«Non si è rotto niente, tanto meno l’inesistente patto della
playstation: com’è noto quando abbiamo giocato alla playstation fra
me e Renzi si è consumato il momento di massimo conflitto». Prova a
buttarla in battuta il presidente del Pd Matteo Orfini quando gli
si chiede del gelo sceso fra lui e Matteo Renzi sul caso Roma. Ma,
messo da parte il malumore, anche lui si sta preparando a mollare il
sindaco Marino? Qui la risposta si fa seria. «Valuteremo tutti
insieme dopo la relazione del prefetto Franco Gabrielli. A quel punto
si farà una verifica politica. Se Marino è in grado di rilanciare il
governo di Roma, andrà avanti. Ma su queste cose mi rifiuto di fare
battute. Non è solo un problema di stile. Il governo della Capitale è
una cosa seria». È un giudizio secco sul segretario.
Il tema, però, ormai sul tavolo del Nazareno. Il prefetto potrebbe decidere entro una settimana. Orfini è sicuro che non proporrà lo scioglimento del Campidoglio per mafia. Quindi è solo questione di tempo, ma per la permanenza di Marino alla guida della Capitale ormai è scattato un conto alla rovescia. Sarà difficile fermarlo. Il presidente però nega. «Marino non resta o va via perché lo decide Orfini o Renzi, la sua fonte di legittimazione sono i cittadini che lo hanno votato ed eletto»; «Il Pd non ha mollato Marino, che ha vinto le primarie, è stato eletto dai cittadini, e ha il dovere di governare questa città»; «Renzi ha detto chiaramente a Marino: dicci se te la senti. E io credo che sia un dovere raccogliere questa sfida», argomenta in mattinata nella conferenza stampa della festa del Pd di Roma. Che inizia il 19 con la relazione sullo stato del partito romano di Fabrizio Barca. Il 21 poi ospite d’onore sarà il sindaco, e lì, all’applausometro, si sentirà il polso della base Pd.
Invece nel Transatlantico della camera tira tutta un’altra aria fra i giovani turchi, i compagni del presidente. Consegnare Roma a un commissario «è una follia» è la sentenza che circola a mezza bocca. E stavolta non si tratta solo di quelli che ormai Renzi chiama «i Fassina e i D’Attorre», eleggendo i due dissenzienti a una categoria politica e forse anche dello spirito. A non condividere la linea autosfascista di Renzi stavolta è un pezzo della maggioranza Pd e precisamente la sinistra renzista che turandosi il naso ha sostenuto il segretario nelle indigeribili crociate del jobs act, delle riforme, dell’Italicum. Che ha difeso regole delle primarie indifendibili e che ora improvvisamente Renzi rottama senza neanche peritarsi di diramare il contrordine. A onor di cronaca il primo a dare un segnale di indipendenza, se non di insofferenza, era stato il ministro Andrea Orlando. All’indomani della sconfitta delle regionali liguri sul Corsera aveva parlato di «superamento del partito della nazione», «un’idea ambigua, addirittura pericolosa». Ora il benservito a Marino, pronunciato da Renzi all’improvviso, nelle stesse ore in cui Orfini era impegnato a rassicurare il sindaco — molto agitato — ha peggiorato la situazione. E forse potrebbero cambiare la geografia interna del Pd.
Renzi ha in mente una road map: come Penelope, disfare la tela faticosamente tessuta dal commissario Orfini in questi mesi, sfiduciare Marino, consegnare la città al prefetto nel momento dell’organizzazione del Giubileo, e arrivare al voto in primavera insieme alle altre grandi città (Milano, Torino, Genova, Napoli, Cagliari). Per questo meglio divorziare subito da Marino che dai giorni dei nuovi arresti non è riuscito neanche a riunire la sua maggioranza, incerto su come affrontare il terremoto del Pd romano. Per far saltare la giunta c’è chi confida nelle fibrillazioni di Sel: il partito di Vendola ieri ha tenuto un’assemblea aperta con i suoi consiglieri comunali e oggi riunirà i dirigenti romani. Il clima fra gli elettori di sinistra del sindaco è pessimo.
Al momento del voto, poi, dio vedrà e provvederà: cioè Renzi. Potrebbe scegliere, stavolta senza primarie, fra lo stesso Gabrielli o il renziano atipico (e radicale) Giachetti, per ora renitente alla leva. Insomma, questo sarebbe il piano per salvare Roma autoaffondandosi in Campidoglio. Che però in molti definiscono «una follia», «un regalone a Grillo».
Il tema, però, ormai sul tavolo del Nazareno. Il prefetto potrebbe decidere entro una settimana. Orfini è sicuro che non proporrà lo scioglimento del Campidoglio per mafia. Quindi è solo questione di tempo, ma per la permanenza di Marino alla guida della Capitale ormai è scattato un conto alla rovescia. Sarà difficile fermarlo. Il presidente però nega. «Marino non resta o va via perché lo decide Orfini o Renzi, la sua fonte di legittimazione sono i cittadini che lo hanno votato ed eletto»; «Il Pd non ha mollato Marino, che ha vinto le primarie, è stato eletto dai cittadini, e ha il dovere di governare questa città»; «Renzi ha detto chiaramente a Marino: dicci se te la senti. E io credo che sia un dovere raccogliere questa sfida», argomenta in mattinata nella conferenza stampa della festa del Pd di Roma. Che inizia il 19 con la relazione sullo stato del partito romano di Fabrizio Barca. Il 21 poi ospite d’onore sarà il sindaco, e lì, all’applausometro, si sentirà il polso della base Pd.
Invece nel Transatlantico della camera tira tutta un’altra aria fra i giovani turchi, i compagni del presidente. Consegnare Roma a un commissario «è una follia» è la sentenza che circola a mezza bocca. E stavolta non si tratta solo di quelli che ormai Renzi chiama «i Fassina e i D’Attorre», eleggendo i due dissenzienti a una categoria politica e forse anche dello spirito. A non condividere la linea autosfascista di Renzi stavolta è un pezzo della maggioranza Pd e precisamente la sinistra renzista che turandosi il naso ha sostenuto il segretario nelle indigeribili crociate del jobs act, delle riforme, dell’Italicum. Che ha difeso regole delle primarie indifendibili e che ora improvvisamente Renzi rottama senza neanche peritarsi di diramare il contrordine. A onor di cronaca il primo a dare un segnale di indipendenza, se non di insofferenza, era stato il ministro Andrea Orlando. All’indomani della sconfitta delle regionali liguri sul Corsera aveva parlato di «superamento del partito della nazione», «un’idea ambigua, addirittura pericolosa». Ora il benservito a Marino, pronunciato da Renzi all’improvviso, nelle stesse ore in cui Orfini era impegnato a rassicurare il sindaco — molto agitato — ha peggiorato la situazione. E forse potrebbero cambiare la geografia interna del Pd.
Renzi ha in mente una road map: come Penelope, disfare la tela faticosamente tessuta dal commissario Orfini in questi mesi, sfiduciare Marino, consegnare la città al prefetto nel momento dell’organizzazione del Giubileo, e arrivare al voto in primavera insieme alle altre grandi città (Milano, Torino, Genova, Napoli, Cagliari). Per questo meglio divorziare subito da Marino che dai giorni dei nuovi arresti non è riuscito neanche a riunire la sua maggioranza, incerto su come affrontare il terremoto del Pd romano. Per far saltare la giunta c’è chi confida nelle fibrillazioni di Sel: il partito di Vendola ieri ha tenuto un’assemblea aperta con i suoi consiglieri comunali e oggi riunirà i dirigenti romani. Il clima fra gli elettori di sinistra del sindaco è pessimo.
Al momento del voto, poi, dio vedrà e provvederà: cioè Renzi. Potrebbe scegliere, stavolta senza primarie, fra lo stesso Gabrielli o il renziano atipico (e radicale) Giachetti, per ora renitente alla leva. Insomma, questo sarebbe il piano per salvare Roma autoaffondandosi in Campidoglio. Che però in molti definiscono «una follia», «un regalone a Grillo».
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