La scuola, su cui il Governo si appresta ad intervenire, ha un
sicuro fondamento costituzionale (art. 33 e 34 Cost.). Piero Calamandrei
l’ha definita non un semplice segmento dell’apparato dello Stato quanto
piuttosto un vero e proprio “organo costituzionale”.
Per queste ragioni sollecitiamo un approccio meditato nella direzione indicata dai principi costituzionali, ignorati e traditi per più aspetti nella normativa in discussione in Parlamento.
In effetti, la riforma progettata dal Governo non si propone una scuola aperta a tutti, istituita dallo Stato in tutto il territorio nazionale per tutti gli ordini e gradi, in cui si assicuri con il massimo di estensione ed una gratuità effettiva l’obbligo di istruirsi coessenziale all’essere cittadini consapevoli; una scuola che sia mezzo per superare gli ostacoli frapposti all’uguaglianza e alla libertà, per far convivere le diversità, per rompere la calcificazione della provenienza economica e sociale dei singoli, premiando impegno e capacità effettivamente accertate. In altre parole: una scuola effettivamente democratica.
La ricostruzione del patto fra scuola e società, oggi andato in frantumi, può essere ottenuta solo attraverso un ingente investimento politico e finanziario, pur nella contingenza data, che riallinei l’Italia almeno agli standard medi dei Paesi Ocse, invertendo la tendenza ad una forte riduzione delle risorse umane e professionali affermatasi sin dalla fine dello scorso decennio.
Tra i tanti, segnaliamo tre aspetti fondamentali che dovrebbero ispirare qualsiasi tentativo di ripristino della “buona scuola”: restituire prestigio sociale e morale alla professione docente; rilanciare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in funzione della promozione della libertà di insegnamento, come espressione di una più ampia libertà dell’arte e della scienza, e della libertà di apprendere degli studenti; rafforzare le relazioni tra la scuola e l’ambiente sociale, economico e culturale in cui opera.
Solo il recupero di senso della professione docente è in grado di realizzare una effettiva libertà di insegnamento, consentendo a coloro che sono chiamati a tale delicatissimo compito di assolverlo adeguatamente, cogliendo gli stimoli provenienti dal contesto sociale e culturale all’interno di un percorso di aggiornamento continuo e di verifica della professionalità. Non c’è al riguardo, nella normativa all’attenzione del Parlamento, nulla di sostanzialmente nuovo, se non l’ennesimo tentativo di rimescolare le carte, per aggirare le conseguenze della severa condanna subita dall’Italia in Europa per il trattamento degli insegnanti “precari”.
Quanto alla realizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, essa è da intendersi come una desiderabile declinazione della autodeterminazione delle singole scuole in relazione al contesto sociale nel quale sono inserite. E’ da riporre mano alla gestione collegiale della scuola, per garantire in modo efficace l’effettiva e libera partecipazione di ogni sua componente, nel rispetto delle rispettive competenze e dei ruoli di ciascuna di esse (insegnanti, studenti, dirigenti e Ata). E’ sbagliato e paradossale considerare realizzata l’autonomia scolastica puntando, come punta il Governo, sulla centralità della figura del dirigente scolastico. Con la pervicace riproposizione anche a questo livello di un modello organizzativo incentrato sulla figura del capo che detta e realizza i suoi indirizzi. Si tratta di un modello incompatibile con il principio dell’autonomia delle scuole, perché ripropone il vecchio e fallimentare centralismo e crea il presupposto per la deresponsabilizzazione del personale e la realizzazione di una filiera di comando che rimanda agli organi superiori. Il rilancio dell’autonomia non può invece prescindere dalla valorizzazione dell’offerta formativa, da realizzare anche attraverso la formazione continua del personale e la creazione di un serio e condiviso sistema di valutazione
Come sbagliato e riduttivo è il riassumere il rapporto tra istituzione scolastica e società in un’alternanza tra scuola e lavoro la quale si risolva, come consente il progetto governativo, nel tramutare temporaneamente gli studenti in lavoratori generici e senza diritti, per la messa a disposizione delle imprese di manodopera a costo basso o nullo. Occorre, viceversa, non solo garantire i diritti di chi lavora per studiare, istruirsi e formarsi, ma anche mettere in linea questo lavoro con obiettivi specifici, di cui spetta alla scuola la programmazione; così come occorre il rispetto e la promozione della fatica dei lavoratori-studenti, nonché la garanzia di una formazione ed istruzione permanente, per tutti i lavoratori.
Troppe volte, e in un brevissimo lasso di tempo, la scuola ha “subito riforme”: nel 1997, nel 2003, nel 2008.
L’invito è a prendersi cura della scuola, ritornando a perseguire l’idea di una sua autentica autonomia e libertà, alla quale ripugna ogni eccesso di burocratizzazione e di gerarchizzazione.
A tal riguardo, una domanda conclusiva: perché seguitare a finanziare direttamente o indirettamente le scuole private, favorendone la scelta in assenza di seri controlli sul loro operare ed i suoi effetti, quando non si riesce ad assolvere l’obbligo di sostenere adeguatamente le scuole pubbliche? In realtà, incentivare la frequenza di scuole private, e per giunta affidarsi a finanziamenti privati anche per le scuole pubbliche, vuol dire coltivare l’idea, da respingere come incompatibile con la Costituzione, che oramai si debba rinunciare alla scuola di tutti e di ciascuno. Si tratterebbe di una vera e propria resa della democrazia repubblicana
Per queste ragioni sollecitiamo un approccio meditato nella direzione indicata dai principi costituzionali, ignorati e traditi per più aspetti nella normativa in discussione in Parlamento.
In effetti, la riforma progettata dal Governo non si propone una scuola aperta a tutti, istituita dallo Stato in tutto il territorio nazionale per tutti gli ordini e gradi, in cui si assicuri con il massimo di estensione ed una gratuità effettiva l’obbligo di istruirsi coessenziale all’essere cittadini consapevoli; una scuola che sia mezzo per superare gli ostacoli frapposti all’uguaglianza e alla libertà, per far convivere le diversità, per rompere la calcificazione della provenienza economica e sociale dei singoli, premiando impegno e capacità effettivamente accertate. In altre parole: una scuola effettivamente democratica.
La ricostruzione del patto fra scuola e società, oggi andato in frantumi, può essere ottenuta solo attraverso un ingente investimento politico e finanziario, pur nella contingenza data, che riallinei l’Italia almeno agli standard medi dei Paesi Ocse, invertendo la tendenza ad una forte riduzione delle risorse umane e professionali affermatasi sin dalla fine dello scorso decennio.
Tra i tanti, segnaliamo tre aspetti fondamentali che dovrebbero ispirare qualsiasi tentativo di ripristino della “buona scuola”: restituire prestigio sociale e morale alla professione docente; rilanciare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in funzione della promozione della libertà di insegnamento, come espressione di una più ampia libertà dell’arte e della scienza, e della libertà di apprendere degli studenti; rafforzare le relazioni tra la scuola e l’ambiente sociale, economico e culturale in cui opera.
Solo il recupero di senso della professione docente è in grado di realizzare una effettiva libertà di insegnamento, consentendo a coloro che sono chiamati a tale delicatissimo compito di assolverlo adeguatamente, cogliendo gli stimoli provenienti dal contesto sociale e culturale all’interno di un percorso di aggiornamento continuo e di verifica della professionalità. Non c’è al riguardo, nella normativa all’attenzione del Parlamento, nulla di sostanzialmente nuovo, se non l’ennesimo tentativo di rimescolare le carte, per aggirare le conseguenze della severa condanna subita dall’Italia in Europa per il trattamento degli insegnanti “precari”.
Quanto alla realizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, essa è da intendersi come una desiderabile declinazione della autodeterminazione delle singole scuole in relazione al contesto sociale nel quale sono inserite. E’ da riporre mano alla gestione collegiale della scuola, per garantire in modo efficace l’effettiva e libera partecipazione di ogni sua componente, nel rispetto delle rispettive competenze e dei ruoli di ciascuna di esse (insegnanti, studenti, dirigenti e Ata). E’ sbagliato e paradossale considerare realizzata l’autonomia scolastica puntando, come punta il Governo, sulla centralità della figura del dirigente scolastico. Con la pervicace riproposizione anche a questo livello di un modello organizzativo incentrato sulla figura del capo che detta e realizza i suoi indirizzi. Si tratta di un modello incompatibile con il principio dell’autonomia delle scuole, perché ripropone il vecchio e fallimentare centralismo e crea il presupposto per la deresponsabilizzazione del personale e la realizzazione di una filiera di comando che rimanda agli organi superiori. Il rilancio dell’autonomia non può invece prescindere dalla valorizzazione dell’offerta formativa, da realizzare anche attraverso la formazione continua del personale e la creazione di un serio e condiviso sistema di valutazione
Come sbagliato e riduttivo è il riassumere il rapporto tra istituzione scolastica e società in un’alternanza tra scuola e lavoro la quale si risolva, come consente il progetto governativo, nel tramutare temporaneamente gli studenti in lavoratori generici e senza diritti, per la messa a disposizione delle imprese di manodopera a costo basso o nullo. Occorre, viceversa, non solo garantire i diritti di chi lavora per studiare, istruirsi e formarsi, ma anche mettere in linea questo lavoro con obiettivi specifici, di cui spetta alla scuola la programmazione; così come occorre il rispetto e la promozione della fatica dei lavoratori-studenti, nonché la garanzia di una formazione ed istruzione permanente, per tutti i lavoratori.
Troppe volte, e in un brevissimo lasso di tempo, la scuola ha “subito riforme”: nel 1997, nel 2003, nel 2008.
L’invito è a prendersi cura della scuola, ritornando a perseguire l’idea di una sua autentica autonomia e libertà, alla quale ripugna ogni eccesso di burocratizzazione e di gerarchizzazione.
A tal riguardo, una domanda conclusiva: perché seguitare a finanziare direttamente o indirettamente le scuole private, favorendone la scelta in assenza di seri controlli sul loro operare ed i suoi effetti, quando non si riesce ad assolvere l’obbligo di sostenere adeguatamente le scuole pubbliche? In realtà, incentivare la frequenza di scuole private, e per giunta affidarsi a finanziamenti privati anche per le scuole pubbliche, vuol dire coltivare l’idea, da respingere come incompatibile con la Costituzione, che oramai si debba rinunciare alla scuola di tutti e di ciascuno. Si tratterebbe di una vera e propria resa della democrazia repubblicana
Nessun commento:
Posta un commento