Come nel Paese delle Meraviglie il Cappellaio Matto festeggiava il
suo non-compleanno, a Piazza Affari si festeggia il non-crollo dei
mercati. Dopo il trionfo delle forze populiste alle elezioni di domenica
4 marzo, lunedì il Ftse Mib ha toccato in giornata una perdita massima
del 2%, ma poi ha chiuso con un ben più modesto -0,4%. E martedì è
addirittura salito dell’1,75%, maglia rosa fra i listini europei.
Intanto, lo spread Btp-Bund viaggia placido in zona 130 punti base,
lontanissimo dai livelli di guardia.
Dalle urne è emerso un risultato che in teoria non dovrebbe piacere agli operatori della finanza, se non altro perché consegna il nostro Paese a un periodo di prolungata instabilità. Eppure - come già era avvenuto dopo il voto su Brexit, dopo il referendum costituzionale italiano e dopo l’elezione di Donald Trump - gli investitori smentiscono i profeti di sventura e ostentano indifferenza. Per diverse ragioni.
Innanzitutto, l’instabilità non porterà di sicuro benefici, ma nemmeno sciagure. Al momento non c’è alcun governo di cui avere paura e nessuno è in grado di prevedere se e quando ci sarà. Le ipotesi meno inverosimili sono quelle di un accordo Lega-M5S o Pd-M5S, ma Salvini e Renzi si sono detti contrari a queste prospettive. Se un compromesso arriverà, insomma, richiederà molto tempo. Altrimenti si passerà per un governo di scopo e si tornerà alle urne.
In secondo luogo, è ancora da dimostrare che i mercati siano spaventati dall’idea di un governo italiano a guida leghista o grillina. Tra gli investitori prevale la convinzione (fondata) che le forze antisistema tendano a normalizzarsi quando arrivano al governo. E in effetti, con l’avanzare delle rispettive ambizioni elettorali, Lega e Movimento 5 Stelle hanno ridotto progressivamente la violenza del loro antieuropeismo.
Questo significa che, comunque andrà a finire, la permanenza dell’Italia nell’Eurozona non sarà mai messa in discussione. Salvini ha detto di recente che “il sistema della moneta unica è destinato a finire”, ma poi ha chiarito che “averla o non averla è una decisione che un governo non può prendere da solo”, perché “vanno cambiati i trattati”. A inizio gennaio Di Maio era stato ancora più esplicito, affermando di non credere più che l’Italia debba uscire dall’euro, “perché l’asse franco-tedesco non è più così forte”. Musica per le orecchie della finanza.
C’è poi un altro aspetto da considerare, quello relativo alle politiche dell’Ue. Gli investitori non temono il futuro governo italiano perché sanno che in nessun caso sarà in grado di ostacolare o di condizionare le riforme dell’Unione in cantiere; progetti che Emmanuel Macron e Angel Merkel hanno in serbo da mesi e che saranno scongelati subito dopo la nascita del nuovo esecutivo tedesco, ormai imminente.
Al contrario, il prevedibile allentamento dei rapporti fra Roma e Bruxelles finirà perfino con il rafforzare la diarchia della Francia e della Germania sull’Europa. Non che l’Italia abbia mai avuto chissà quale ruolo decisivo, ma finora Berlino e Parigi hanno dovuto perlomeno fingere di ascoltare le richieste e le lamentele del nostro Paese. Da qui in avanti, probabilmente, non avranno più nemmeno questa preoccupazione.
Dalle urne è emerso un risultato che in teoria non dovrebbe piacere agli operatori della finanza, se non altro perché consegna il nostro Paese a un periodo di prolungata instabilità. Eppure - come già era avvenuto dopo il voto su Brexit, dopo il referendum costituzionale italiano e dopo l’elezione di Donald Trump - gli investitori smentiscono i profeti di sventura e ostentano indifferenza. Per diverse ragioni.
Innanzitutto, l’instabilità non porterà di sicuro benefici, ma nemmeno sciagure. Al momento non c’è alcun governo di cui avere paura e nessuno è in grado di prevedere se e quando ci sarà. Le ipotesi meno inverosimili sono quelle di un accordo Lega-M5S o Pd-M5S, ma Salvini e Renzi si sono detti contrari a queste prospettive. Se un compromesso arriverà, insomma, richiederà molto tempo. Altrimenti si passerà per un governo di scopo e si tornerà alle urne.
In secondo luogo, è ancora da dimostrare che i mercati siano spaventati dall’idea di un governo italiano a guida leghista o grillina. Tra gli investitori prevale la convinzione (fondata) che le forze antisistema tendano a normalizzarsi quando arrivano al governo. E in effetti, con l’avanzare delle rispettive ambizioni elettorali, Lega e Movimento 5 Stelle hanno ridotto progressivamente la violenza del loro antieuropeismo.
Questo significa che, comunque andrà a finire, la permanenza dell’Italia nell’Eurozona non sarà mai messa in discussione. Salvini ha detto di recente che “il sistema della moneta unica è destinato a finire”, ma poi ha chiarito che “averla o non averla è una decisione che un governo non può prendere da solo”, perché “vanno cambiati i trattati”. A inizio gennaio Di Maio era stato ancora più esplicito, affermando di non credere più che l’Italia debba uscire dall’euro, “perché l’asse franco-tedesco non è più così forte”. Musica per le orecchie della finanza.
C’è poi un altro aspetto da considerare, quello relativo alle politiche dell’Ue. Gli investitori non temono il futuro governo italiano perché sanno che in nessun caso sarà in grado di ostacolare o di condizionare le riforme dell’Unione in cantiere; progetti che Emmanuel Macron e Angel Merkel hanno in serbo da mesi e che saranno scongelati subito dopo la nascita del nuovo esecutivo tedesco, ormai imminente.
Al contrario, il prevedibile allentamento dei rapporti fra Roma e Bruxelles finirà perfino con il rafforzare la diarchia della Francia e della Germania sull’Europa. Non che l’Italia abbia mai avuto chissà quale ruolo decisivo, ma finora Berlino e Parigi hanno dovuto perlomeno fingere di ascoltare le richieste e le lamentele del nostro Paese. Da qui in avanti, probabilmente, non avranno più nemmeno questa preoccupazione.
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