candidatura di Sion 2026, i pareri contrari raggiungono il 59% degli interpellati, mentre i favorevoli solo il 36%. Decideranno a giugno.
Il direttore del Cio, relativamente ai dubbi svizzeri sulla cosiddetta «garanzia limitata del deficit» ha precisato che a rispondere di un eventuale disavanzo saranno gli organizzatori: «A fare stato sono le firme sul contratto con l’ente ospitante». Ma quali sono i conti degli svizzeri per le loro Olimpiadi del 2026? Come riporta Ticinoonline:
«Gli organizzatori hanno messo in preventivo spese complessive per 1,98 miliardi di franchi ed entrate per 1,15 miliardi. Da più parti è tuttavia stato osservato che si tratta di previsioni troppo ottimistiche e che la sicurezza potrebbe fare lievitare i costi. L’ultima parola sulla candidatura olimpica spetta comunque ai cittadini vallesani.»
Gli svizzeri hanno già detto che da loro ci sarà un buco minimo di 850 milioni di euro. In Svizzera. Noi qui, a trombe politiche unificate, suoniamo la grancassa del «low cost». E siamo tutti entusiasti.
Entusiasta il Partito Democratico, coerentemente con la sua storia.
Entusiaste le banche, entusiasti i costruttori, entusiasta – suppongo– la criminalità organizzata che ancora sta digerendo con fatica l’abbuffata pantagruelica dell’altra volta.
Entusiasti Lega, Forza Italia, destra, tutti. È la Grande Colazione che si avvicina, a Torino e in Italia.
Entusiasti quelli di adesso, i pentastellari torinesi. Ondivaghi, hanno aperto la valvola della protesta anti sistema per poi trasformarla, nell’attimo della vertigine del non-potere che hanno, nel più compiaciuto conservatorismo. Bigotti del bilancio e dell’austerità, ma pronti a cercare la salvezza laddove vi è la rovina della città. I dissidenti della maggioranza pentastellare in Comune sono quattro e mezzo, gli altri sono impiegati della politica che un tempo sbraitavano contro le grandi opere/eventi, e oggi sbraitano di «sogni» e «vision».
Entusiasta «Beppe», che telefona in diretta durante un’assemblea come nelle migliori tradizioni del cabaret: e Beppe dice a «Chiara» che le Olimpiadi sono «un’occasione», così Chiara si sente forte, e la dissidenza interna viene tacitata per qualche ora.
Costoro affrontano allegramente la candidatura olimpica senza tener conto che il sistema bancario in essere, l’assenza di una banca pubblica – per cortesia nessuno tiri in ballo la Cdp – le regole di bilancio nazionali e sovra nazionali, nonché la dimensione del debito pubblico, la svalutazione del lavoro con il dilagare di impieghi non retribuiti spacciati per volontariato, tutto questo rende impossibile l’organizzazione di una Olimpiade che non sia un massacro sociale.
Ostacoli strutturali, incontrovertibili, a cui i proponenti rispondono con la retorica del lowcost/sogno/vision/facciamo a modo nostro. Il vecchio arnese della fuffa gettata negli occhi, affinché la pietrosa materia risulti invisibile. Vivono, i proponenti, nella allucinata ed egoriferita convinzione che il loro magico tocco possa trasformare in oro il marciume: la sindrome di Re Mida.
Contrario brutalmente – perché consapevole di tutto quanto sopra elencato – il Movimento No Tav, che in un durissimo comunicato stampa contesta la narrazione tossica relativa al principio «low cost” nonché l’intera impalcatura ideologica legata ai grandi eventi. Anche perché, se il Tav non sarà fermato – da chi? Dai pentastellari di governo? – negli anni antecedenti alla cerimonia di apertura i cantieri olimpici si sommeranno al maxicantiere del tunnel di base a Chiomonte e al maxi cantiere di Salbertrand, ove verrà stoccato lo smarino. La Valsusa, ancora una volta, utilizzata da tutti come un territorio da saccheggiare.
Ma perché rifare le Olimpiadi? Le vere ragioni
Premessa: in linea teorica esiste un articolo della Carta Olimpica, Cap. 5 art. 37 comma 7, che così recita:
«L’elezione riguardante la designazione della Città Ospitante si svolge in un Paese che non presenti nessun candidato all’organizzazione dei Giochi Olimpici in questione, dopo attento esame del rapporto stilato dalla Commissione di valutazione delle città candidate.»
Ovvio conflitto di interessi. Il presidente del Coni Giovanni Malagò, il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il Governatore della Lombardia Roberto Maroni hanno sottoscritto tale impegno, anche se poi hanno dichiarato di «non volersi precludere nulla». Anche perché, e questo è lo scenario più probabile, Torino, o Torino-Milano, potrebbe rimanere l’unica città candidata in Europa nel caso in cui Sion si ritirasse.
Alla dolce tentazione leopardiana del prevaler del riso fuori posto o del pianto consolatorio, è bene contrapporre la massima spinoziana «Non piangere, non ridere, comprendere»: le Olimpiadi si vogliono rifare a Torino per le stesse ragioni dell’altra volta.
La Città sta andando verso la fase finale della deindustrializzazione, il cratere sta per eruttare nuovamente conflitto. Soprattutto quelle periferie che brulicano di malessere. Serve un grande evento – non ci sono differenze tra grandi opere e grandi eventi – che distragga, che porti via l’attenzione. Niente più panem, solo circenses: poi tanto da queste parti – mai dimenticare la teoria dei vasi comunicanti quando si parla di debito pubblico e grandi opere – per recuperare denaro chiudiamo due ospedali: Molinette e Sant’Anna. Al loro posto un ospedale più piccolo, la Città della Salute.
«Il privato – si può leggere sul quotidiano di Confindustria – sosterrà il 70% della spesa di realizzazione degli edifici, 306 milioni di euro, e sarà remunerato grazie al canone ottenuto dai risparmi sui costi della gestione corrente.»
È il famoso Project Financing, il meccanismo estrattivo principe – utilizzato sempre più per grandi eventi e grandi opere – per la creazione del debito pubblico e la privatizzazione dei servizi. Ovviamente nella nuova struttura sanitaria privata affittata al pubblico i posti letto saranno tagliati, i pentastellari regionali sostengono addirittura della metà: da 2000 a 1000. Progetto della giunta regionale Chiamparino, fatto proprio dai Cinque Stelle di Torino dopo un repentino cambio di opinione.
Ma torniamo alla deindustrializzazione. Il «Polo del lusso» di Torino, quello che doveva arrivare dopo il referendum di Mirafiori del 2011, si sta rivelando non solo insufficiente, ma inadeguato. La famiglia è sempre più lontana da Torino, volutamente. La Fiat si prepara a lunghe sospensioni produttive a Mirafiori e a Grugliasco. L’ombra dell’Imbraco si allunga sugli ultimi rimasugli, ma ancora sostanziosi, della Fiat a Torino. In questo contesto economico sociale regressivo, l’unica legge che vale è quella dell’antropologo David Graeber:
«più i processi di redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto sono iniqui, più necessitano di eventi spettacolari e autocelebrativi.»
Nella speranza che queste parole possano fermare la stoltezza di un tempo buio e spensierato, sipario.
Probabile la deriva «noi ci mettiamo la faccia». Applausi, pagine sul giornale di famiglia, il «coraggio del pragmatismo», «il senso di responsabilità e la visione di futuro», oppure «Torino rilancia la sfida», «ripartenza». Campagna mediatica già ampiamente in corso.
Con ogni probabilità tutto questo, tra pochi giorni, verrà pronunciato dal centro del cratere olimpico di Torino. Città che elegge ogni cinque anni un commissario fallimentare, figura indispensabile per ripianare il maxidebito lasciato dalle Olimpiadi, quelle del 2006.
Dall’uno vale uno, all’uno vale l’altro.
La Stampa di lunedì 30 ottobre 2017, a proposito della difficile situazione finanziaria del Gruppo Trasporti Torinesi e di conseguenza del Comune di Torino:
«…È Stefano Lo Russo, oggi capogruppo del PD in Consiglio comunale, ma fino alla precedente legislatura uomo chiave della squadra di Fassino intercettato il 4 novembre del 2016 mentre era al telefono con un giornalista. In realtà l’intercettazione è stata effettuata per un’altra inchiesta ma finisce nel faldone GTT perché le dichiarazioni dell’ex assessore sono da considerare eloquenti. Gli inquirenti, che stanno lavorando sul disallineamento dei conti del Comune e sulle Partecipate, vengono colpiti dalla fermezza con cui Lo Russo spiega che i problemi dei conti di Torino sono nati con le Olimpiadi e che poi hanno cercato di nascondere le cose.»
È veramente un peccato dover associare la parole del filosofo tedesco a queste cosine ridicole della storia, e chi volesse avere un quadro completo della tragedia, stadio originario della farsa prossima, può leggere qui.
Le cose, contano solo le cose
Il costo preventivo delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, non «low cost», fu pari a 550 milioni di euro.
Il preventivo, informale, delle Olimpiadi invernali di Torino 2026, «low cost», è pari a 975 milioni di euro.
Potremmo fermarci qui, stappare un bottiglia di vino forte affinché, come cantava il poeta, «ci sia allegria anche in agonia.» Ma dato che la vicenda deborda nel grottesco vale la pena di spenderci qualche parola.
Curiosa locuzione, «low cost»: ben conosciuta in Valsusa, perché la Torino – Lione, non è più Tav, ma Tav «Low cost»: ribatezzata così da Graziano Delrio, costa appena 4.7 miliardi di euro. I sostenitori del Tav come quelli delle Olimpiadi hanno in comune la voluta distorsione della realtà economica, nonché un uso spregiudicato, e vagamente ridicolo, delle locuzioni. Ma perché sono poi «low cost»?
Il Cio chiede con nuove norme di rendere sostenibili i giochi e dà vaghe indicazioni in merito. Quindi, par di capire, è necessario svenare le casse pubbliche dello Stato per riutilizzare, per altri quindici giorni, impianti abbandonati al termine dei precedenti Giochi del 2006. I proponenti, con ampio uso retorico, sostengono che verranno riutilizzati gli impianti abbandonati: questo processo viene definito, niente meno, «il sogno». Intendono quindi rimettere in sesto:
- la pista di bob di Cesana Torinese;
- il trampolino di Pragelato;
- e probabilmente il Villaggio Olimpico di Torino.
«Il sogno» – ricicliamo – non tiene conto di cosa fare di questi impianti dopo le Olimpiadi: lo schema sarebbe ovviamente quello del 2006, ancor più sicuro perché questa volta non ci sarebbero – se veramente si vogliono tagliare i costi – fondi necessari per il riutilizzo successivo. Certo, giureranno che dopo la cerimonia di chiusura sarà un florilegio di attività, di cittadelle dello sport, di «Coverciano della neve»: l’hanno già fatto i predecessori nel 2006, dilapidando miliardi, mentre si chiudono gli ospedali. Quanto costerebbe quindi la ristrutturazione pro tempore? Nessuno al momento può dirlo, nemmeno coloro che sostengono il principio del «riciclo».
Per quanto riguarda il Villaggio Olimpico, la situazione è ancora più pericolosa e ridicola. In esso vivono circa 1400 migranti, fantasmi della città che hanno trovato in questi palazzi un luogo dove ripararsi. Si dovrebbe quindi buttarli fuori e sparpagliarli per la città, dato che il processo di «sgombero dolce» organizzato da Comune, fondazioni bancarie e curia, è ormai fallito. Le casette inoltre, costate oltre 140 milioni di euro, risultano devastate, non dalla presenza dei migranti, bensì dalla loro debolezza infrastrutturale. Si dovrebbero rifare da cima a fondo, quindi. Un vecchio adagio torinese dice così «a volte costa più la corda del sacco»: ma ovviamente si punta ai soldi per la corda con i grandi eventi. Se gli atleti verranno ospitati a Torino, è molto probabile un nuovo villaggio olimpico.
Anche perché ci sono appetiti da soddisfare, la corrente cementizia della città già scalpita, e non si accontenteranno di ridare il bianco a qualche muro. Sono in molti ad avere «sogni» e «vision» a Torino, in questi giorni.
In generale, inoltre, tutti gli impianti olimpici che potrebbero essere utilizzati, oggi sono «gestiti» da privati. il Parco Olimpico era interamente di proprietà della Fondazione XX marzo 2006. Nel 2009 il 70% delle azioni è stato affidato ai privati. La gara è stata vinta dalla società americana Live Nation, in collaborazione con la società torinese Set Up.
Vi è inoltre un costo non comprimibile della spesa, e non ammortizzabile, in geometrica espansione dato il contesto storico: quello afferente alla sicurezza. Organizzare le Olimpiadi è come organizzare una guerra: e il Cio, su questo punto, non vuole sentir parlare di risparmi o «low cost». Torino, dopo il disastro di Piazza san Carlo, dovrebbe aver imparato la lezione.
Il riciclo degli impianti, quindi, inciderà minimamente sul piano della spesa finale, è solo fumo gettato negli occhi. In realtà, come sempre accade, nessuno in questo momento può neanche immaginare quanto si spenderà. Nel 2012 il Guardian fece un’analisi di questo fenomeno mettendo sotto la lente le Olimpiadi di Londra. Le sfortunate Olimpiadi parigine del 2024, anch’esse ribattezzate «low cost», si stanno rivelando – come tutte quelle del passato – una voragine senza fine.
Innsbruck – che ha gli impianti a disposizione, e in funzione, su un territorio molto meno vasto – si è ritirata dopo un referendum, e nemmeno Stoccolma ha superato la fase iniziale. L’idea di organizzare giochi olimpici invernali sembra non piacere neanche agli svizzeri. In base a un sondaggio realizzato a quattro mesi dal cruciale voto sul progetto di candidatura di Sion 2026, i pareri contrari raggiungono il 59% degli interpellati, mentre i favorevoli solo il 36%. Decideranno a giugno.
Il direttore del Cio, relativamente ai dubbi svizzeri sulla cosiddetta «garanzia limitata del deficit» ha precisato che a rispondere di un eventuale disavanzo saranno gli organizzatori: «A fare stato sono le firme sul contratto con l’ente ospitante». Ma quali sono i conti degli svizzeri per le loro Olimpiadi del 2026? Come riporta Ticinoonline:
«Gli organizzatori hanno messo in preventivo spese complessive per 1,98 miliardi di franchi ed entrate per 1,15 miliardi. Da più parti è tuttavia stato osservato che si tratta di previsioni troppo ottimistiche e che la sicurezza potrebbe fare lievitare i costi. L’ultima parola sulla candidatura olimpica spetta comunque ai cittadini vallesani.»
Gli svizzeri hanno già detto che da loro ci sarà un buco minimo di 850 milioni di euro. In Svizzera. Noi qui, a trombe politiche unificate, suoniamo la grancassa del «low cost». E siamo tutti entusiasti.
Entusiasta il Partito Democratico, coerentemente con la sua storia.
Entusiaste le banche, entusiasti i costruttori, entusiasta – suppongo– la criminalità organizzata che ancora sta digerendo con fatica l’abbuffata pantagruelica dell’altra volta.
Entusiasti Lega, Forza Italia, destra, tutti. È la Grande Colazione che si avvicina, a Torino e in Italia.
Entusiasti quelli di adesso, i pentastellari torinesi. Ondivaghi, hanno aperto la valvola della protesta anti sistema per poi trasformarla, nell’attimo della vertigine del non-potere che hanno, nel più compiaciuto conservatorismo. Bigotti del bilancio e dell’austerità, ma pronti a cercare la salvezza laddove vi è la rovina della città. I dissidenti della maggioranza pentastellare in Comune sono quattro e mezzo, gli altri sono impiegati della politica che un tempo sbraitavano contro le grandi opere/eventi, e oggi sbraitano di «sogni» e «vision».
Entusiasta «Beppe», che telefona in diretta durante un’assemblea come nelle migliori tradizioni del cabaret: e Beppe dice a «Chiara» che le Olimpiadi sono «un’occasione», così Chiara si sente forte, e la dissidenza interna viene tacitata per qualche ora.
Costoro affrontano allegramente la candidatura olimpica senza tener conto che il sistema bancario in essere, l’assenza di una banca pubblica – per cortesia nessuno tiri in ballo la Cdp – le regole di bilancio nazionali e sovra nazionali, nonché la dimensione del debito pubblico, la svalutazione del lavoro con il dilagare di impieghi non retribuiti spacciati per volontariato, tutto questo rende impossibile l’organizzazione di una Olimpiade che non sia un massacro sociale.
Ostacoli strutturali, incontrovertibili, a cui i proponenti rispondono con la retorica del lowcost/sogno/vision/facciamo a modo nostro. Il vecchio arnese della fuffa gettata negli occhi, affinché la pietrosa materia risulti invisibile. Vivono, i proponenti, nella allucinata ed egoriferita convinzione che il loro magico tocco possa trasformare in oro il marciume: la sindrome di Re Mida.
Contrario brutalmente – perché consapevole di tutto quanto sopra elencato – il Movimento No Tav, che in un durissimo comunicato stampa contesta la narrazione tossica relativa al principio «low cost” nonché l’intera impalcatura ideologica legata ai grandi eventi. Anche perché, se il Tav non sarà fermato – da chi? Dai pentastellari di governo? – negli anni antecedenti alla cerimonia di apertura i cantieri olimpici si sommeranno al maxicantiere del tunnel di base a Chiomonte e al maxi cantiere di Salbertrand, ove verrà stoccato lo smarino. La Valsusa, ancora una volta, utilizzata da tutti come un territorio da saccheggiare.
Ma perché rifare le Olimpiadi? Le vere ragioni
Premessa: in linea teorica esiste un articolo della Carta Olimpica, Cap. 5 art. 37 comma 7, che così recita:
«L’elezione riguardante la designazione della Città Ospitante si svolge in un Paese che non presenti nessun candidato all’organizzazione dei Giochi Olimpici in questione, dopo attento esame del rapporto stilato dalla Commissione di valutazione delle città candidate.»
Ovvio conflitto di interessi. Il presidente del Coni Giovanni Malagò, il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il Governatore della Lombardia Roberto Maroni hanno sottoscritto tale impegno, anche se poi hanno dichiarato di «non volersi precludere nulla». Anche perché, e questo è lo scenario più probabile, Torino, o Torino-Milano, potrebbe rimanere l’unica città candidata in Europa nel caso in cui Sion si ritirasse.
Alla dolce tentazione leopardiana del prevaler del riso fuori posto o del pianto consolatorio, è bene contrapporre la massima spinoziana «Non piangere, non ridere, comprendere»: le Olimpiadi si vogliono rifare a Torino per le stesse ragioni dell’altra volta.
La Città sta andando verso la fase finale della deindustrializzazione, il cratere sta per eruttare nuovamente conflitto. Soprattutto quelle periferie che brulicano di malessere. Serve un grande evento – non ci sono differenze tra grandi opere e grandi eventi – che distragga, che porti via l’attenzione. Niente più panem, solo circenses: poi tanto da queste parti – mai dimenticare la teoria dei vasi comunicanti quando si parla di debito pubblico e grandi opere – per recuperare denaro chiudiamo due ospedali: Molinette e Sant’Anna. Al loro posto un ospedale più piccolo, la Città della Salute.
«Il privato – si può leggere sul quotidiano di Confindustria – sosterrà il 70% della spesa di realizzazione degli edifici, 306 milioni di euro, e sarà remunerato grazie al canone ottenuto dai risparmi sui costi della gestione corrente.»
È il famoso Project Financing, il meccanismo estrattivo principe – utilizzato sempre più per grandi eventi e grandi opere – per la creazione del debito pubblico e la privatizzazione dei servizi. Ovviamente nella nuova struttura sanitaria privata affittata al pubblico i posti letto saranno tagliati, i pentastellari regionali sostengono addirittura della metà: da 2000 a 1000. Progetto della giunta regionale Chiamparino, fatto proprio dai Cinque Stelle di Torino dopo un repentino cambio di opinione.
Ma torniamo alla deindustrializzazione. Il «Polo del lusso» di Torino, quello che doveva arrivare dopo il referendum di Mirafiori del 2011, si sta rivelando non solo insufficiente, ma inadeguato. La famiglia è sempre più lontana da Torino, volutamente. La Fiat si prepara a lunghe sospensioni produttive a Mirafiori e a Grugliasco. L’ombra dell’Imbraco si allunga sugli ultimi rimasugli, ma ancora sostanziosi, della Fiat a Torino. In questo contesto economico sociale regressivo, l’unica legge che vale è quella dell’antropologo David Graeber:
«più i processi di redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto sono iniqui, più necessitano di eventi spettacolari e autocelebrativi.»
Nella speranza che queste parole possano fermare la stoltezza di un tempo buio e spensierato, sipario.
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