martedì 30 giugno 2015

Una pressione fiscale intollerabile

L’Italia ha “una pressione fiscale difficilmente tollerabile. L’affannata ricerca di risultati si è tradotta, tra il 2008 e il 2014, nell’adozione di oltre 700 misure di intervento in materia fiscale, di aggravio o di sgravio del prelievo.”. È la denuncia della Corte dei Conti in occasione del giudizio sul rendiconto generale dello Stato 2014. La pressione fiscale è stata nel 2014 pari al 43,5% del Pil, 1,7 punti in più sulla media Ue.
Anche a causa delle troppe tasse, l’economia italiana, ma anche quella europea, sono in una fase di “ristagno, stagnazione”. L’Italia si colloca ormai ai vertici mondiali per carico fiscale, sia sulle famiglie sia sulle imprese. Se nei prossimi anni l’Italia non cambia passo, il futuro non promette bene.
“Al termine del 2014, la pressione fiscale è stata pari al 43,5%, di poco più elevata di quella del 2013 (43,4%) soprattutto per il maggior gettito delle imposte indirette. L’aumento è dovuto, pressoché esclusivamente, alla componente di competenza delle amministrazioni locali. Al riguardo, va evidenziato che la pressione fiscale continua a rimanere elevata nel confronto internazionale, con un divario, che permane nel 2014, di 1,7 punti percentuali di prodotto rispetto alla media degli altri Paesi dell’area euro.
Difficilmente il sistema economico potrebbe sopportare ulteriori aumenti della pressione fiscale. Prioritaria appare, semmai, la necessità di un intervento di segno opposto, volto a restituire capacità di spesa a famiglie e imprese. Una direzione effettivamente intrapresa nel corso del 2014, con i provvedimenti volti a ridurre il cuneo fiscale sul costo del lavoro. Rientra fra questi, nelle intenzioni del Governo, il bonus erogato alle famiglie, che le regole contabili hanno però portato a iscrivere come maggiore spesa per prestazioni sociali. Certamente a riduzione del cuneo vanno le misure di esclusione del costo del lavoro dalla base imponibile IRAP e di decontribuzione per i nuovi assunti, che costituiscono punti qualificanti della legge di stabilità 2015. La contemporanea azione sui redditi delle famiglie e sui costi delle imprese punta a rilanciare la domanda aggregata, sostenendo i consumi delle prime e la competitività delle seconde: impulsi che potranno trovare alimento addizionale in un contesto di recupero già avviato della congiuntura, favorendo quell’ambiente macroeconomico espansivo che è indispensabile per un effettivo allentamento della pressione fiscale. Ma se la prospettiva di una pressione fiscale che resti sull’attuale elevato livello appare difficilmente tollerabile, anche sul fronte della spesa i margini d’azione sono meno ampi di quanto la percezione comune ritiene. Le stesse analisi condotte per la Relazione oggi resa pubblica confermano la difficoltà di realizzare pienamente il programma di spending review, a motivo degli ampi risparmi già conseguiti per le componenti più flessibili (redditi da lavoro e consumi intermedi) e per il permanere di un elevato grado di rigidità nella dinamica delle prestazioni sociali.
Gli obiettivi di razionalizzazione degli enti pubblici statali e di riduzione dei loro costi di funzionamento sono targets ormai ricorrenti da quasi un quindicennio, anche se assumono un rilievo più pronunciato in una fase di riequilibrio strutturale dei conti pubblici. Un’indagine, effettuata dalla Corte, ha evidenziato la sussistenza di 320 soggetti pubblici, comunque denominati, istituiti, controllati e finanziati dai ministeri e 165 fra loro hanno comportato, un onere finanziario, per lo Stato, ammontante a circa 25 miliardi per il 2013 e a 20 miliardi per il 2014. La Corte ha, altresì, evidenziato come la spesa per il personale di tali enti sia sensibilmente superiore rispetto a quella dei ministeri.
In definitiva, un deciso intervento su tutta la spesa pubblica improduttiva potrà consentire quella riduzione e il riequilibrio della pressione fiscale, a livello statale e locale, di cui, da più parti, si reclama la necessità”.

lunedì 29 giugno 2015

Padoan: stop negoziati "fulmine a ciel sereno". Italia esposta per 34,7 miliardi

Il crac del debito greco non dovrebbe avere conseguenze su quello italiano perché è già tutto contabilizzato: "10,2 miliardi di prestiti bilaterali e 27,2 di contributi al fondo".
Lo ha dichiarato il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, che ha definito "un fulmine a ciel sereno" la decisione del governo ellenico di indire un referendum e di votare no contro le misure di austerity chieste dai creditori internazionali.
Il fatto che la Bce continui a finanziarie le banche greche con fondi di emergenza prelevando dalle risorse del canale ELA, secondo l'ex funzionario dell'Ocse, è un segnale positivo dell'intenzione di trovare ancora un accordo.
"Non mi stupirei ma nemmeno mi preoccuperei più di tanto se sui mercati ci fosse un aumento della volatilità. La Bce ha tutti gli strumenti a disposizione per fronteggiarla", ha aggiunto Padoan.
Lo stesso presidente francese Francois Hollande ha detto che Parigi è disposta a parlare con Atene e trovare un accordo prima che sia troppo tardi. Domani, martedì 30 giugno, è la data ultima per rimborsare il prestito da 1,6 miliardi che la Grecia deve all'Fmi.
Per il capo del Tesoro il problema è stato tergiversare per quattro mesi " durante i quali si è perso molto tempo. Da parte greca non si mandavano ai tavoli gli staff per discutere delle misure. Soltanto nelle ultime due settimane si è cominciato a entrare nel merito".
"Il mandato era quello di trovare un accordo. Tanto è vero che su molti aspetti erano stati fatti passi avanti importanti anche da parte dei greci. Certo, il governo Tsipras aveva un atteggiamento diverso rispetto al precedente, che era molto più collaborativo e sotto il quale l'economia era un po' migliorata".
In realtà una speranza c'è ancora per evitare il default totale del debito. È un'ipotesi di cui si parla, ma non abbastanza, sui media: che sia la Russia a intervenire in soccorso di Atene. Nonostante la crisi economica recente, Mosca avrebbe i soldi e il petrolio per permettere alla Grecia di rimanere finanziariamente a galla.
Un'altra 'wild card' potrebbero essere gli Stati Uniti, che proprio per impedire di perdere un alleato della Nato e di rafforzare l'influenza russa in Europa, potrebbero fare qualcosa con una mossa all'ultimo secondo.

domenica 28 giugno 2015

Il cibo, il consumo e il conflitto

Da anni si parla ovunque e troppo di cibo. Attorno al comparto alimentare, alle sue dinamiche produttive e distributive come al suo immaginario e alla sua narrazione, si gioca una partita decisiva fatta di deregulation e retorica del chilometro zero, svendita dei beni comuni, ricostruzione di identità locali e invenzione delle tradizioni. Giuliano Santoro promuove e stimola un dialogo ricco e serrato tra due autori e due punti vista profondamente diversi: Nicola Fiorita del collettivo Lou Palanca e presidente di Slow Food Calabria e Wolf Bukowski, autore dell’ottimo “La danza delle mozzarelle. Slow Food, Eataly, Coop e la loro narrazione“. Quanto è andata avanti la “colonizzazione dello spazio semantico” della “sostenibilità” e del “territorio”? Fino a che punto la “narrazione” di Farinetti, l’imprenditore simbolo del modello renziano, si è tramutata in “spam”, nel senso di ciarpame pubblicitario e in quello (originario) di junk food in scatola?
di Giuliano Santoro* - Sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore dello scorso 17 maggio, Roberto Napoletano ha raccontato la sua visita all’Expo milanese. Il direttore del giornale confindustriale descrive una cena movimentata alla “Trattoria Italia”, “dove tutte le regioni del Bel Paese sono rappresentate con le loro pietanze caratteristiche e i loro chef migliori”. Dopo un piatto di trofie al pesto nell’area occupata dalla cucina ligure, l’avventore decide di “scendere a sud” limitandosi ad “attraversare la strada”. Scopre che nonostante l’orario di chiusura sia prossimo, gli osti di Sardegna e Calabria interpretano le regole in maniera più rilassata e servono ancora ai tavoli. “Mi viene da ridere, ma mi trattengo, scegliamo un piatto povero della Calabria fatto di pane duro bagnato, olive nere pomodorini e molto altro, odori contadini pieni”, scrive con un tocco di orientalismo circa le caratteristiche dei piatti e la capacità di interpretare le regole in maniera elastica dei ristoratori.
Questo editoriale coglie la questione del cibo e tutto ciò che le ruota attorno. Ormai da anni si parla ovunque di cibo: ricette nei telegiornali, nelle classifiche dei libri e nei reality show, nelle metafore dei politici. “Non c’è la crisi perché i ristoranti sono pieni”. “Nonostante la crisi abbiamo la cucina migliore del mondo”. “Dobbiamo spendere per il cibo invece che per i telefonini”. Patti della crostata per benedire riforme istituzionali. Attovagliamenti nei salotti cafonal. Alemanno che imbocca Bossi per siglare la pace della pajata del centrodestra. Renzi che ordina la pizza a domicilio a Palazzo Chigi. Conte che lascia la panchina della Juve perché la Campions League è come un ristorante da 100 euro al quale non ci si siede con pochi spicci. È tutto un magna magna. La fame e l’arretratezza dei piatti tradizionali trasloca nella vetrina ipermoderna, diventa anzi l’ultimo terreno di conquista dell’economia sulla società.
Sia chiaro: non abbiamo nessuna intenzione di diventare anoressici per combattere la bulimia che ci circonda. Ma è venuto il momento di mettere i piedi nel piatto. Attorno al comparto alimentare, alle sue dinamiche produttive e distributive come al suo immaginario e alla sua narrazione, si sta giocando una partita importantissima fatta al tempo stesso di deregulation e retorica del chilometro zero, svendita dei beni comuni, ricostruzione di identità locali e invenzione delle tradizioni. Wolf Bukowski ne La danza delle mozzarelle racconta di come Oscar Farinetti abbia recuperato un certo tipo di discorso “slow” che nasce a sinistra e nei cruciali Ottanta (anni di controrivoluzioni e di perversione del desiderio in consumo) per gettarlo in pasto da monopolista alle reti della grande distribuzione. Nicola Fiorita è un giurista, insegna all’Università della Calabria; è un narratore, membro del collettivo Lou Palanca che da poco ha sfornato Ti ho vista che ridevi, romanzo che ha molto a che fare con questi temi; è presidente di Slow Food Calabria. Li abbiamo messi a confronto per capire fino a che punto quel mondo è stato fagocitato. E allora cominciamo chiedendo loro: quanto è progredita quella che Wolf chiama “colonizzazione dello spazio semantico” della “sostenibilità” e del “territorio”? Che spazi di conflitto reale ci sono dentro questo recinto che se non fosse una parola ormai abusatissima definirei “ambivalente”? Fino a che punto la “narrazione” di Farinetti si è tramutata in “spam”, nel senso di ciarpame pubblicitario e in quello (originario) di junk food in scatola?
Lo sgombero di Eat The Rich in via Alessandrini, Bologna, mattina del 23 maggio 2015.
Wolf. Vorrei partire da un paio di recenti vicende bolognesi. In due diversi giorni di maggio i compagni e le compagne della rete di cucine popolari Eat the Rich hanno cercato di occupare spazi inutilizzati. Il primo è un ufficio vendita di appartamenti costosi nel quartiere popolare della Bolognina. L’elegante baracchino è chiuso da un anno e mezzo perché le vendite sono ferme. I cantieri stanno ripartendo solo adesso grazie a generosi finanziamenti del Comune, insomma con soldi pubblici. Il secondo è uno stabile di proprietà di Intesa Sanpaolo, una delle banche più tossiche immaginabili: banca di Expo e delle autostrade “connesse a Expo”, finanziatrice di Grandi Opere e istituto di riferimento di Confagricoltura, la sola organizzazione di settore che si schieri a favore degli Ogm. Ma Intesa Sanpaolo è anche partner ufficiale di Slow Food, Salone del Gusto, Terra Madre eccetera. Partner ufficiale e fagocitante, per rispondere alla prima domanda. Scopo delle occupazioni di Eat the Rich era, dichiaratamente, quello di creare cucine autogestite che rendessero “accessibile a tutt* un pasto buono, genuino e libero dallo sfruttamento del territorio e del lavoro” usando prodotti dell’agricoltura di prossimità e creando il nodo di una logistica alternativa per i prodotti che vengono da più lontano. Se ci limitiamo quindi alle parole, beh, queste sembrano effettivamente le stesse di Slow Food o dei Gas più innocui (quelli che si illudono di cambiare il capitalismo creando una nicchia di mercato “etico”), quando non addirittura quelle delle linee di prodotti “socialmente responsabili” della Grande Distribuzione Organizzata. Ma se queste parole sono pronunciate nel conflitto territoriale, nella lotta per l’agibilità sociale e politica delle città, la polarità del loro significato si definisce e punta decisa verso la trasformazione sociale. I poteri politici, istituzionali ed economici, che in questa fase storica vivono una convergenza opprimente, lo sanno benissimo, se ne accorgono subito. Sanno che “chilometro zero” detto dalla mensa popolare autogestita non significa lo stesso di “chilometro zero” esibito da un cartellino nell’ipermercato. Entrambe le occupazioni di cui ho raccontato vengono sgomberate in poche ore e i locali sono restituiti all’inutilità, al non-uso, all’essere mero totem del diritto di proprietà e di speculazione immobiliare. Ma dimostrano che la “decolonizzazione del campo semantico” si fa in strada, muovendosi tra i bisogni sociali di produttori e mangiatori di cibo.

venerdì 26 giugno 2015

I reazionari sessuofobici e la tecnica della bufala

Goebbels l’avrebbe detto quasi un secolo fa, in tempi ben lontani dall’esplosione delle comunicazioni di massa: «Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità». A quel tempo solo chi poteva disporre di un minimo di controllo sull’informazione, come Goebbels stesso, poteva sperare di diffondere efficacemente e, soprattutto, rapidamente un meme, che poi con il passare del tempo avrebbe potuto radicarsi sempre più diventando difficile da contrastare. Dice nulla il fatto che oggi sopravvivano dogmi religiosi tanto secolari, o addirittura millenari, quanto logicamente assurdi e anacronistici?
Oggi la possibilità di “forgiare una verità” è alla portata quasi di chiunque, basta avere un accesso a internet e un po’ di fortuna per vedere la propria pseudo verità diffondersi a macchia d’olio, come un virus informatico qualunque. Dipende da quanto si riesce a renderla credibile, plausibile, ma dipende anche dai canali attraverso cui viene veicolata, perché ve ne sono di frequentati da gente sensibile al dato argomento, e dunque adatti al contagio, come ve ne sono di scarsamente ricettivi. Ad esempio la bufala delle scie chimiche non potrebbe mai attecchire tra appassionati di fisica, mentre la lacrimazione di una Madonna avrebbe strada spianata in un contesto di devoti.
Cattolici o cattolicisti che gridano all’atten­tato contro la libertà dei genitori di educare
Prendiamo un caso concreto e attuale: l’educazione sessuale dei bambini. Attuale ma non troppo, visto che tutto parte da un documento di raccomandazioni redatto e diffuso nel 2013 nientemeno che dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si provi a eseguire una ricerca su internet riguardo a questo documento e si notino i risultati restituiti. È un fiorire di articoli su siti cattolici o cattolicisti che gridano all’atten­tato contro la libertà dei genitori di educare come meglio credono i propri figli, e allo stesso tempo puntano il dito verso chi invece vorrebbe creare, a loro dire, una società di sporcaccioni. Il quadro dipinto è grottesco: si lascia intendere che nelle scuole del futuro la maestra radunerà i bimbi dell’asilo in cerchio per sedute di masturbazione collettiva, mentre nelle adiacenti classi della primaria si impareranno le tecniche per adoperare correttamente il preservativo.
Alla secondaria si comincerà a darci dentro sul serio per finire poi con la fatidica domanda: scegli il tuo genere. Sì, perché poi si va a parare sempre lì, dove c’è quell’altra bufala della fantomatica “ideologia del gender” che ci vorrebbe tutti sessualmente intercambiabili, e dunque ognuno potrà scegliere di essere oggi maschio, domani femmina, dopodomani un ibrido qualunque o nessuna cosa. Ora, mettetevi per un attimo nei panni di chi è cresciuto con la paura che Dio misericordioso lo renda cieco per colpa di una mano malandrina, e con la certezza che alla prima allusione sbagliata gli sarebbe arrivato come minimo uno scapaccione. Un colpo troppo forte per lui. Non si parla di sesso coi bambini, ma scherziamo!? E poi, il papa ha detto che i preservativi Dio non li vuole, non vorremo mica dire che sbaglia? Lui, l’infallibile.
familydaygender
E se questo qualcuno fosse, che so, un dirigente scolastico che va a lamentarsi dalle famiglie? Potrà sembrare inverosimile ma è quello che purtroppo è veramente successo in un istituto scolastico di Roma. Turbata dalle linee guida dell’Oms, o più probabilmente dalle interpretazioni raccolte una domenica mattina qualunque, la prof.ssa Altieri ha preso carta e penna e ha deciso di scrivere alle famiglie dei suoi alunni. Mossa da “senso di responsabilità” (verso chi?) ha scritto un testo che potrebbe essere riassunto così: «Gentili genitori, la stampa non ne parla (Nda: il complottismo in queste cose è come il cacio sui maccheroni) ma sappiate che sta arrivando la teoria gender e che ai vostri figli verranno insegnate cose come masturbazione, pornografia, contraccettivi e diritto all’aborto. Lungi da me esprimere un giudizio, vi chiedo di informarvi su questo sito». Il sito segnalato risulta guarda caso essere quello del comitato organizzatore dell’ultima sedicente manifestazione pro famiglia, ma nella sola accezione del termine da essi concepibile, e quindi contro sesso gender e babau vari. Et voilà, l’allarme è lanciato, il posto in paradiso è prenotato e Cl sarà ben contenta.
Garantire che i bambini vengano educati in scienza prima ancora che in coscienza
Stavolta però il segno è stato passato. Una persona responsabile dell’istruzione dei futuri cittadini non può permettersi di portare i suoi moralismi all’interno dell’istituto che dirige, e soprattutto è tenuta a garantire che i bambini vengano educati in scienza prima ancora che in coscienza. Non il contrario. Il segno è stato passato anche per il sottosegretario all’istruzione Davide Faraone che ha già annunciato ispezioni sottolineando, anche lui, come la dirigente sia del tutto disinformata. Non sono solito augurare sanzioni drastiche ed esemplari, ma date le caratteristiche di questa vicenda mi auguro che la dirigente venga rimossa dal suo incarico, e che quindi eventuali raccomandazioni dei soliti noti a suo favore non sortiscano alcun effetto. E non per avere idee diverse dalle mie, a questo avrò pur fatto l’abitudine, ma perché la signora in questione ha dimostrato di non essere all’altezza del compito che le è stato assegnato. E poiché la sua incompetenza ha effetto su terzi, che nel nostro caso sono bambini senza alcuna difesa, è per il bene di tutti che la signora dovrebbe essere destinata ad altro.
Introdurre una sana educazione sessuale nelle scuole non è semplicemente auspicabile. È necessario. Con buona pace delle riserve di quanti pensano ancora, nel terzo millennio, in una società secolarizzata, che la sessualità sia roba di cui vergognarsi. La masturbazione infantile non è un’indecente novità, è una realtà conclamata e naturale. Nel vero senso della parola, non naturale come la loro famiglia. Come parimenti sono le gravidanze indesiderate tra gli adolescenti, come lo sono le malattie trasmissibili sessualmente, come lo è la violenza di genere. No, non di “gender”, dimenticate questo neo aggettivo introdotto artificiosamente e pretestuosamente. Parlo di violenza sessuale verso il genere femminile, ma anche verso gli omosessuali e i bambini, come dovrebbero ben conoscere i fedeli dell’organizzazione maggiormente colpita dallo scandalo della pedofilia. Parlo di tutte quelle cose che hanno ispirato il documento dell’Oms. Perché non si può nascondere la polvere sotto il tappeto e poi dire che è pulito.

giovedì 25 giugno 2015

DRAGHI: CRISI, SENZA EURO POTEVAMO ESSERE TRAVOLTI

Non è possibile prevedere le conseguenze per l’Eurozona di un mancato accordo con la Grecia. A dirlo il presidente della Banca centrale Europa, Mario Draghi, in audizione all’Europarlamento.

Anche se Eurolandia dispone di strumenti finanziari per affrontare l’eventuale uscita di Atene dalla valuta unica, si entrerebbe “in acque inesplorate”. “Serve un accordo forte e complessivo, e rapidamente”, ha detto Draghi. “La Bce sta facendo tutto quel che può per facilitare un accordo sul debito” greco dopo il crollo degli ultimi tentativi. Il premier greco Alexis Tsipras ha dichiarato a un quotidiano nazionale che aspetterà pazientemente finché i suoi creditori, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale ed Unione Europea – diventeranno “più realistici”.
Atene rifiuta di tagliare ancora il sistema pensionistico e di riformare il mercato del lavoro rendendo ancora più precario e malpagato il lavoro in Grecia e il sistema dell’Iva, aumentando indiscriminatamente l’IVA su tutti i generi alimentari, così da applicare una nuova devastante tassa sui poveri.

Il portavoce del governo greco Gabriel Sakellaridis assicura: “in nessun caso vogliamo parlare di un vicolo cieco, continuiamo a lavorare per una soluzione condivisa”. Ma dall’Ue come da Berlino tutti gli rispondono che adesso la palla è nella metà campo greca.
A Bruxelles, la portavoce della Commissione europea Annika Breidhardt ha voluto mettere i puntini sulle i. I resoconti sulle trattative, ha detto, sono fuorvianti: non si chiede ad esempio di tagliare le pensioni individuali, ma di innalzare l’età pensionabile, ben sapendo che non è vero che la Troika da solo questo ai greci, infatti viene chiesto il taglio un’altra volta delle indicizzazioni che hanno ridotto radicalmente le pensioni più basse. E non è vero, dice ancora la Breidhardt, che i creditori non abbiano fatto concessioni ad Atene: anzi dimostrano grande flessibilità, ma non spiega in cosa consisterebbe, questa sventolata sensibilità.
Ormai è una strada a senso unico. Il braccio di ferro continua fra la preoccupazione dei mercati, ad esempio Milano ha perso il due e mezzo per cento, Atene quasi il cinque, male tutte le piazze europee.

mercoledì 24 giugno 2015

"Il reato di tortura? Non è per la polizia"

Certe volte serve un ministro apposito per confermare quello che era - più che un sospetto - una certezza: il reatodi tirtura approvato dal Parlamento e voluto dal governo non serve a nulla. In ogni caso non per fermare le pratiche, diciamo così, "disinvolte" della polizia (tutte le molte polizie, non solo quella che porta questo nome).
Il ministro è ovviamente Angelino Alfano, leader temporaneo di una formazione che scomparirà dalla scena per le prossime elezioni, manel frattempo ministro di polizia. Pardon, dell'interno.
"Abbiamo fatto una battaglia perché ci fosse un reato proprio e specifico contro la tortura. Ma non deve essere concepito come un reato contro le forze di polizia". Parlava - è l'unica giustificazione accampabile - davanti a poliziotti riuniti e organizzati, ancorché in sindacato (Siulp e Fns-Cisl). L'argomentazione usata, però, non è affatto imputabile alla particolare occasione. Al contrario, è un vero programma di governo per la gestione dell'"ordine pubblico".
"Il caso Diaz è un capitolo chiuso - edire che la Corte di Strasburg ha appena condannato lo Stato italiano per quelle pratiche, l'assenza di un reato specifico e la fulminante carriere dei poliziotti di ogni grado coinvolti in quella vicenda - la polizia è sana, è un corpo democratico che abbiamo difeso e difenderemo sempre. Non è giusto rievocare spettri del passato ogni volta che accade qualcosa che non va".
Un normale cittadino europeo chiederebbe: la polizia è stata risanata come? più in specifico: gli agenti e i dirigenti condannati in via definitiva (definitiva, dopo il terzo grado di giudizio) sono stati licenziati o no? Se non lo sono stati (nessuno, nemmeno uno; anzi, sono stati tutti promossi più volte), in base a quale principio tutti gli altri componenti delle varie polizie dovebbero aver compreso che quelle torture di Genova sono una vergogna per un paese occidentale e soprattutto per i corpi militar-civili che le hanno praticate?
E' un principio elementare del pensiero giuridico, infatti: senza sanzione, non c'è vero ostacolo alla recidiva di pratiche ufficialmente condannate.
In secondo luogo: se non è un reato da polizia la tortura, chi mai altro potrebbe commetterlo? Nella casistica criminologica si danno pochissimi casi di tortura messa in atto da "privati". Il motivo è abbastanza semplice da capire: un essere umano può essere torturato sono se si trova sotto il "dominio pieno e incontrollato" dei suoi aguzzini. Il dolore fa urlare, in modo anche disumano. E per piegare la resistenza della vittima può esser necessario molto tempo; ore o più probabilmente giorni. Non è semplice costruire la "situazioni logistica" in cui un torturatore "privato" possa agire con la sicurezza di non esser colto sul fatto.
Al contrario, le caserme di ogni genere sono luoghi da sempre "privilegiati", perché non solo garantiscono luoghi distanti dal mondo civile, peraltro protetti da un corpo militare e armato; ma fanno conto anche sull'omertà, o spirito di corpo, "non metto nei guai un collega", ecc.
Insomma: nel 99,99% dei casi registrati, la tortura è un tipico reato da polizia (ripetiamo: anche da carabinieri, finanzieri, secondini, servizi segreti, ecc).
Alfano lo sa benissimo, naturalmente. Ma intende far capire esplicitamente a tutte le cosiddette "forze dell'ordine" che gli apparati dello Stato sotto il controllo di gente come lui continueranno a coprirli da ogni eventuale inchiesta giudiziaria. A garantire che quel testo, che definire manchevole è eufemistico, resterà sempre lettera morta.
Una difesa dell'"eccezionalità" della condizione poliziesca che resta in vigore anche su altri versanti. Non valgono per loro le riforme pensionistiche, né il blocco degli stipendi di cui soffre tutto il pubblico impiego dal oltre sei anni. E nemmeno i capitoli di spesa ordinari: Alfano ha rivendicato che in una congiuntura di tagli e di spending review "noi non solo non abbiamo il segno meno nel nostro comparto ma nel 2015 abbiamo fatto interventi che superano abbondantemente i cento milioni di euro".
Del resto, se non li pagate bene, perché mai dovrebbero difendervi?

martedì 23 giugno 2015

Caro Renzi: basta balle spaziali e numeri a caso sulla scuola!

Il livello di disinformazione raggiunto dal governo e dai "bravi" renziani ormai non ha precedenti, con uno stillicidio di numeri che non ha nessuna veridicità e che vengono utilizzati come clava per ottenere un consenso impossibile sul DDL Scuola. Il tentativo di spaccare il fronte della protesta, contrapponendo personale di ruolo e precario, non avrà alcun successo perché i tutti i lavoratori della scuola in lotta hanno raggiunto la piena consapevolezza che il progetto renziano di costruzione della scuola-azienda ci lascerà in eredità una scuola antidemocratica, fatta di logiche clientelari e padronali, in cui lavorare con onestà, dignità e qualità sarà impossibile.
Ma torniamo ai numeri, quelli veri !!
La pubblicazione, da parte degli ex provveditorati provinciali, dei movimenti legati ai trasferimenti e dei riepiloghi per ciascun ordine e grado dei posti vacanti e disponibili per il 2015-16, sul cosiddetto organico di diritto su cui ogni anno vengono effettuate le immissioni in ruolo o in subordine sottoscritti contratti al 31 agosto, sono chiarissimi:
Infanzia vacanti 3.400 posti, Comuni e 1.542 posti, Sostegno; Primaria vacanti 6.061 posti, Comuni e 6.012 posti Sostegno con 56 esuberi su posto comune; I Grado vacanti 8.333 posti Comuni e 6.216 posti Sostegno con 294 esuberi su posto comune; II Grado vacanti 8.848 posti Comuni e 3.730 posti Sostegno con 5.591 esuberi su posto comune.
Il totale dei posti vacanti e disponibili è pertanto pari a 26.642 posti Comuni e 17.500 posti sul sostegno, a cui si aggiunge l'incremento dei posti sul sostegno pari a 8.895 cattedre (terza e ultima tranche piano Carrozza), per un totale di posti di sostegno disponibili di 26.395.
Pertanto il totale dei posti liberi e disponibili da subito, senza ulteriori incrementi che ci potrebbero essere per l'organico di potenziamento, è pari a 53.037 posti di cui circa la metà su posti di sostegno (26.395).
Se a questi numeri aggiungiamo che il Miur ha attivato, per il 2014/2015, circa 80.000 supplenze fino al 30 giugno su posti comuni e circa 45.000 su sostegno, tra spezzoni e cattedre intere, si rende evidente come non ci sia alcuna necessità di un organico dell'autonomia o di potenziamento ma sarebbe sufficiente trasformare in immissioni in ruolo gli attuali posti disponibili.
Ci chiediamo da dove esca l'ultimo dato di appena 22000 immissioni in ruolo, proclamato da Renzi, in caso di non approvazione del DDL. Forse Renzi prevede di punire i precari per la loro lotta contro il DDL eliminando anche i 30.000 posti già presenti in organico di diritto dopo i trasferimenti?
Siamo stanchi di un governo che continua a utilizzare la minaccia e il ricatto per fermare il fronte di protesta unitario che si è creato contro la cattiva scuola renziana. Continueremo a lottare per l'immissione in ruolo di tutti i precari presenti nelle graduatorie ad esaurimento e per il ritiro del DDL scuola; non c'è bisogno di nessun organico dell'autonomia per le immissioni in ruolo, i posti ci sono e i precari li ricoprono da anni, convertirli subito e senza ricatti in posti a tempo indeterminato !!

lunedì 22 giugno 2015

Jobs Act: lavoratori controllati tramite pc e smartphone

Il governo ha approvato i decreti attuativi del Jobs Act: le aziende potranno effettuare controlli a distanza sui lavoratori usando impianti audiovisivi, tablet, smartphone o pc aziendali.
Lo scorso 11 giugno il governo ha approvato i decreti attuativi del Jobs Act che, oltre a rendere operativa la riforma del mercato del lavoro negli aspetti contrattuali, liquida un altro pezzo dello Statuto dei Lavoratori, l'art.4. Questo articolo prevedeva che le aziende non potessere controllare a distanza i lavoratori, se non nei casi in cui ci fosse stato l'accordo delle organizzazione sindacali.
Nel futuro invece non sarà necessario il via libera dei sindacati perchè l'azienda possa controllare l'attività, l'efficienza e la geolocalizzazione dei dipendenti tramite gli apparecchi elettronici (smartphone, tablet, pc aziendali...). I dati ottenuti in questo modo potranno essere utilizzati , purchè al lavoratore ne sia data adeguata informazione (?!). Inoltre le imprese potranno installare telecamere per il controllo a distanza, anche senza interpellare i rappresentanti dei lavoratori, ma solo con il benestare delle Direzioni del lavoro (che è un'articolazione del Ministero).
Da tempo è noto che il Jobs Act sia formalizzazione della condizione di precarietà e ricattabilità a vita che abbraccia la totalità del proletariato odierno; la recente manovra del governo sui decreti attuativi da alle aziende la possibilità di esercitare il controllo sull'attività del dipendente in maniera capillare e instantanea grazie ai mezzi della tecnologia. In questo modo la minaccia del licenziamento assumerà una concretezza che peserà su ogni attimo di lavoro, su ogni pausa o distrazione del lavoratore.

domenica 21 giugno 2015

Il ricatto per dividere i precari

Molti commenti, in questi giorni, si concentrano sull’atteggiamento ricattatorio del presidente del consiglio Matteo Renzi: o il disegno di legge la Buona scuola diventa legge oppure non ci sarà l’assunzione dei centomila precari. Sinceramente non capisco dove sia la novità: è da settembre che il piccolo duce fiorentino ricatta il mondo della scuola e cerca di dividere i docenti precari tra i sommersi e i salvati, tra chi verrà assunto nella nuova scuola azienda e chi verrà espulso o relegato a una condizione di paria.
La disonestà, il malaffare e l’azzardo sono il marchio di fabbrica del renzismo. Le assunzioni sono sempre state il ricatto politico-morale da utilizzare con l’opinione pubblica e da brandire come un martello contro gli insegnanti al motto di “divede et impera”. Le assunzioni servono per coprire i posti vacanti e sono un diritto acquisito dai lavoratori, come sancito dall’Unione europea, ma il piazzista di Palazzo Chigi cerca di venderle come un atto di generosità e di bontà dell’esecutivo.
Il movimento contro la cattiva scuola è stato bravo, in questi mesi (leggi anche La forza del movimento della scuola, ndr), a rimanere sostanzialmente unito e a non cedere ai pacchiani giochi di prestigio di Renzi I il ricattatore. Ora però siamo al momento cruciale della battaglia: nonostante gli scioperi, le manifestazioni, gli atti di disobbedienza, l’opposizione della società civile e le critiche unanime tutti i professionisti del settore, il governo sembra intenzionato a mettere la fiducia sul disegno di legge, mostrando ancora una volta il suo disprezzo per il Parlamento, tipico di tutte le culture politiche autoritarie. Per questo dobbiamo, ora più che mai, stringere i tenti e continuare la mobilitazione: la scuola statale con tutti i suoi limiti è rimasto l’ultimo grande spazio pubblico democratico del nostro Paese, un luogo orizzontale laico di emancipazione, che va irrobustito in ottica di libertà e uguaglianza e non piegato alle logiche padronali e di mercato. Confindustria e Renzi vogliono una la scuola che formi lavoratori al servizio delle imprese (Lea Melandri, tra gli altri, parla di logica aziendale, ndr). Noi, invece, vogliamo una scuola indipendente che formi cittadini autonomi e liberi.

sabato 20 giugno 2015

LA GRECIA, L’EUROPA E LA SOVRANITÀ

Quale immagine rimarrà dell’Unione europea, in seguito alla crisi greca? Infatti, qualunque sarà l’esito di questa crisi, che si risolva in un default greco e una possibile uscita dalla zona euro, con il riconoscimento che la posizione della Grecia è ben fondata e con una gestione politica del debito, oppure in una capitolazione del governo greco, le conseguenze di questa crisi sull’Unione europea e sulla sua immagine saranno molto profonde. La crisi farà piena luce sull’opacità del processo decisionale sia della UE che dell’Eurogruppo che della Banca centrale europea. Metterà in evidenza il carattere antidemocratico di molte di queste decisioni e la profonda avversione alla sovranità dei popoli. L’Unione europea, senza rendersene conto, portando avanti l’equivalente di una dottrina della “sovranità limitata”, ha assunto il ruolo della defunta Unione Sovietica. Quale che sia l’esito di questa crisi, quindi, il suo impatto sull’immagine della UE sarà disastroso.
Il mancato dialogo e le sue ragioni.
Le condizioni di gestione della crisi sono state disastrose, ma è un disastro di cui la Commissione europea ha la piena responsabilità. Dopo l’avvento al potere del nuovo governo greco (governo di coalizione tra SYRIZA i separatisti di ANEL), era chiaro che il quadro dei negoziati non avrebbe potuto essere quello del “memorandum”. Questo fatto è stato negato dai negoziatori dell’Eurogruppo, che hanno sempre cercato di riportare il governo greco in un contesto che quest’ultimo aveva respinto. La Commissione europea, e le varie “istituzioni” europee, hanno finto di credere che il negoziato vertesse sulla quantità degli aiuti, mentre il governo greco proponeva di superare questa logica degli aiuti e affrontare politicamente il problema del debito, come era stato fatto nel 1953 con il debito della Germania. Questo rifiuto da parte della Commissione di intendere quanto veniva detto dal governo greco ha portato alla trasformazione di questi negoziati in quel che il ministro delle Finanze greco, il sig Yanis Varoufakis, una “guerra”. Come c’era da attendersi, ciò ha determinato un irrigidimento della posizione greca. Oggi c’è un’alleanza de facto della sinistra di SYRIZA con i sovranisti di ANEL, alleanza che condiziona in gran parte l’atteggiamento del primo ministro Alexis Tsipras.
Se oggi siamo sull’orlo di un precipizio, è in gran parte perché l’Unione europea ha perseguito in questi negoziati degli obiettivi anch‘essi politici: piegare la Grecia al fine di garantire che una messa in discussione del quadro dell’austerità voluta dalla Germania e dai paesi che hanno accettato il ruolo di vassalli di quest‘ultima, e qui dobbiamo parlare di Spagna, Francia e Italia, non possa avvenire con mezzi democratici. A poco a poco, nella primavera del 2015, è così diventato chiaro che ciò che l’Unione europea stava perseguendo non era un accordo con la Grecia, ma la resa totale del governo greco. Qualunque sia l’esito finale di questi “negoziati”, i popoli europei comprenderanno quindi che da parte di Bruxelles c‘è stata solo mala fede, e che il signor Juncker pensava solo a una pace cartaginese.
Da questo punto di vista, e questo ha un enorme importanza, l’Unione europea ha perso la battaglia dell’immagine. Si è mostrata per quel che è: una struttura oppressiva e repressiva, profondamente antidemocratica. La reputazione della UE è ormai compromessa a causa del suo comportamento in relazione alla Grecia.
L’Unione europea per quello che è.
L’Unione europea è stata presentata come una costruzione nuova, né un “super-Stato”, né una semplice associazione. Affermando perentoriamente, per bocca del signor Barroso, che l’Unione europea è un progetto “sui generis” (1), i leader europei si sono esonerati da ogni controllo democratico e così hanno seppellito il principio della sovranità nazionale, ma senza sostituirlo con un altro principio. E’ il Re in tutta la sua nudità. Ciò è stato ribadito, più brutalmente, da Jean-Claude Juncker, il successore dell’ineffabile Barroso a capo della Commissione europea: “Non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei”. Questa dichiarazione rivelatrice risale alle elezioni greche del 25 gennaio 2015, che avevano visto la vittoria di Syriza. In poche parole, è stato detto tutto.
Il diritto costituzionale, cioè le norme con le quali ci diamo delle regole per organizzare la nostra vita di comunità, di solito si concentra sulla questione della sovranità. Ora, è proprio questa questione che gli oligarchi di Bruxelles e Francoforte vorrebbero far scomparire. Abbiamo visto lo schema messo a punto, consciamente o inconsciamente, a Bruxelles, e che rivela come, sia il discorso di Barroso che la dichiarazione di Juncker non abbiano altro scopo che quello di escludere la sovranità e lasciare i leader della UE senza controllo democratico sulle loro azioni. Ma la dichiarazione di Juncker si spinge ancora oltre. Toglie a un paese il diritto di contestare le decisioni adottate nei trattati. Oggi siamo nel contesto di una nuova “sovranità limitata”.
Queste parole riprendono l’approccio dell’Unione Sovietica nei confronti dei paesi dell’Europa orientale nel 1968, in occasione dell’intervento del Patto di Varsavia a Praga. Mostrano di considerare i paesi membri dell’Unione europea come colonie, o più precisamente come dei “protettorati” nell’ambito del Commonwealth, la cui sovranità era soggetta a quella della metropoli (la Gran Bretagna). Tranne che in questo caso non c’è metropoli. L’Unione europea sarebbe un sistema coloniale, senza metropoli. E, forse, è solo un colonialismo per procura. Dietro la figura di un‘Europa presunta unita, ma che ora è in realtà divisa nei fatti dalle istituzioni europee, si profila la figura degli Stati Uniti, paese a cui Bruxelles continua a cedere, come si è visto nella questione del trattato transatlantico o TAFTA (ora ribattezzato TTIP, ndt), o nella crisi ucraina.
Riconquistare la sovranità, ricostruire lo Stato, rifondare la democrazia.
Questa rivelazione della vera natura dell’Unione europea ha portato alcuni autori a paragonarla ad un “fascismo morbido“. Laurent de Sutter, professore di diritto e direttore alla Presses Universitaires de France, dà anche questa spiegazione: “Questo delirio diffuso che mostrano le autorità europee, deve essere messo in discussione. Perché si svolge così spudoratamente davanti ai nostri occhi? Perché si continua a fingere di trovare delle ragioni, quando queste ragioni non hanno più alcun significato – sono solo parole vuote, slogan falsi dalla logica incoerente? La risposta è semplice: si tratta di fascismo. Si tratta di darsi una copertura ideologica puramente convenzionale, un discorso a cui si fa finta di aderire, per poi, in verità, fare un’altra cosa“.
E’ quindi necessario trarne tutte le conseguenze, anche se la formula del “fascismo morbido” potrebbe risultare scioccante. Oggi è ormai chiaro che la lotta per recuperare la sovranità è un requisito essenziale. Potremo discutere di questioni importanti solo una volta che la sovranità verrà ristabilita e lo Stato ricostruito. È per questo che dobbiamo accogliere la decisione, anche se appare molto tardiva, di Jean-Pierre Chevènement di lasciare il Mouvement Républicain et Citoyen, MRC (da lui fondato), per collocarsi all’interno di uno spazio di dibattito che trascenda “... le sensibilità storiche, perché altrimenti la Francia non si rimetterà in moto“.
E’ ormai chiaro che le differenze non si faranno più su un asse “destra-sinistra”, almeno fino a quando la questione della sovranità non sarà risolta. “Non vi è di irrimediabile che la perdita dello stato”, aveva detto Enrico IV. (2) Quando fece questa dichiarazione davanti ai giudici di Rouen, in quanto il Parlamento all’epoca era un‘assemblea di giudici, egli voleva far comprendere che un interesse più elevato si imponeva al di sopra degli interessi particolari e che il perseguimento da parte dei singoli individui dei propri legittimi scopi non dovrebbe avvenire a spese dell’obiettivo comune della vita sociale. Ristabilendo il senso della nazione, egli pose fine alla guerra civile. Oggi noi siamo a questo punto. Possiamo rammaricarcene, ma dobbiamo prenderne atto, e trarne le necessarie conseguenze.
Dunque oggi è chiaro che dovrebbe delinearsi un fronte unito di sovranisti. Contrariamente a quello che si pensa, non si tratta di una formula semplice. Come ogni fronte unito, non vuole essere una formula magica che produca una unanimità artificiale, ma uno strumento tattico in vista di un obiettivo politico preciso. Sarà opportuno, alla fine, che si distinguano bene le critiche che potranno essere fatte all’interno di questo fronte, da quelle che dovremmo riservare ai nostri nemici.

venerdì 19 giugno 2015

Pd, la playstation si è impallata

«Non si è rotto niente, tanto meno l’inesistente patto della play­sta­tion: com’è noto quando abbiamo gio­cato alla play­sta­tion fra me e Renzi si è con­su­mato il momento di mas­simo con­flitto». Prova a but­tarla in bat­tuta il pre­si­dente del Pd Mat­teo Orfini quando gli si chiede del gelo sceso fra lui e Mat­teo Renzi sul caso Roma. Ma, messo da parte il malu­more, anche lui si sta pre­pa­rando a mol­lare il sin­daco Marino? Qui la rispo­sta si fa seria. «Valu­te­remo tutti insieme dopo la rela­zione del pre­fetto Franco Gabrielli. A quel punto si farà una veri­fica poli­tica. Se Marino è in grado di rilan­ciare il governo di Roma, andrà avanti. Ma su que­ste cose mi rifiuto di fare bat­tute. Non è solo un pro­blema di stile. Il governo della Capi­tale è una cosa seria». È un giu­di­zio secco sul segretario.
Il tema, però, ormai sul tavolo del Naza­reno. Il pre­fetto potrebbe deci­dere entro una set­ti­mana. Orfini è sicuro che non pro­porrà lo scio­gli­mento del Cam­pi­do­glio per mafia. Quindi è solo que­stione di tempo, ma per la per­ma­nenza di Marino alla guida della Capi­tale ormai è scat­tato un conto alla rove­scia. Sarà dif­fi­cile fer­marlo. Il pre­si­dente però nega. «Marino non resta o va via per­ché lo decide Orfini o Renzi, la sua fonte di legit­ti­ma­zione sono i cit­ta­dini che lo hanno votato ed eletto»; «Il Pd non ha mol­lato Marino, che ha vinto le pri­ma­rie, è stato eletto dai cit­ta­dini, e ha il dovere di gover­nare que­sta città»; «Renzi ha detto chia­ra­mente a Marino: dicci se te la senti. E io credo che sia un dovere rac­co­gliere que­sta sfida», argo­menta in mat­ti­nata nella con­fe­renza stampa della festa del Pd di Roma. Che ini­zia il 19 con la rela­zione sullo stato del par­tito romano di Fabri­zio Barca. Il 21 poi ospite d’onore sarà il sin­daco, e lì, all’applausometro, si sen­tirà il polso della base Pd.
Invece nel Tran­sa­tlan­tico della camera tira tutta un’altra aria fra i gio­vani tur­chi, i com­pa­gni del pre­si­dente. Con­se­gnare Roma a un com­mis­sa­rio «è una fol­lia» è la sen­tenza che cir­cola a mezza bocca. E sta­volta non si tratta solo di quelli che ormai Renzi chiama «i Fas­sina e i D’Attorre», eleg­gendo i due dis­sen­zienti a una cate­go­ria poli­tica e forse anche dello spi­rito. A non con­di­vi­dere la linea auto­sfa­sci­sta di Renzi sta­volta è un pezzo della mag­gio­ranza Pd e pre­ci­sa­mente la sini­stra ren­zi­sta che turan­dosi il naso ha soste­nuto il segre­ta­rio nelle indi­ge­ri­bili cro­ciate del jobs act, delle riforme, dell’Italicum. Che ha difeso regole delle pri­ma­rie indi­fen­di­bili e che ora improv­vi­sa­mente Renzi rot­tama senza nean­che peri­tarsi di dira­mare il con­tror­dine. A onor di cro­naca il primo a dare un segnale di indi­pen­denza, se non di insof­fe­renza, era stato il mini­stro Andrea Orlando. All’indomani della scon­fitta delle regio­nali liguri sul Cor­sera aveva par­lato di «supe­ra­mento del par­tito della nazione», «un’idea ambi­gua, addi­rit­tura peri­co­losa». Ora il ben­ser­vito a Marino, pro­nun­ciato da Renzi all’improvviso, nelle stesse ore in cui Orfini era impe­gnato a ras­si­cu­rare il sin­daco — molto agi­tato — ha peg­gio­rato la situa­zione. E forse potreb­bero cam­biare la geo­gra­fia interna del Pd.
Renzi ha in mente una road map: come Pene­lope, disfare la tela fati­co­sa­mente tes­suta dal com­mis­sa­rio Orfini in que­sti mesi, sfi­du­ciare Marino, con­se­gnare la città al pre­fetto nel momento dell’organizzazione del Giu­bi­leo, e arri­vare al voto in pri­ma­vera insieme alle altre grandi città (Milano, Torino, Genova, Napoli, Cagliari). Per que­sto meglio divor­ziare subito da Marino che dai giorni dei nuovi arre­sti non è riu­scito nean­che a riu­nire la sua mag­gio­ranza, incerto su come affron­tare il ter­re­moto del Pd romano. Per far sal­tare la giunta c’è chi con­fida nelle fibril­la­zioni di Sel: il par­tito di Ven­dola ieri ha tenuto un’assemblea aperta con i suoi con­si­glieri comu­nali e oggi riu­nirà i diri­genti romani. Il clima fra gli elet­tori di sini­stra del sin­daco è pes­simo.
Al momento del voto, poi, dio vedrà e prov­ve­derà: cioè Renzi. Potrebbe sce­gliere, sta­volta senza pri­ma­rie, fra lo stesso Gabrielli o il ren­ziano ati­pico (e radi­cale) Gia­chetti, per ora reni­tente alla leva. Insomma, que­sto sarebbe il piano per sal­vare Roma autoaf­fon­dan­dosi in Cam­pi­do­glio. Che però in molti defi­ni­scono «una fol­lia», «un rega­lone a Grillo».

giovedì 18 giugno 2015

Libertà di spionaggio per licenziare meglio

Nel film Tempi Moderni l'operaio Charlot si affanna alla catena di montaggio mentre viene controllato dal padrone, che da un grande schermo spia e comanda tutti i dipendenti. Negli Stati Uniti degli anni 30 la denuncia dell'incombere sul lavoro dell'occhio del padrone faceva parte della svolta progressista del New Deal di Roosevelt. 35 anni dopo quel film in Italia lo Statuto dei Lavoratori, nel suo articolo 4, vietava i controlli audiovisivi, salvo accordo sindacale, e ogni altra forma di controllo a distanza sul lavoratore.
Oggi il governo Renzi, che applica la controriforma sociale voluta dalla Troika e dalla finanza internazionale, legalizza lo spionaggio aziendale ai danni del lavoratore. Il controllo televisivo resta più o meno vincolato alle leggi di una volta, ma non perché si sia voluto tutelare i lavoratori. Le telecamere già oggi servono per i parcheggi, per le entrate, per le zone a rischio e per prevenire furti, non per il controllo delle attività. Nessun padrone oggi ha bisogno di comportarsi come quello di Charlot.
I controlli sul lavoro da tempo son attuati attraverso il cablaggio e la messa in rete di tutti gli strumenti e le postazioni di lavoro. Le macchine hanno in ogni postazione una registrazione delle attività. Le catene di montaggio, le casse dei supermercati, le automobili aziendali, i treni e gli autobus, i computer negli uffici, i magazzini, le entrate e le uscite, tutti i posti di lavoro da tempo son connessi ad una rete che permette il controllo del lavoratore.
Quando i mass media parlano di tablet e cellulari aziendali come strumento di controllo, quasi fossimo entrati in virtù di questi strumenti in una nuova era, dimostrano ancora una volta di essere puri oggetti di propaganda ideologica. Il controllo a distanza nelle imprese c'è sempre stato da quando esiste l'elettronica, solo che grazie allo statuto dei lavoratori non poteva essere usato contro gli interessi e i diritti delle persone.
Nel corso della mia esperienza sindacale ho fatto o verificato tanti accordi sindacali che affrontavano la materia. Quando una macchina a controllo numerico registra il proprio avanzamento, segnala anche i tempi e le modalità dell'attività del lavoratore. Ma gli accordi sindacali stabilivano che nulla di quei dati a conoscenza del padrone potesse essere usato a danno del lavoratore. Il padrone sapeva, ma non poteva usare quanto sapeva contro il lavoro.
Ora Renzi toglie l'obbligo di accordo sindacale e soprattutto permette all'azienda di usare i controlli sul lavoro per tutto ciò che è previsto dai contratti. Cioè per gli orari, i ritmi, le pause, gli organici, le ferie, la malattia e chi più ne ha più ne metta. Ogni lavoratore avrà la sua scheda personale perfettamente legale dove sarà registrato anche quante volte si soffia il naso. La privacy, come tutto il resto, sarà questione di classe e il lavoratore senza diritti verrà schedato come qualsiasi altra merce. E sulla base di quella schedatura il padrone potrà promuovere o demansionare o, se necessario, licenziare senza reintegra, grazie alla distruzione dell'articolo 18.
La libertà di spionaggio completa quindi il quadro della controriforma del lavoro di Renzi. Ti controllo e se non dai il massimo ti degrado e se non basta ancora ti caccio. È La realizzazione del sogno degli industriali, come ha detto il presidente di Confindustria Squinzi. Ed è anche il materializzarsi dei peggiori incubi per chi lavora, a causa di un governo che si dichiara di centrosinistra, ma che contro i lavoratori sta realizzando le cose peggiori dalla sconfitta del fascismo.

mercoledì 17 giugno 2015

Salvini è perfetto per far sembrare Renzi il meno peggio

Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.
E’ una buona mossa, soltanto un po’ rischiosa. Intanto perché vista la rapidità con cui Renzi perde pezzi di elettorato le cose possono cambiare velocemente (si veda l’ingresso al Nazzareno dalla porta posteriore, essendo quella principale presidiata da Salvini e Renziex elettori infuriati, insegnanti nella fattispecie). E poi perché per indicare un avversario bisogna in qualche modo mettersi sul suo piano, accettarne almeno il gioco, sfidarlo sullo stesso campo. Si ricorda per esempio en passant che mentre il Salvini gigioneggia in giro parlando di ruspe e pogrom, le ruspe sono state usate a Roma, alla favela di Ponte Mammolo, per cacciare senza preavviso gente che ci abitava da anni, senza soluzioni alternative accettabili. Risultato: in una città dove si discute fittamente se gli affari sulla pelle dei migranti si possano o no chiamare “mafia” (una mafia decisamente bipartisan, tra fascisti conclamati, coop rosse e esponenti Pd), c’è ancora gente che dorme per strada davanti alla sua baracca spianata dalle ruspe.
Eroiche associazioni di volontari e persone civili chiedono aiuto sui social: servono medicine, cibo, acqua, carta igienica. Qualche tenda l’ha fornita una nota (e a questo punto: meritoria) catena di articoli sportivi, mentre le istituzioni si accapigliano sui giornali a proposito di inchieste e mandati di cattura. Il salvinismo teorico di Salvini, insomma, si contrappone a un salvinismo reale, che le ruspe le usa davvero, ma si circonda di una narrazione umanitaria, confortevole pietosa. C’è chi dice che l’onnipresenza di Salvini in tivù (è quello, non il brillante eloquio da seconda media, che gli procura consensi) sia Alessandro Robecchiincoraggiata e agevolata proprio a questo scopo: trasformare una dialettica politica complessa in un derby tra buoni e cattivi, o almeno tra peggio e meno peggio.
E’ una dietrologia complottista e quindi non le daremo peso. Ma è certo che anche i media tifano per quella soluzione da pensiero binario: o il Matteo buono (?) o il Matteo cattivo (!), e non ci sarà altra scelta. Sanno tutti che non è così, ma per il momento la cosa sembra funzionare: è una semplificazione, una caricatura, uno schema facile, e dunque – in tempi di distrazione di massa – conveniente. Il giochetto non durerà a lungo: tra uno che straparla di ruspe e uno che dice “Ok, discutiamo” puntando la pistola, sarà inevitabile una qualche terza via. Perché il trucchetto di scegliersi il nemico ha questa controindicazione: qualcuno potrebbe pensare che sono nemici entrambi, e finiscono per somigliarsi.

martedì 16 giugno 2015

Deutsche Bank, una nuova Lehman Brothers?

Prima di tutto, onore ad Augusto Lodolini e al suo articolo di venerdì scorso, capace di spezzare la convenzione del silenzio attorno allo stato di salute di Deutsche Bank. Lo affianco, spero non se ne dispiacerà, in questa battaglia (che tra l’altro porto avanti da un po’ di tempo) e vado un po’ oltre: Deutsche Bank rischia di essere la prossima Lehman Brothers? Siamo di fronte a un altro déjà vu sui mercati finanziari dopo quello di Pimco della scorsa settimana, quando ha annunciato che, come nel 2011, ha scaricato la gran parte delle sue detenzioni di Treasuries? Quello che si sta consumando nel silenzio, è un déjà vu del 2008 che potenzialmente potrebbe devastare l’eurozona in due giorni e i mercati finanziari in una settimana?
Partiamo da principio, ovvero dalla madre di tutti i crolli: Lehman Brothers. Il cui collasso nel settembre di sette anni fa stupì tutti per due particolari: la velocità con cui avvenne e il silenzio che lo coprì fino agli atti finali. In pochi, infatti, prima del patatrac erano a conoscenza della reale situazione del gigante di Wall Street. Certamente lo erano gli insiders, tanto che Goldman Sachs piazzò contro Lehman una scommessa che in gergo fu denominata “The big short” (da cui il titolo del libro bestseller di Michael Lewis) e David Einhorn, con il suo Greenlight Capital, diede vita a un attacco ribassista in stile Enron, ma per il resto, silenzio. E anche durante l’estate del 2007, quando il mercato subprime cominciò a incagliarsi e nel mese di agosto quello della commercial paper vide la liquidità evaporare rapidamente e il finanziamento per tutti i tipi di asset-backed securiries si prosciugò, nessuno pensava che Lehman potesse essere la vittima sacrificale. E questo durò fino alla fine 2007.
Probabilmente la prima indicazione pubblica di difficoltà arrivò il 9 giugno del 2008, quando Fitch taglio il rating di Lehman ad AA- con outlook negativo, di fatto preannunciando un altro possibile downgrade. Solo tre mesi dopo, Lehman annunciò perdite record e finì in bancarotta, con le immagini dei dipendenti che abbandonavano la sede con i cartoni in mano che fecero il giro del mondo. Ora veniamo al potenziale déjà vu, il quale se dovesse accadere - ma non succederà - come nel caso di Lehman paleserà la gravità della propria situazione soltanto all’ultimo, quando la velocità degli eventi sarà incontrollabile e in continua accelerazione.
I segnali, come abbiamo visto, nei casi di crisi serie non arrivano con largo anticipo. A meno che, non si voglia interpretare come tali una serie di fatti accaduti in un arco temporale che nel nostro caso limiteremo agli ultimi quindici mesi. Nell’aprile del 2014 Deutsche Bank fu obbligata a racimolare 1,5 miliardi addizioni di capitale Tier 1 in supporto alla propria struttura di capitale. Perché? Non si sa. Un mese dopo, a maggio, la ricerca di liquidità sembrò proseguire, visto che Deutsche Bank annunciò la vendita di titoli per un controvalore di 8 miliardi di euro al 30% di sconto sul valore facciale, con il mercato che già oggi valorizza il titolo DB al 50% del suo capitale: perché? Non si sa.
Veniamo poi a quest’anno, per l’esattezza al mese di marzo quando Deutsche Bank fallì gli stress test dell’industria bancaria e la sua struttura di capitale fu messa nel mirino dei regolatori. Ma sui media, poco e niente, soprattutto nessuna domanda storica. In aprile, poi, Deutsche Bank confermò il proprio via libera a un accordo con le autorità di Usa e Gran Bretagna legato allo scandalo della manipolazione del Libor, pagando al Dipartimento della Giustizia statunitense 2,1 miliardi di dollari (poco o niente, rispetto a quanto quella manipolazione aveva fatto guadagnare alla banca), dopo aver già speso nei tre anni precedenti 7,1 miliardi di euro per chiudere contenziosi legali vari.
In maggio, poi, uno dei dirigenti principali di Deutsche Bank, il Ceo Anshu Jain, ottenne una serie di deleghe strategiche da parte del board dell’istituto: una mossa legata alla crisi in atto, visto che solitamente scelte simili nelle grandi aziende si prendono come decisioni emergenziali? Il 5 giugno la Grecia non ripagò il proprio debito verso il Fmi: implicazioni per Deutsche Bank? Per quanto ne si sa no, visto che quanto andava fatto verso il debito di Atene fu fatto nella prima fase della crisi, quando Angela Merkel guadagnò tempo per salvare le sue banche e da allora l’esposizione degli istituti teutonici ai cosiddetti Piigs è diminuita moltissimo, in alcuni casi azzerata. Stando a dati della Banca per i regolamenti internazionali, alla fine del primo trimestre del 2011 le banche tedesche erano esposte alla Grecia per 234,8 miliardi, con Deutsche Bank a quota 2,5 miliardi, ma, stando alla Reuters, oggi la sua esposizione sarebbe di circa 300 milioni, briciole insomma. Perché allora tra il 6 e il 7 giugno scorsi - ovvero sabato e domenica (le decisioni prese nel weekend puzzano sempre di crisi o emergenza) e subito dopo il mancato pagamento della Grecia al Fmi - due Ceo della banca, lo stesso Anshu Jain e Jurgen Fitschen, annunciarono a sorpresa il loro addio all’azienda? Il primo lascerà Deutsche Bank a fine giugno e solo un mese dopo aver ottenuto nuove deleghe e l’espansione dei propri poteri, il secondo invece abbandonerà il prossimo maggio.
Veniamo poi al 9 giugno, quando Standard&Poor’s ha tagliato il rating di Deutsche Bank a BBB+, solo tre gradini sopra il “junk” e un livello più basso del downgrade patito da Lehman solo tre mesi prima di fallire. E sempre il 9 giugno scorso, le autorità giudiziarie hanno avviato una perquisizione nella sede centrale di Francoforte dell’istituto. Gli inquirenti stanno cercando le prove di una presunta truffa fiscale miliardaria operata da alcuni clienti dell’istituto, che non coinvolgerebbe al momento dipendenti della banca, ha precisato la stessa Deutsche Bank. Al centro delle indagini, stando ad alcune indiscrezioni della Bild, ci sarebbero operazioni di compravendita di azioni col fine di frodare il fisco: le indagini sarebbero partite dal caso di un avvocato fiscalista di Hessen e perquisizioni sarebbero state effettuate anche nelle filiali dell’istituto di credito tedesco a Parigi e Londra.
In seguito alla notizia, il titolo di Deutsche Bank quotato alla borsa di Francoforte ha ceduto oltre il 2%, portando il prezzo di ogni singola azione sotto quota 28 euro. Solo una serie di segnali, nulla più, ma messi in fila e contestualizzati appaiono un po’ inquietanti. Tanto più che Deutsche Bank, negli anni, per mantenere i margini non ha solo erogato credito e gestito il risparmio, ma ha operato su asset classes più rischiose, esattamente come le altre grandi banche. Peccato che lo abbia fatto in maniera spropositata, visto che come mostra il grafico a fondo pagina Deutsche Bank siede su scommesse legate ai derivati per un controvalore di 55 triliardi di euro (75 triliardi di dollari), venti volte il Pil della Germania e cinque triliardi di dollari più dell’esposizione di JP Morgan!
Con un’esposizione simile, anche mosse relativamente limitate e contenute di mercato possono tramutarsi in perdite enormi: e di fronte a noi abbiamo non solo la Grecia, ma il Qe della Bce che perde colpi e soprattutto la Fed con la minaccia di rialzo dei tassi, la quale già oggi ha innescato il suo tantrum sui mercati emergenti, da cui gli investitori in dollari stanno scappando a gambe levate come non si vedeva dal 2008-2009.
Ora, però, mettiamo un po’ d’ordine. Quei 54,7 trilioni di euro rappresentano l’esposizione lorda, quindi il dato va ridimensionato visto che il mercato dei derivati - a differenza di quello azionario - è di fatto a somma zero, dato che per ciascuna posizione long esiste un posizione short uguale e contraria con il medesimo sottostante e la medesima scadenza. Quella massa spropositata lorda, ci dice quindi che Deutsche Bank è una banca specializzata sui mercati dei derivati, ovvero opera come market-maker su molti mercati dei derivati ed è leader nell’essere “primary dealer”, ovvero fornisce interconnessione diretta e deposito per moltissimi broker. Insomma, non esattamente il modo di fare banca sobrio e dai conti in ordine che la Bundesbank e Wolfgang Schaeuble ci propinano a ogni discorso ma poco male, la coerenza è dote rara anche in Germania.
Per capire il vero rischio di mercato è necessario andare a vedere l’esposizione netta, ovvero azzerando le posizioni uguali e contrarie, per ciascuna classe di derivati, su ciascuna scadenza e fare le somme. In base ai dati dell’ultimo bilancio, emerge che Deutsche Bank è esposta al mercato per 504,6 miliardi di euro in posizioni long e per 487 miliardi di euro in posizioni short, per un totale di 991,6 miliardi di euro. Al netto di questo dato, sicuramente a Deutsche Bank va tutto bene, ma rimane comunque un senso di agitazione addosso pensando al controvalore delle scommesse in atto sui derivati, visto che se anche il dato dei 55 triliardi di euro appare “fasullo” come market-risk a garanzia di quello reale di 991,6 miliardi ci sono circa 522 miliardi di depositi, in continuo calo e con turbolenze che possono innescare margin calls in ogni attimo.
La domanda finale è: come mai questa accelerazione della crisi greca e l’irrigidimento del Fmi dopo che la pantomima sul debito è andata avanti per anni? Il mancato pagamento del 5 giugno ha segnato il passo della trattativa? Perché allora accettare che tutti i pagamenti di giugno fossero accorpati nella data del 30 prossimo? Non è che Bce, Fmi e Ue hanno qualcosa di più urgente e importante da affrontare? Non è che un po’ di turbolenza sui mercati offerta da showdown greco e timore della Fed servirà a coprire perdite e deleverage forzato da parte della più grande banche tedesca, senza far insospettire i mercati globali sul suo stato di salute?
Certamente no. Ma il senso di timore resta. Visto che, oltretutto, giova ricordare alla signora Merkel e all’inflessibile Schaeuble che il sistema bancario tedesco è già stato salvato una volta con soldi europei, al pari di quello spagnolo, mentre quello italiano - in crisi, provinciale, schiacciato dalle sofferenze e dall’esposizione ai titoli di Stato quanto si vuole - no. Abbiamo già pagato, il problema è che se succede qualcosa di serio a Deutsche Bank non si tratterà più di indire una riunione in sede Ue e versare nuovi fondi d’emergenza: sarà la catastrofe sui mercati finanziari e dei derivati. E, di fatto, la fine dell’eurozona e un colpo mortale alla Bce, attraverso Target2. Speriamo davvero che tutti questi indizi messi in fila, non facciano una prova reale.
P.S.: Oggi potrebbe essere un giorno fondamentale per la Grecia, quasi una prova generale di cosa potrebbe essere il "Grexit" se le pessime notizie giunte venerdì da parte del Fmi verranno prezzate dai mercati, soprattutto per quanto riguarda le obbligazioni delle banche elleniche. Ieri, però, si è aperto uno spiraglio. Christine Lagarde, numero uno proprio del Fmi, ha dichiarato che i prestiti verso l'Ucraina proseguiranno anche dopo un possibile default del Paese. Direte voi, cosa c'entra Kiev con Atene? Come ha ottenuto questa benevolenza da parte di Washington (al netto dei buoni uffici di George Soros) l'Ucraina? Vedendosi confiscare mesi fa come garanzia le riserve auree. E come mostra questo grafico )  Atene ha 112,5 tonnellate d'oro di riserve nazionali: che dite, resteranno elleniche ancora per molto? Alla fine, penso che Alexis Tsipras opterà per il male minore, vendendo al popolo la formula della cessione unicamente a garanzia e potendo così portare avanti ancora per un po' le sue politiche ideologiche e fallimentari, evitando il voto anticipato. E il "Grexit" potrebbe sparire dai radar delle sale trading. Ancora per un po', almeno.

lunedì 15 giugno 2015

L’odio

In questo periodo alcuni dirigenti politici alzano la voce contro gli stranieri, quelli miserabili (non i miliardari arabi che si stanno comprando mezza Italia), quelli che scappano dalla fame, dalla guerra, dalle situazioni disumane e tragiche prodotte dalle politiche occidentali, in primis gli Usa e le multinazionali euro-statunitensi che sfruttano le risorse dell’Africa e del Medio-oriente. Quei dirigenti usano una violenza verbale, veicolata dai media, che fanno così da cassa di risonanza alla costruzione del capro espiatorio in una situazione di crisi sociale, culturale, morale, politica ed economica che sta affondando la democrazia italiana, ma anche di molti paesi europei.
La violenza verbale si accompagna purtroppo anche dalla violenza fisica di chi viene sfruttato da scafisti di tutte le nazionalità, basta vedere la vicenda di Roma (sulle vicende di Roma, Milano, Ventimiglia e, più in generale sulla situazione dei migranti in questo momento, leggi anche Migranti in trappola di Fulvio Vassallo Paleologo). L’importante è fare crescere l’odio verso i poveri del mondo che chiedono aiuto, l’importante è metterli alla gogna facendo tremare i cittadini impoveriti e impauriti con le favole sulla scabbia, il terrorismo ecc. La cosa grave è che il giornalismo italiano sembra non avere senso del pudore e della responsabilità sociale nell’influenzare l’opinione pubblica, anzi più si sbatte il mostro in prima pagina nei tg, più si dà spazi ai deliri razzisti e volgari di certi personaggi, più si amplifica il fenomeno della presunta invasione del paese. E se il paese è invaso vuol dire che siamo in guerra. Contro chi? Contro i poveri che arrivano dal Corno dell’Africa (ex colonie italiane), dal Medio-oriente (Sira, Iraq distrutti dalla guerre occidentali), dall’Africa centrale sfruttate dalle multinazionali per le sue materie prime. Non guerra alle diseguaglianza e alla povertà nel mondo e anche alle sue cause, dunque, ma guerra ai poveri.
Austerity
D’altronde che la guerra contro i poveri sia una realtà i cittadini europei se ne accorgono con le politiche di austerity che hanno avuto finora l’effetto d’impoverire la popolazione e di distruggere i sistema di diritti e di tutela dei lavoratori. Allora bisogna far crescere l’odio contro i profughi, scatenare la guerra tra i poveri facendo leva sugli istinti più bassi e incivili dell’essere umano per fare dimenticare che la crisi sociale in Italia e in Europa ha dei responsabili, cioè chi governa e conduce per conto dei mercati della finanza le politiche di distruzione dello Stato sociale per favorire il trasferimento di ricchezza verso chi è ricco e per rendere schiavi i salariati.
Come ha scritto René Girard nei suoi testi La violenza e il sacro e Il capro espiatorio, l’aggressione razzista è proporzionata non alla diversità dello straniero ma al fatto che ci assomiglia tanto, insomma aggrediamo l’altro perché è molto simile a noi e non il contrario (è quello che il filosofo francese chiama “la vendetta mimetica”). Nel caso dell’Italia con la sua storia d’emigrazione (rimossa anche se molto attuale, visto che negli ultimi tre anni hanno lasciato il paese 350.000 mila italiani) la questione diventa ancora più complicata poiché i profughi ci ricordano molte cose sulla sua storia passata e anche attuale. L’aggressività razzista e xenofoba è anche sempre lo specchio di una paura irrazionale, di una insicurezza e di un tentativo di eliminare l’altro diverso da sé per non fare i conti con se stesso, quindi con l’altro che ci sta dentro.
Il dominio sull’altro secondo Fanon
Psicologicamente si può dire, con lo psichiatra afro-martinichese Franz Fanon, che l’aggressività linguistica e simbolica nonché la violenza fisica sono parte di una logica di dominazione sull’altro agita da chi si sente insicuro (agendo come un “ferito psico-affettivo” che costruisce un rapporto di doppio legame con l’oggetto del proprio odio e della propria violenza). Si tratta di un tratto patologico che, negando dignità e umanità all’altro, porta a annichilire la propria dignità e umanità, quindi la propria capacità riflessiva lasciandosi travolgere dalle pur emozioni del momento, emozioni che non diventano sentimenti poiché quest’ultimi ci portano a relazionarci con i sentimenti dell’altro e quindi a considerarlo nella propria umanità.
L’odio ha purtroppo sempre funzionato nella storia umana permettendo alle classi dominanti di trovare, tra una parte dei dominati e sfruttati autoctoni, delle truppe e dei sostegni per continuare ad essere dominanti. L’odio è anche un modo molto più semplice di non dovere fare i conti con se stessi nella relazione con l’altro e quindi con la propria coscienza. Giuseppe Mazzini l’aveva già capito nella prima metà dell’800 e sosteneva che solo la fratellanza tra i popoli, in particolare tra i popoli sfruttati e oppressi avrebbe permesso di costruire una Europa più democratica e più giusta, scrisse anche in un proclama indirizzo ai giovani italiani che bisognava “abolire la parola straniero dalla favella dell’umanità”!

sabato 13 giugno 2015

La NATO fa le prove generali della guerra

Il conflitto in Ucraina riprende, in medio oriente le guerre dilagano ed il sangue di tante vite innocenti viene ogni giorno versato e dall’Europa quali notizie arrivano? Non certo di distensione anzi, come nelle previsioni, inizia forse la vigilia di una stagione in cui il braccio di ferro tra occidente e resto del mondo rischia di entrare in una sua fase decisiva.
E’ notizia di pochi giorni fa infatti, l’avvio della più vasta operazione NATO mai effettuata dalla caduta del muro di Berlino; significa quindi che, pur se si tratta di esercitazione, la mobilitazione degli eserciti dello schieramento atlantico non è mai stata alta come adesso dopo la fine del duello con l’URSS. Si mostrano i muscoli quindi, ma forse ci si allena alla guerra che verrà; è indubbio che la scelta di tenere proprio adesso la più vasta esercitazione, funge da indicatore del livello di tensione ma anche della forte provocazione che parte dall’ex blocco occidentale.
Manco a dirlo, l’operazione verrà ospitata in Sicilia; l’isola che per ragioni di guerra fredda è stata trasformata in una portaerei a stelle e strisce (Sigonella, MUOS ed ex base missilistica di Comiso sono soltanto tre delle infrastrutture militari di occupazione sorte dopo il secondo conflitto mondiale), tornerà ad essere ideale terreno per ‘giocare alla guerra’, come ironicamente affermano molti siciliani.
L’operazione prende il nome di ‘Trident Juncture 2015’ ed il via ufficiale è previsto il prossimo 28 settembre, con durata fino al 6 ottobre; 25.000 uomini impegnati, tre paesi (Spagna, Italia e Portogallo) posti ai timoni dei comandi, un’infinità di mezzi aerei e terrestri impiegati e questi sono soltanto alcuni numeri che testimoniano quello che sta per avvenire.
La NATO nella simulazione di settembre, sarà intenta a provare tutte le condizioni possibili in caso di necessità di un rapido attacco contro paesi nemici; il comunicato della stessa alleanza atlantica parla chiaro: ‘Bisognerà testare la capacità di rispondere ad una crisi ancor prima che essa cominci’. In poche parole, anche se non è citata testualmente, tutto lascia pensare che l’esercitazione miri ad una situazione di vera e propria guerra preventiva; i 25.000 che in Sicilia si eserciteranno tra le campagne bruciate dal sole dell’estate mediterranea, testeranno il modo di come attaccare un paese nemico sospettato di essere una minaccia per un alleato atlantico.
Una spiegazione, che sa di minaccia: la NATO vuol sapere, in primis alla Russia, che l’alleanza è solida e che sa mostrare i muscoli quando e dove vuole e che, soprattutto, sta addestrando i suoi uomini ad agire di sorpresa e senza preavviso contro qualsivoglia minaccia. L’esercitazione però, secondo molti, come affermato sopra, non vuole essere solo un mezzo per la guerra di propaganda; nell’est Europa, le provocazioni di Kiev proseguono a dismisura: nel silenzio dei media tradizionali, l’esercito ucraino continua a bombardare Donetsk e ad asserragliare la popolazione russofona da un lato, dall’altro invece isola di fatto l’enclave (anche questa russofona) della Transnistria provando ad irritare Mosca e costringerla all’intervento a difesa dei suoi soldati schierati a Tiraspol.
C’è interesse quindi, anche al fine di distogliere l’attenzione del Cremlino al conflitto siriano e mediorientale (in cui senza supporto diretto della Russia, la Siria di Assad si è trovata in difficoltà e solo adesso si aprono speranze grazie alla discesa in campo dell’Iran), a fare in modo che il governo di Mosca venga trascinato in un conflitto diretto con l’Ucraina. Circostanza questa, che verrebbe poi facilmente spacciata ai media occidentali come aggressione russa contro la sovranità di Kiev e che giustificherebbe un dispiegamento massiccio di forze NATO nell’est Europa pronte, per l’appunto, ‘a rispondere ad una crisi ancor prima che essa cominci’, giusto per citare il comunicato della forza atlantica.
La guerra fredda del terzo millennio, prosegue tra annunci e propagande; quella di settembre sarà un’esercitazione massiccia ed imponente, che fa intuire ancora una volta come chi, tra NATO e Russia, sia il soggetto maggiormente provocatore. Vero che i russi hanno fatto esercitazioni nei mesi scorsi, vero che diversi nuovi missili sono stati testati, ma è altrettanto vero che lì tali azioni sono ricorrenti e che, soprattutto, la Russia ha per davvero una guerra ai confini di casa sua.
Questa improvvisa escalation NATO invece, in un momento in cui gli accordi di Minsk dovevano (ma hanno in tal senso palesemente fallito) garantire maggiore distensione, arriva proprio quando chi doveva dimostrare ad avere meno interesse alla guerra aveva l’occasione giusta per lasciare negli appositi hangar gli aerei militari.
La NATO invece sta già predisponendo tutto in terra di Sicilia; sulla testa dei siciliani in questi giorni, sono apparsi diversi aerei militari, così come nelle strade che portano verso la base militare in cui si svolgerà l’esercitazione si incontrano già blindati e camionette. La base in questione, a proposito, è quella di Birgi Novo a Trapani; è la stessa da cui decollavano gli aerei NATO nel 2011 per andare a bombardare la Libia di Gheddafi.
Il tutto doveva svolgersi in realtà in Sardegna, presso la base di Decimomannu, ma la popolazione, come si legge nel comunicato NATO, si è rivelata ostile e dunque non vi erano le condizioni di sicurezza e serenità ideali.
Ma in Sicilia di certo non si incontrerà una popolazione del tutto felice di accogliere un’operazione di tale portata, la notizia infatti non viene al momento data con molta enfasi in giro pur se, è giusto dirlo, già diversi quotidiani ne hanno parlato. In particolare, la base di Birgi Novo potrebbe creare non pochi disagi materiali alla popolazione; essa è infatti nei paraggi dell’aeroporto civile ‘Vincenzo Florio’, il terzo per numero di passeggero dell’isola e che collega la Sicilia occidentale con le principali città europee.
Tale aeroporto è emblema di cosa vuol dire vivere in una terra in cui la sovranità nazionale viene calpestata; nel 2011, in occasione della guerra in Libia, lo scalo ha dovuto chiudere, con un danno economico per il territorio ben intuibile; proprio nei giorni scorsi, nel corso di una piccola esercitazione nella base militare, un drone americano si è danneggiato vicino la pista di atterraggio e gli aerei civili sono stati costretti ad essere dirottati a Palermo, con grave disagio dei passeggeri. A settembre, chi volerà da Trapani sappia di decollare ed atterrare mentre sopra e sotto le loro teste 25mila uomini si eserciteranno ad invadere ipotetici nemici.
Benvenuti quindi nella ‘libertà’ dell’alleanza atlantica; oggi più che mai vicina a provocare nuove crisi e nuovi problemi alla Sicilia in primis, ma in generale a tutto il contesto internazionale.

venerdì 12 giugno 2015

In Italia l'unica crescita è quella dei morti sul lavoro

In attesa della tanto agognata ripresa economica, c’è un’altra ripresa che nessuno auspica ma che nel 2015 sembra invece concretizzarsi con evidenza: quella delle morti sul lavoro. Nei primi quattro mesi dell'anno, secondo l’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro di Vega Engineering su base dati Inail, le vittime sono state 305 contro le 269 dello stesso periodo del 2014, con un incremento di oltre il 13%. Incremento che resta, anzi si allarga ulteriormente, non tenendo conto degli infortuni mortali cosiddetti “in itinere” (avvenuti nel tragitto casa-lavoro o lavoro-casa): così si passa dai 196 morti del primo quadrimestre 2014 ai 223 del 2015 (13,8%).
In termini assoluti è la Lombardia con 37 casi (esclusi gli infortuni in itinere) la regione che registra il maggior numero di vittime, seguita da Veneto (24), Toscana (19) e Campania (19). Ma in rapporto al numero di occupati è invece l’Umbria a guidare la triste classifica delle morti sul lavoro con 8 vittime in 4 mesi e un tasso di 22,3 vittime ogni milione di occupati. Seguono Basilicata (22,2), Abruzzo (16,3) e Sicilia (12,9). La media nazionale è di 9,9 morti sul lavoro ogni milione di occupati.
Per quanto riguarda invece le province , in termini assoluti è Roma a registrare il numero di vittime più elevato (12), seguita da Milano (11) e poi, sorprendentemente, Treviso (8) e Bari (7). In termini relativi, è invece la provincia di Benevento ad avere il tasso di mortalità più elevato (67,8), seguita da Matera (47,8) ed Enna (47).
I settori economici più colpiti dal fenomeno risultano essere “Trasporto e magazzinaggio”, con l’11,2% delle vittime, il settore manifatturiero, con il 10,8% e le Costruzioni con il 10,3%.
Nettissima la prevalenza del genere maschile : la vittima è un uomo nel 94,2% dei casi, mentre è significativa la percentuale di stranieri che perdono la vita sul lavoro: nei primi 4 mesi del 2015 sono stati 33, pari al 14,8% del totale. Un terzo di queste vittime straniere ha perso la vita nelle regioni del Centro Italia. Quella rumena è di gran lunga la nazionalità più colpita.
Molto interessante il dato sull’età delle vittime : se infatti in termini assoluti la fascia più colpita è quella tra i 45 e i 54 anni (80 vittime, pari al 40% del totale), in termini relativi (vittime per milione di occupati) balza all’occhio il dato riferito agli over 65, per i quali il dato sfiora i 60 punti, contro, ad esempio, i 4,7 punti della fascia d’età 35-44. Un dato che testimonia evidentemente quanto il rischio di infortuni gravi o peggio mortali cresca a dismisura con l’innalzamento dell’età anagrafica dei lavoratori, conseguenza a sua volte delle riforme pensionistiche varate.
Altro dato su cui riflettere è quello relativo alla distribuzione degli infortuni mortali nell’arco della settimana lavorativa . Si nota infatti che con il trascorrere dei giorni la percentuale di infortuni mortali tende ad aumentare, per poi ridiscendere naturalmente il sabato e soprattutto la domenica (anche se il weekend non è ormai esente dal fenomeno). In particolare, è il venerdì il giorno di picco, con il 20,6% degli infortuni mortali. Segno evidente che lo stress e la fatica accumulati nell’arco della settimana accrescono i rischi di incidenti con gravissime conseguenze per i lavoratori.

giovedì 11 giugno 2015

Una istruzione pubblica debole e non autosufficiente inabissa la speranza democratica ed eleva gli squilibri sociali

La scuola, su cui il Governo si appresta ad intervenire, ha un sicuro fondamento costituzionale (art. 33 e 34 Cost.). Piero Calamandrei l’ha definita non un semplice segmento dell’apparato dello Stato quanto piuttosto un vero e proprio “organo costituzionale”.
Per queste ragioni sollecitiamo un approccio meditato nella direzione indicata dai principi costituzionali, ignorati e traditi per più aspetti nella normativa in discussione in Parlamento.
In effetti, la riforma progettata dal Governo non si propone una scuola aperta a tutti, istituita dallo Stato in tutto il territorio nazionale per tutti gli ordini e gradi, in cui si assicuri con il massimo di estensione ed una gratuità effettiva l’obbligo di istruirsi coessenziale all’essere cittadini consapevoli; una scuola che sia mezzo per superare gli ostacoli frapposti all’uguaglianza e alla libertà, per far convivere le diversità, per rompere la calcificazione della provenienza economica e sociale dei singoli, premiando impegno e capacità effettivamente accertate. In altre parole: una scuola effettivamente democratica.
La ricostruzione del patto fra scuola e società, oggi andato in frantumi, può essere ottenuta solo attraverso un ingente investimento politico e finanziario, pur nella contingenza data, che riallinei l’Italia almeno agli standard medi dei Paesi Ocse, invertendo la tendenza ad una forte riduzione delle risorse umane e professionali affermatasi sin dalla fine dello scorso decennio.
Tra i tanti, segnaliamo tre aspetti fondamentali che dovrebbero ispirare qualsiasi tentativo di ripristino della “buona scuola”: restituire prestigio sociale e morale alla professione docente; rilanciare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in funzione della promozione della libertà di insegnamento, come espressione di una più ampia libertà dell’arte e della scienza, e della libertà di apprendere degli studenti; rafforzare le relazioni tra la scuola e l’ambiente sociale, economico e culturale in cui opera.
Solo il recupero di senso della professione docente è in grado di realizzare una effettiva libertà di insegnamento, consentendo a coloro che sono chiamati a tale delicatissimo compito di assolverlo adeguatamente, cogliendo gli stimoli provenienti dal contesto sociale e culturale all’interno di un percorso di aggiornamento continuo e di verifica della professionalità. Non c’è al riguardo, nella normativa all’attenzione del Parlamento, nulla di sostanzialmente nuovo, se non l’ennesimo tentativo di rimescolare le carte, per aggirare le conseguenze della severa condanna subita dall’Italia in Europa per il trattamento degli insegnanti “precari”.
Quanto alla realizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, essa è da intendersi come una desiderabile declinazione della autodeterminazione delle singole scuole in relazione al contesto sociale nel quale sono inserite. E’ da riporre mano alla gestione collegiale della scuola, per garantire in modo efficace l’effettiva e libera partecipazione di ogni sua componente, nel rispetto delle rispettive competenze e dei ruoli di ciascuna di esse (insegnanti, studenti, dirigenti e Ata). E’ sbagliato e paradossale considerare realizzata l’autonomia scolastica puntando, come punta il Governo, sulla centralità della figura del dirigente scolastico. Con la pervicace riproposizione anche a questo livello di un modello organizzativo incentrato sulla figura del capo che detta e realizza i suoi indirizzi. Si tratta di un modello incompatibile con il principio dell’autonomia delle scuole, perché ripropone il vecchio e fallimentare centralismo e crea il presupposto per la deresponsabilizzazione del personale e la realizzazione di una filiera di comando che rimanda agli organi superiori. Il rilancio dell’autonomia non può invece prescindere dalla valorizzazione dell’offerta formativa, da realizzare anche attraverso la formazione continua del personale e la creazione di un serio e condiviso sistema di valutazione
Come sbagliato e riduttivo è il riassumere il rapporto tra istituzione scolastica e società in un’alternanza tra scuola e lavoro la quale si risolva, come consente il progetto governativo, nel tramutare temporaneamente gli studenti in lavoratori generici e senza diritti, per la messa a disposizione delle imprese di manodopera a costo basso o nullo. Occorre, viceversa, non solo garantire i diritti di chi lavora per studiare, istruirsi e formarsi, ma anche mettere in linea questo lavoro con obiettivi specifici, di cui spetta alla scuola la programmazione; così come occorre il rispetto e la promozione della fatica dei lavoratori-studenti, nonché la garanzia di una formazione ed istruzione permanente, per tutti i lavoratori.
Troppe volte, e in un brevissimo lasso di tempo, la scuola ha “subito riforme”: nel 1997, nel 2003, nel 2008.
L’invito è a prendersi cura della scuola, ritornando a perseguire l’idea di una sua autentica autonomia e libertà, alla quale ripugna ogni eccesso di burocratizzazione e di gerarchizzazione.
A tal riguardo, una domanda conclusiva: perché seguitare a finanziare direttamente o indirettamente le scuole private, favorendone la scelta in assenza di seri controlli sul loro operare ed i suoi effetti, quando non si riesce ad assolvere l’obbligo di sostenere adeguatamente le scuole pubbliche? In realtà, incentivare la frequenza di scuole private, e per giunta affidarsi a finanziamenti privati anche per le scuole pubbliche, vuol dire coltivare l’idea, da respingere come incompatibile con la Costituzione, che oramai si debba rinunciare alla scuola di tutti e di ciascuno. Si tratterebbe di una vera e propria resa della democrazia repubblicana

mercoledì 10 giugno 2015

Inceneritori: oltre al danno anche la beffa

«Nell’agosto 2013 il governo Letta vara un decreto ministeriale per determinare il calcolo dell'efficienza energetica degli impianti di incenerimento. Scrive però numeri divergenti rispetto ai parametri europei: gli inceneritori italiani guadagnano un illecito vantaggio competitivo rispetto agli altri inceneritori europei e viene autorizzata, di fatto, l'emissione nell'aria di una quantità maggiore di inquinanti» spiega Sandra Poppi, che da anni si batte contro il maxi-inceneritore di Modena gestito dalla multiutility Hera, sovradimensionato rispetto alle esigenze locali.
«Cosi, ogni inceneritore in Italia, e anche quello di Modena, che non stia lavorando a pieno regime puo’ importare rifiuti da bruciare sino al tetto massimo consentito, senza più alcun limite per quanto riguarda la provenienza. In Emilia Romagna la capacità totale degli inceneritori è di bruciare oltre 1 milione di tonnellate l'anno. Per il "fabbisogno" interno si bruciano invece "solo" circa 630.000 tonnellate di RSU. Questo significa che, potenzialmente, ci sono altre 400.000 tonnellate di rifiuti speciali da smaltire. Per l’inceneritore di Modena significa che la Società per Azioni Hera potrà bruciare 240.000 tonnellate l’anno di rifiuti e forse più, visto che andranno a saturazione del carico termico. Anche se per le nostre necessità ne basterebbero 130.000! Figurarsi se facessimo il porta a porta con tariffa puntuale, con ulteriore calo di rifiuti indifferenziati prodotti!».
«Nel caso dell'inceneritore di Modena, Medicina Democratica, nel gennaio 2014, denunciò tutto questo e numerose male-interpretazioni delle norme. Con una determinazione provinciale del novembre 2013 la Provincia di Modena ha riconosciuto, su richiesta del gestore Herambiente, l’applicazione al calcolo dell’efficienza energetica di un fattore correttivo (KC) in relazione alle condizioni climatiche dell’area, nella misura di 1,382. Questo riconoscimento è avvenuto sulla base dei contenuti del Decreto del Ministero dell’Ambiente varato appunto durante il governo Letta. Ed è proprio su questo decreto che è intervenuta l'Europa; nel 2014 ha chiesto al governo italiano di cambiare i parametri che erano stati introdotti pe poter arrivare a classificare gli inceneritori di rifiuti come valorizzatori di energia (mossa subdola, nda); la UE ha ritenuto quei parametri non conformi a quelli della direttiva europea Rifiuti del 2008. E sapete cos’ha fatto il governo? Ha aggravato la situazione perché con il decreto Sblocca Italia ha consentito cambi di classificazione degli inceneritori ancora una volta in modo non rispettoso della direttiva europea. Dopo le denunce, la Commissione europea ha avviato una procedura d'indagine, la UE-Pilot 5714/13/ENVI, che è ancora in corso. Le autorità italiane dovranno modificare il DM 7/8/2013, in modo da renderlo compatibile con le nuove disposizioni che verranno adottate, altrimenti una procedura di infrazione può essere aperta dalla Commissione».

Con che serietà, dunque, i governi italiani stanno portando avanti la politica di gestione dei rifiuti? E con quale obiettivo? Che sia l’interesse dei cittadini e dell’ambiente è assai poco probabile!

martedì 9 giugno 2015

Entra nel vivo il blocco degli scrutini contro la "Buona Scuola" di Renzi

Entra nel vivo il blocco degli scrutini indetto da tutti i sindacati, confederali, autonomi e di base, in tutte le scuole italiane contro la cosiddetta “buona scuola” di Renzi e Giannini, tornata al Senato.
Il blocco viene definito dai lavoratori della scuola “l’arma giusta per battere il ddl cattiva scuola, imporre il no al preside padrone e ai quiz e ottenere l’assunzione stabile dei precari”. Una sorta di ulteriore spallata, quella del mondo della scuola, a un premier già abbastanza traballante sul provvedimento, e a quanto pare intenzionato a uscire dalle secche delle contestazioni di piazza e delle possibili imboscate in Senato lasciando ai presidi i superpoteri ma aggiungendovi una sorta di ‘clausola di sicurezza’, imponendo loro il cambio di scuola ogni sei anni, ma senza toccare il tema della collegialita’ scolastica né mettendo in campo un decreto ad hoc che stabilizzi subito i precari, la vera emergenza della scuola. Il confronto tra Domenico Pantaleo, segeretario nazionale Flc Cgil e Rino Capasso, esecutivo nazioanale Cobas scuola.
Per questo da qui al 18 giugno lo sciopero toccherà, Regione per Regione, tutto il Paese.Ogni docente potra’ scioperare la prima ora di ogni suo scrutinio. E’ ‘ sufficiente lo sciopero di un solo docente per far rinviare gli scrutini, a eccezione delle ultime classi, per cui la legge non consente il blocco a causa degli esami di fine anno.
Difficile comunque per ora tenere il conto di tutte le situazioni nelle quali sta riuscendo il blocco delle attività di valutazione, visto che si tengono in maniera non omogenea in diverse regioni italiane.

lunedì 8 giugno 2015

Mafia Capitale… e chi si salva?

Una nuova ondata d’arresti s’è abbattuta sul verminaio di “Mafia Capitale”, minacciando di travolgere la giunta capitolina e scuotendo anche quella regionale. Inutile dire che in quel sistema marcio c’erano dentro tutti, cosiddetta destra e cosiddetta sinistra, accomunate dall’unico obiettivo d’indirizzare un fiume di denaro nelle proprie tasche.
Appalti milionari venivano sistematicamente “aggiustati” per farli vincere agli “amici”; fin qui nulla di nuovo in questa Italia sciagurata, ma quello che stupisce e indigna (chi ancora riesce a farlo) è l’aria di normalità, di tranquilla routine, con cui venivano gestite queste porcate; è quella tavola dell’abbuffata aperta a tutti, purché fossero utili ai compari. Insomma, la più cinica e sfacciata gestione della cosa pubblica, trattata con la naturalezza d’un affare proprio.
Ai fatti c’è ben poco d’aggiungere, si commentano ampiamente da sé, ma c’è qualche riflessione da fare; primo: se cose simili accadono (e ne capitano tutti i santi giorni) è perché il livello di corruzione, di degrado morale, di cinica connivenza generale è divenuto talmente alto e diffuso da far sembrare “naturale” che, stando alle intercettazioni, un politico che oggi è membro del Governo (Castiglione, il sottosegretario all’Agricoltura in quota Ncd) vada a prendere all’aeroporto quello che dovrebbe essere un funzionario del Ministero (Odevaine), lo porti a pranzo e gli faccia trovare al tavolo chi è destinato a vincere una gara stramilionaria per il Cara di Mineo (in Sicilia), il più grande d’Italia, chiudendo “l’affare” fra una portata e l’altra.
Un simile costume, talmente radicato a ogni livello, non si distrugge con semplici proteste e indignazioni che sono destinate a rimanere sterili: occorre un personale politico non soltanto nuovo, ma finalmente selezionato e preparato; in caso contrario, le belle parole e gli slogan rimarranno tali perché saranno sempre i burocrati a tirar le fila, bloccando tutto se non hanno convenienza o continuando i loro traffici alle spalle di politici nuovi, magari ricchi di belle intenzioni, ma ingenui quanto ignoranti anche se onesti, con buona pace di chi crede ancora nei miracoli dei vari “fenomeni”.
Secondo: l’inchiesta, e non solo questa, ha portato alla luce il verminaio che è sorto attorno all’accoglienza dei migranti, un affare sempre più colossale e, piaccia o no, destinato a crescere esponenzialmente.
Quell’enorme giro di soldi vorticoso, gestito sempre con il criterio dell’emergenza, è sistematicamente destinato ad alimentare un patto scellerato fra pseudo-cooperative, politici, faccendieri e criminali. Un mondo delinquenziale che si gonfia sempre più a dismisura e acquisisce potere, e che è una delle principali cause che impediscono un approccio razionale al problema dei migranti, per non parlare della sua soluzione, che eliminerebbe questo business disgustoso.

domenica 7 giugno 2015

Grecia: in 5 anni perso quasi metà del reddito. Atene posticipa pagamenti al FMI

Nei primi cinque anni della crisi e dell’austerity in Grecia, il nucleo famigliare medio ellenico ha perso quasi quattro decimi del proprio reddito.
E’ quanto si evince da uno studio sulla situazione finanziaria delle famiglie elleniche presentato dai suoi autori, Tasos Yiannitsis e Stavros Zografakis, economisti all’Università di Atene e l’Università di Agricultura della capitale greca.
Secondo lo studio – intitolato ‘Grecia: forme di adattamento, la solidarietà e le disuguaglianze nel periodo di crisi’ – la maggior parte delle perdite registrate (il 23,1%) sono state in reddito diretto. Un ulteriore 8,8% è stato perso a causa di una maggiore imposizione fiscale e un altro 7% per l’inflazione non compensata da un aumento del reddito nel periodo 2008-2012. La ricerca – che si basa sulle dichiarazioni dei redditi di 5,2 milioni di contribuenti – sostiene inoltre che nello stesso periodo preso in esame, la percentuale della popolazione greca che vive al di sotto della soglia di povertà è passata dal 27,9% al 31,1%.
“TRATTATIVE” – Al termine di un’altra frenetica giornata di confronti, terminati nella tarda serata di giovedì 4 giugno, slitta intanto al 30 giugno la scadenza di venerdì 5 giugno, per il debito greco con l’Fmi che voleva entro venerdì 300 milioni di euro.
Atene, sfruttando una clausola presente nei trattati, ha posticipato tutti i pagamenti di giugno – quasi 1,6miliardi di euro – a fine mese, in un’unica tranche. Intanto il pressing minaccioso di Fmi, Bce e Ue continua: i creditori chiedono a Tsipras misure ulteriori per 4,5 miliardi di euro a partire da luglio. Si parla della solita ricetta di macelleria sociale: Iva più alta, pensioni e salari più bassi, precarizzazione e privatizzazioni. Un piano però che per Tsipras “non può essere la base per un accordo”.
Tsipras ha proposto un surplus primario (la differenza tra entrate e uscite dello Stato) per il 2015 fra 0,85 e 1% in rialzo fino al 3,5% nel 2018: numeri ormai vicini a quelli proposti dai creditori che però chiedono interventi più draconiani sulla previdenza (dove Tsipras propone un approccio graduale sulle pensioni anticipate), sul rialzo dell’iva (il cui gettito resterebbe invece invariato) e sul lavoro (dove Atene vuole reintrodurre la contrattazione collettiva e il rialzo, progressivo, del salario minimo).
A tarda ora l’ultima telefonata tra Tsipras, Merkel e Hollande: un “colloquio costruttivo”, lo definisce Atene, “le trattative proseguono”. Oggi, venerdì, il premier di Syriza torna in Parlamento, dove alle 18 riferirà sui suoi incontri europei.
L’intervista con Dimitri Deliolanes, corrispondente in Italia della tv pubblica greca Ert, riaperta proprio da Tsipras dopo il taglio imposto dall’Euroausterity.