Da anni si parla ovunque e troppo di cibo. Attorno al comparto
alimentare, alle sue dinamiche produttive e distributive come al suo
immaginario e alla sua narrazione, si gioca una partita decisiva fatta
di deregulation e retorica del chilometro zero, svendita dei beni
comuni, ricostruzione di identità locali e invenzione delle tradizioni.
Giuliano Santoro promuove e stimola un dialogo ricco e serrato tra due
autori e due punti vista profondamente diversi: Nicola Fiorita del
collettivo Lou Palanca e presidente di Slow Food Calabria e Wolf
Bukowski, autore dell’ottimo “La danza delle mozzarelle. Slow Food,
Eataly, Coop e la loro narrazione“. Quanto è andata avanti la
“colonizzazione dello spazio semantico” della “sostenibilità” e del
“territorio”? Fino a che punto la “narrazione” di Farinetti,
l’imprenditore simbolo del modello renziano, si è tramutata in “spam”,
nel senso di ciarpame pubblicitario e in quello (originario) di junk
food in scatola?
di Giuliano Santoro* - Sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore dello scorso 17 maggio, Roberto Napoletano ha raccontato la sua visita all’Expo milanese. Il direttore del giornale confindustriale descrive una cena movimentata alla “Trattoria Italia”, “dove tutte le regioni del Bel Paese sono rappresentate con le loro pietanze caratteristiche e i loro chef migliori”. Dopo un piatto di trofie al pesto nell’area occupata dalla cucina ligure, l’avventore decide di “scendere a sud” limitandosi ad “attraversare la strada”. Scopre che nonostante l’orario di chiusura sia prossimo, gli osti di Sardegna e Calabria interpretano le regole in maniera più rilassata e servono ancora ai tavoli. “Mi viene da ridere, ma mi trattengo, scegliamo un piatto povero della Calabria fatto di pane duro bagnato, olive nere pomodorini e molto altro, odori contadini pieni”, scrive con un tocco di orientalismo circa le caratteristiche dei piatti e la capacità di interpretare le regole in maniera elastica dei ristoratori.
Questo editoriale coglie la questione del cibo e tutto ciò che le ruota attorno. Ormai da anni si parla ovunque di cibo: ricette nei telegiornali, nelle classifiche dei libri e nei reality show, nelle metafore dei politici. “Non c’è la crisi perché i ristoranti sono pieni”. “Nonostante la crisi abbiamo la cucina migliore del mondo”. “Dobbiamo spendere per il cibo invece che per i telefonini”. Patti della crostata per benedire riforme istituzionali. Attovagliamenti nei salotti cafonal. Alemanno che imbocca Bossi per siglare la pace della pajata del centrodestra. Renzi che ordina la pizza a domicilio a Palazzo Chigi. Conte che lascia la panchina della Juve perché la Campions League è come un ristorante da 100 euro al quale non ci si siede con pochi spicci. È tutto un magna magna. La fame e l’arretratezza dei piatti tradizionali trasloca nella vetrina ipermoderna, diventa anzi l’ultimo terreno di conquista dell’economia sulla società.
Sia chiaro: non abbiamo nessuna intenzione di diventare anoressici per combattere la bulimia che ci circonda. Ma è venuto il momento di mettere i piedi nel piatto. Attorno al comparto alimentare, alle sue dinamiche produttive e distributive come al suo immaginario e alla sua narrazione, si sta giocando una partita importantissima fatta al tempo stesso di deregulation e retorica del chilometro zero, svendita dei beni comuni, ricostruzione di identità locali e invenzione delle tradizioni. Wolf Bukowski ne La danza delle mozzarelle racconta di come Oscar Farinetti abbia recuperato un certo tipo di discorso “slow” che nasce a sinistra e nei cruciali Ottanta (anni di controrivoluzioni e di perversione del desiderio in consumo) per gettarlo in pasto da monopolista alle reti della grande distribuzione. Nicola Fiorita è un giurista, insegna all’Università della Calabria; è un narratore, membro del collettivo Lou Palanca che da poco ha sfornato Ti ho vista che ridevi, romanzo che ha molto a che fare con questi temi; è presidente di Slow Food Calabria. Li abbiamo messi a confronto per capire fino a che punto quel mondo è stato fagocitato. E allora cominciamo chiedendo loro: quanto è progredita quella che Wolf chiama “colonizzazione dello spazio semantico” della “sostenibilità” e del “territorio”? Che spazi di conflitto reale ci sono dentro questo recinto che se non fosse una parola ormai abusatissima definirei “ambivalente”? Fino a che punto la “narrazione” di Farinetti si è tramutata in “spam”, nel senso di ciarpame pubblicitario e in quello (originario) di junk food in scatola?
Lo sgombero di Eat The Rich in via Alessandrini, Bologna, mattina del 23 maggio 2015.
Wolf. Vorrei partire da un paio di recenti vicende bolognesi. In due diversi giorni di maggio i compagni e le compagne della rete di cucine popolari Eat the Rich hanno cercato di occupare spazi inutilizzati. Il primo è un ufficio vendita di appartamenti costosi nel quartiere popolare della Bolognina. L’elegante baracchino è chiuso da un anno e mezzo perché le vendite sono ferme. I cantieri stanno ripartendo solo adesso grazie a generosi finanziamenti del Comune, insomma con soldi pubblici. Il secondo è uno stabile di proprietà di Intesa Sanpaolo, una delle banche più tossiche immaginabili: banca di Expo e delle autostrade “connesse a Expo”, finanziatrice di Grandi Opere e istituto di riferimento di Confagricoltura, la sola organizzazione di settore che si schieri a favore degli Ogm. Ma Intesa Sanpaolo è anche partner ufficiale di Slow Food, Salone del Gusto, Terra Madre eccetera. Partner ufficiale e fagocitante, per rispondere alla prima domanda. Scopo delle occupazioni di Eat the Rich era, dichiaratamente, quello di creare cucine autogestite che rendessero “accessibile a tutt* un pasto buono, genuino e libero dallo sfruttamento del territorio e del lavoro” usando prodotti dell’agricoltura di prossimità e creando il nodo di una logistica alternativa per i prodotti che vengono da più lontano. Se ci limitiamo quindi alle parole, beh, queste sembrano effettivamente le stesse di Slow Food o dei Gas più innocui (quelli che si illudono di cambiare il capitalismo creando una nicchia di mercato “etico”), quando non addirittura quelle delle linee di prodotti “socialmente responsabili” della Grande Distribuzione Organizzata. Ma se queste parole sono pronunciate nel conflitto territoriale, nella lotta per l’agibilità sociale e politica delle città, la polarità del loro significato si definisce e punta decisa verso la trasformazione sociale. I poteri politici, istituzionali ed economici, che in questa fase storica vivono una convergenza opprimente, lo sanno benissimo, se ne accorgono subito. Sanno che “chilometro zero” detto dalla mensa popolare autogestita non significa lo stesso di “chilometro zero” esibito da un cartellino nell’ipermercato. Entrambe le occupazioni di cui ho raccontato vengono sgomberate in poche ore e i locali sono restituiti all’inutilità, al non-uso, all’essere mero totem del diritto di proprietà e di speculazione immobiliare. Ma dimostrano che la “decolonizzazione del campo semantico” si fa in strada, muovendosi tra i bisogni sociali di produttori e mangiatori di cibo.
di Giuliano Santoro* - Sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore dello scorso 17 maggio, Roberto Napoletano ha raccontato la sua visita all’Expo milanese. Il direttore del giornale confindustriale descrive una cena movimentata alla “Trattoria Italia”, “dove tutte le regioni del Bel Paese sono rappresentate con le loro pietanze caratteristiche e i loro chef migliori”. Dopo un piatto di trofie al pesto nell’area occupata dalla cucina ligure, l’avventore decide di “scendere a sud” limitandosi ad “attraversare la strada”. Scopre che nonostante l’orario di chiusura sia prossimo, gli osti di Sardegna e Calabria interpretano le regole in maniera più rilassata e servono ancora ai tavoli. “Mi viene da ridere, ma mi trattengo, scegliamo un piatto povero della Calabria fatto di pane duro bagnato, olive nere pomodorini e molto altro, odori contadini pieni”, scrive con un tocco di orientalismo circa le caratteristiche dei piatti e la capacità di interpretare le regole in maniera elastica dei ristoratori.
Questo editoriale coglie la questione del cibo e tutto ciò che le ruota attorno. Ormai da anni si parla ovunque di cibo: ricette nei telegiornali, nelle classifiche dei libri e nei reality show, nelle metafore dei politici. “Non c’è la crisi perché i ristoranti sono pieni”. “Nonostante la crisi abbiamo la cucina migliore del mondo”. “Dobbiamo spendere per il cibo invece che per i telefonini”. Patti della crostata per benedire riforme istituzionali. Attovagliamenti nei salotti cafonal. Alemanno che imbocca Bossi per siglare la pace della pajata del centrodestra. Renzi che ordina la pizza a domicilio a Palazzo Chigi. Conte che lascia la panchina della Juve perché la Campions League è come un ristorante da 100 euro al quale non ci si siede con pochi spicci. È tutto un magna magna. La fame e l’arretratezza dei piatti tradizionali trasloca nella vetrina ipermoderna, diventa anzi l’ultimo terreno di conquista dell’economia sulla società.
Sia chiaro: non abbiamo nessuna intenzione di diventare anoressici per combattere la bulimia che ci circonda. Ma è venuto il momento di mettere i piedi nel piatto. Attorno al comparto alimentare, alle sue dinamiche produttive e distributive come al suo immaginario e alla sua narrazione, si sta giocando una partita importantissima fatta al tempo stesso di deregulation e retorica del chilometro zero, svendita dei beni comuni, ricostruzione di identità locali e invenzione delle tradizioni. Wolf Bukowski ne La danza delle mozzarelle racconta di come Oscar Farinetti abbia recuperato un certo tipo di discorso “slow” che nasce a sinistra e nei cruciali Ottanta (anni di controrivoluzioni e di perversione del desiderio in consumo) per gettarlo in pasto da monopolista alle reti della grande distribuzione. Nicola Fiorita è un giurista, insegna all’Università della Calabria; è un narratore, membro del collettivo Lou Palanca che da poco ha sfornato Ti ho vista che ridevi, romanzo che ha molto a che fare con questi temi; è presidente di Slow Food Calabria. Li abbiamo messi a confronto per capire fino a che punto quel mondo è stato fagocitato. E allora cominciamo chiedendo loro: quanto è progredita quella che Wolf chiama “colonizzazione dello spazio semantico” della “sostenibilità” e del “territorio”? Che spazi di conflitto reale ci sono dentro questo recinto che se non fosse una parola ormai abusatissima definirei “ambivalente”? Fino a che punto la “narrazione” di Farinetti si è tramutata in “spam”, nel senso di ciarpame pubblicitario e in quello (originario) di junk food in scatola?
Lo sgombero di Eat The Rich in via Alessandrini, Bologna, mattina del 23 maggio 2015.
Wolf. Vorrei partire da un paio di recenti vicende bolognesi. In due diversi giorni di maggio i compagni e le compagne della rete di cucine popolari Eat the Rich hanno cercato di occupare spazi inutilizzati. Il primo è un ufficio vendita di appartamenti costosi nel quartiere popolare della Bolognina. L’elegante baracchino è chiuso da un anno e mezzo perché le vendite sono ferme. I cantieri stanno ripartendo solo adesso grazie a generosi finanziamenti del Comune, insomma con soldi pubblici. Il secondo è uno stabile di proprietà di Intesa Sanpaolo, una delle banche più tossiche immaginabili: banca di Expo e delle autostrade “connesse a Expo”, finanziatrice di Grandi Opere e istituto di riferimento di Confagricoltura, la sola organizzazione di settore che si schieri a favore degli Ogm. Ma Intesa Sanpaolo è anche partner ufficiale di Slow Food, Salone del Gusto, Terra Madre eccetera. Partner ufficiale e fagocitante, per rispondere alla prima domanda. Scopo delle occupazioni di Eat the Rich era, dichiaratamente, quello di creare cucine autogestite che rendessero “accessibile a tutt* un pasto buono, genuino e libero dallo sfruttamento del territorio e del lavoro” usando prodotti dell’agricoltura di prossimità e creando il nodo di una logistica alternativa per i prodotti che vengono da più lontano. Se ci limitiamo quindi alle parole, beh, queste sembrano effettivamente le stesse di Slow Food o dei Gas più innocui (quelli che si illudono di cambiare il capitalismo creando una nicchia di mercato “etico”), quando non addirittura quelle delle linee di prodotti “socialmente responsabili” della Grande Distribuzione Organizzata. Ma se queste parole sono pronunciate nel conflitto territoriale, nella lotta per l’agibilità sociale e politica delle città, la polarità del loro significato si definisce e punta decisa verso la trasformazione sociale. I poteri politici, istituzionali ed economici, che in questa fase storica vivono una convergenza opprimente, lo sanno benissimo, se ne accorgono subito. Sanno che “chilometro zero” detto dalla mensa popolare autogestita non significa lo stesso di “chilometro zero” esibito da un cartellino nell’ipermercato. Entrambe le occupazioni di cui ho raccontato vengono sgomberate in poche ore e i locali sono restituiti all’inutilità, al non-uso, all’essere mero totem del diritto di proprietà e di speculazione immobiliare. Ma dimostrano che la “decolonizzazione del campo semantico” si fa in strada, muovendosi tra i bisogni sociali di produttori e mangiatori di cibo.
Nessun commento:
Posta un commento