Il fenomeno della delocalizzazione delle
imprese italiane, diventa sempre più frequente; infatti il numero delle
partecipazioni all’estero delle aziende è aumentato dal 2009 al 2015
del 12,7%. Con tale termine si intende l’amara e molto criticabile
scelta di grandi e piccoli gruppi industriali che decidono di trasferire
la loro produzione dal territorio nazionale in altri Paesi, ove il
costo del lavoro è più basso anche del 75% rispetto alla paga di un
lavoratore italiano.
Strutture quali: fabbriche, impianti
produttivi, call center e molto altro vengono trasferiti principalmente
verso l’Est Europa, nella fascia del Maghreb, in Sud America e Cina,
dove il mercato del lavoro non presenta alcun tipo di regolamentazione
imprenditoriale e poco a livello sindacale, diminuendo notevolmente le
opportunità per i cittadini italiani ed Europei.
Questo rappresenta un ulteriore disagio e
paradosso per i lavoratori italiani, che per decenni hanno lottato per
la dignità ed il riconoscimento dei loro diritti lavorativi e che
attualmente, oltre a vederli cancellati, dovrebbero comprare beni e
servizi da quei paesi che non li considerano neppure lontanamente.
Tra gli stabilimenti che da alcuni anni
hanno trasferito all’estero le attività, è necessario ricordare Fiat,
Geox, Bialetti, Omsa, Benetton, Calzedonia, Stefanel. Citiamo inoltre il
settore delle telecomunicazioni, dove spiccano Telecom Italia, Wind,
Vodafone, Sky Italia.
Il caso più lampante e triste di
un’azienda che in questi giorni (1) freme per andarsene e dichiarare lo
stato di crisi, riguarda l’Embraco, produttrice di compressori per
frigoriferi, con sede a Chieri (Torino), di proprietà del colosso
Whirpool, che mirerebbe a cancellare con un colpo di spugna i suoi 500
dipendenti. Eppure, l’azienda non ha debiti con le banche, dal 2012 al
2016 ha raddoppiato gli utili e il costo degli operai (per un colosso
simile) è di 26 milioni di euro, che rappresentano solo il 7% del
fatturato totale.
La Slovacchia è vista come una sorta di
“miraggio” per diminuire ulteriormente anche questi. Cosa si può fare
concretamente per arginare questo fenomeno che mette in serio pericolo
la stabilità e la dignità del lavoratore italiano?
Richiedere innanzitutto prevalentemente
alle imprese che intendono trasferire all’estero il lavoro, la
restituzione dei contributi e delle agevolazioni, da esse ottenuti,
dallo Stato e dagli enti locali. E soprattutto agire sulle coscienze
imprenditoriali al fine di riconoscere il valore del lavoro umano,
contrapposto al profitto finalizzato a se stesso.
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