Nel 2014 la spesa per l’istruzione è scesa al 4,1% del Pil, di fronte
a una media europea del 5,3%. E il 70% dei nostri adulti non raggiunge
un livello minimo e indispensabile di alfabetizzazione. Il Rapporto
sullo Stato sociale 2017
La grande crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 sarebbe una vera e propria “stagnazione secolare”.
A sostenerlo è il Rapporto sullo stato sociale 2017, curato dalla Facoltà di Economia della Sapienza di Roma. La formula, coniata per la prima volta nel 1938 dal celebre economista Alvin Hansen per descrivere gli effetti della “grande depressione” degli anni ’30, sarebbe ora più che mai attuale. Secondo i curatori del rapporto, l’attuale recessione presenterebbe molte analogie con quella che scaturì in seguito al crac di Wall Street del 1929: l’alto tasso di risparmio, i bassi investimenti e il conseguente declino dei tassi di interesse. Tutte condizioni che spingono in basso la domanda, “deprimendola a livelli incompatibili con la crescita”, e vanificano l’effetto di politiche monetarie espansive. Come rilanciare quindi le nostre economie? Il Documento è chiaro: solo con l’ampliamento delle politiche pubbliche, il rilancio del welfare e il potenziamento degli investimenti pubblici possiamo tornare a crescere e tirare un sospiro di sollievo.
E qui cominciano le critiche all’Unione Europea: secondo i curatori dello studio, le politiche sociali comunitarie riflettono “l’inadeguatezza della visione economico – sociale che ha guidato la sua costruzione”. In particolare il contenimento dei bilanci pubblici e la mancanza di investimenti e di piani industriali – in poche parole le politiche di austerity – sono la causa delle scarse performance economiche del Vecchio continente, e non la soluzione. Il veleno scambiato per l’antidoto. Un problema non solo europeo, ma sopratutto italiano, visto che lo studio sottolinea come “la polarizzazione delle condizioni nazionali che ha accompagnato le politiche economiche e sociali affermatesi nell’Unione europea vede l’Italia tra chi ha peggiorato la propria condizione relativa”. Un mix letale che ha portato il nostro Paese nelle condizioni in cui tutti conosciamo.
La Sapienza sottolinea innanzitutto come l’Italia si conferma maglia nera d’Europa per quanto riguarda la spesa per l’istruzione, tra le più basse dell’Unione, e in calo costante: nel 2014 è scesa al 4,1% del Pil rispetto al 4,4, del 2010, di fronte a una media europea del 5,3%. Nel Belpaese si spendono 9300 euro per studente, contro gli 11 mila della Francia, gli 11.500 della Germania e i 14 mila di Austria, Regno Unito e Svezia. Preoccupante anche il tasso di alfabetizzazione dei nostri adulti: secondo il paper , il 70% di questi non raggiunge un livello “minimo e indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali ed economiche”. L’insieme dei dati non rende sorprendente che la popolazione italiana tra i 30 e i 34 anni abbia un livello di istruzione molto sotto la media Ue: solo il 25% ha una laurea, contro il 38,7% della media europea e della soglia del 40% raggiunta dai Paesi membri fondatori, valori che nelle regioni del Mezzogiorno raggiungono il 20%. Un altro aspetto negativo del sistema d’istruzione italiano è il sistema universitario, molto più ristretto rispetto agli altri Paesi europei: nella media Ue ci sono 4,9 istituzioni universitarie per milioni d’abitanti: in Francia sono 5,6, mentre in Germania 3,9; l’Italia è all’ultimo posto con 1,5%. Il primato aspetta invece alle tasse universitarie, pari a un quarto della spesa totale, contro una media europea del 14% dei Pesi europei del 21% dei Paesi Ocse.
Per quanto riguarda la spesa sociale, l’Italia spende il 28,8% rispetto al Pil, una tendenza di poco superiore rispetto alla media europea (28%) Ma la spesa pro capite è in calo e sotto la media: se al dato Eu15 diamo un valore pari a 100, il nostro è sceso di 10 punti nell’arco di 14 anni, da 84 del 2000 a 74 del 2014. I Paesi che spendono di più sono Francia e Danimarca (32,2%), quello che spende meno l’Irlanda (19,3%). Le voci di spesa però sono disomogenee e variano da Paese in Paese: l’Italia registra un record nella spesa pensionistica (18,5% contro 14,7% dell’Ue) e nella spesa per anziani (vicina al 50% insieme a Grecia, Portogallo, Lettonia, Polonia e Romania).
Cattive notizie anche sul fronte della lotta alla povertà: secondo i ricercatori della Sapienza, le persone a rischio esclusione sociale in europa sono 120 milioni (poco meno di un quarto dei cittadini europei), una percentuale che oscilla dal 14% della repubblica Ceca al 41,3% della Bulgaria. Nei Paesi dell’Europa del Sud la tendenza è ancora in crescita rispetto al 2012, anno in cui i poveri stimati in Italia erano 18 milioni, quasi il 30% della popolazione. L’indice comunitario di povertà relativa si attesta invece attorno al 17,3%, mentre quello del Belpaese tocca il 20%. Per quanto riguarda la povertà assoluta, l’Italia ha registrato un miglioramento rispetto al 2015, ma il suo indice è il più alto nell’Ue dopo la Grecia. Forse perchè il nostro Paese, insieme al cugino all’ellenico, è l’unico sprovvisto di una misura universale contro la povertà e di garanzia di reddito minimo. E nonstante ciò, secondo il documento, tali provvedimenti già esistenti, non sarebbero necessari a portare il reddito dei poveri vicino ai valori previsti dall’Eurostat, del 60% del reddito mediano nazionale pro capite – in alcuni Paesi si arriva a malapena al 20%. Tuttavia, secondo la Sapienza, stimare la povertà è molto difficile: questo dipende anche dagli altri tipi di prestazioni connesse al welfare, come la spesa sanitaria, i contributi abitativi e le misure assistenziali – difficilmente quantificabili – e anche le diverse condizioni considerate dai sistemi europei, come l’età, la cittadinanza e il tipo di trasferimento monetario.
Ma quali sono state le poltiche “sbagliate” che hanno fatto precipitare l’Italia al fondo della classifica europea? Secondo il Rapporto in primo luogo le politiche sul lavoro e il varo del Jobs Act , che con l’intenzione di ridurre le tutele per i lavoratori e i contributi ai datori per un triennio, non ha rilanciato, se non solo provvisoriamente, la crescita e l’occupazione. In secondo luogo l’invecchiamento progressivo della popolazione, che genera effetti economici di rilievo per il nostro sistema di welfare; invecchiano anche gli occupati, cosa che ha effetti negativi sul grado di formazione media e sulla produttività, mentre sempre più giovani rimangono senza lavoro (40%) a causa dell’incapacità del nostro sistema di creare nuovi posti di lavoro. Ci sono poi politiche di welfare, inadeguate a creare occupazione e a contrastare la povertà e le diseguaglianze; un sistema sanitario disomogeneo che, sopratutto nel Mezzogiorno, non risponde alle esigenze di salute dei cittadini; una contrazione della spesa pensionistica che comporta anche un impulso depressivo per la domanda. Nel frattempo sempre più giovani, conclude lo studio, cercano lavoro all’estero nonostante gli investimenti – bassi – nell’istruzione del nostro sistema, mentre i risparmi privati delle famiglie italiane si ricongiungono all’estero con la “forza lavoro più istruita”, dove concorrono ad alimentare “sistemi conocrrenziali al nostro”. Il tutto mentre in Italia si punta alla riduzione del costo del lavoro per far sopravvivere imprese che operano in settori maturi, con persone di bassa formazione, di origine perlopiù immigrata, che operano spesso con modalità “irregolari se non malavitose”. Almeno su questo ci spetta il primato.
La grande crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 sarebbe una vera e propria “stagnazione secolare”.
A sostenerlo è il Rapporto sullo stato sociale 2017, curato dalla Facoltà di Economia della Sapienza di Roma. La formula, coniata per la prima volta nel 1938 dal celebre economista Alvin Hansen per descrivere gli effetti della “grande depressione” degli anni ’30, sarebbe ora più che mai attuale. Secondo i curatori del rapporto, l’attuale recessione presenterebbe molte analogie con quella che scaturì in seguito al crac di Wall Street del 1929: l’alto tasso di risparmio, i bassi investimenti e il conseguente declino dei tassi di interesse. Tutte condizioni che spingono in basso la domanda, “deprimendola a livelli incompatibili con la crescita”, e vanificano l’effetto di politiche monetarie espansive. Come rilanciare quindi le nostre economie? Il Documento è chiaro: solo con l’ampliamento delle politiche pubbliche, il rilancio del welfare e il potenziamento degli investimenti pubblici possiamo tornare a crescere e tirare un sospiro di sollievo.
E qui cominciano le critiche all’Unione Europea: secondo i curatori dello studio, le politiche sociali comunitarie riflettono “l’inadeguatezza della visione economico – sociale che ha guidato la sua costruzione”. In particolare il contenimento dei bilanci pubblici e la mancanza di investimenti e di piani industriali – in poche parole le politiche di austerity – sono la causa delle scarse performance economiche del Vecchio continente, e non la soluzione. Il veleno scambiato per l’antidoto. Un problema non solo europeo, ma sopratutto italiano, visto che lo studio sottolinea come “la polarizzazione delle condizioni nazionali che ha accompagnato le politiche economiche e sociali affermatesi nell’Unione europea vede l’Italia tra chi ha peggiorato la propria condizione relativa”. Un mix letale che ha portato il nostro Paese nelle condizioni in cui tutti conosciamo.
La Sapienza sottolinea innanzitutto come l’Italia si conferma maglia nera d’Europa per quanto riguarda la spesa per l’istruzione, tra le più basse dell’Unione, e in calo costante: nel 2014 è scesa al 4,1% del Pil rispetto al 4,4, del 2010, di fronte a una media europea del 5,3%. Nel Belpaese si spendono 9300 euro per studente, contro gli 11 mila della Francia, gli 11.500 della Germania e i 14 mila di Austria, Regno Unito e Svezia. Preoccupante anche il tasso di alfabetizzazione dei nostri adulti: secondo il paper , il 70% di questi non raggiunge un livello “minimo e indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali ed economiche”. L’insieme dei dati non rende sorprendente che la popolazione italiana tra i 30 e i 34 anni abbia un livello di istruzione molto sotto la media Ue: solo il 25% ha una laurea, contro il 38,7% della media europea e della soglia del 40% raggiunta dai Paesi membri fondatori, valori che nelle regioni del Mezzogiorno raggiungono il 20%. Un altro aspetto negativo del sistema d’istruzione italiano è il sistema universitario, molto più ristretto rispetto agli altri Paesi europei: nella media Ue ci sono 4,9 istituzioni universitarie per milioni d’abitanti: in Francia sono 5,6, mentre in Germania 3,9; l’Italia è all’ultimo posto con 1,5%. Il primato aspetta invece alle tasse universitarie, pari a un quarto della spesa totale, contro una media europea del 14% dei Pesi europei del 21% dei Paesi Ocse.
Per quanto riguarda la spesa sociale, l’Italia spende il 28,8% rispetto al Pil, una tendenza di poco superiore rispetto alla media europea (28%) Ma la spesa pro capite è in calo e sotto la media: se al dato Eu15 diamo un valore pari a 100, il nostro è sceso di 10 punti nell’arco di 14 anni, da 84 del 2000 a 74 del 2014. I Paesi che spendono di più sono Francia e Danimarca (32,2%), quello che spende meno l’Irlanda (19,3%). Le voci di spesa però sono disomogenee e variano da Paese in Paese: l’Italia registra un record nella spesa pensionistica (18,5% contro 14,7% dell’Ue) e nella spesa per anziani (vicina al 50% insieme a Grecia, Portogallo, Lettonia, Polonia e Romania).
Cattive notizie anche sul fronte della lotta alla povertà: secondo i ricercatori della Sapienza, le persone a rischio esclusione sociale in europa sono 120 milioni (poco meno di un quarto dei cittadini europei), una percentuale che oscilla dal 14% della repubblica Ceca al 41,3% della Bulgaria. Nei Paesi dell’Europa del Sud la tendenza è ancora in crescita rispetto al 2012, anno in cui i poveri stimati in Italia erano 18 milioni, quasi il 30% della popolazione. L’indice comunitario di povertà relativa si attesta invece attorno al 17,3%, mentre quello del Belpaese tocca il 20%. Per quanto riguarda la povertà assoluta, l’Italia ha registrato un miglioramento rispetto al 2015, ma il suo indice è il più alto nell’Ue dopo la Grecia. Forse perchè il nostro Paese, insieme al cugino all’ellenico, è l’unico sprovvisto di una misura universale contro la povertà e di garanzia di reddito minimo. E nonstante ciò, secondo il documento, tali provvedimenti già esistenti, non sarebbero necessari a portare il reddito dei poveri vicino ai valori previsti dall’Eurostat, del 60% del reddito mediano nazionale pro capite – in alcuni Paesi si arriva a malapena al 20%. Tuttavia, secondo la Sapienza, stimare la povertà è molto difficile: questo dipende anche dagli altri tipi di prestazioni connesse al welfare, come la spesa sanitaria, i contributi abitativi e le misure assistenziali – difficilmente quantificabili – e anche le diverse condizioni considerate dai sistemi europei, come l’età, la cittadinanza e il tipo di trasferimento monetario.
Ma quali sono state le poltiche “sbagliate” che hanno fatto precipitare l’Italia al fondo della classifica europea? Secondo il Rapporto in primo luogo le politiche sul lavoro e il varo del Jobs Act , che con l’intenzione di ridurre le tutele per i lavoratori e i contributi ai datori per un triennio, non ha rilanciato, se non solo provvisoriamente, la crescita e l’occupazione. In secondo luogo l’invecchiamento progressivo della popolazione, che genera effetti economici di rilievo per il nostro sistema di welfare; invecchiano anche gli occupati, cosa che ha effetti negativi sul grado di formazione media e sulla produttività, mentre sempre più giovani rimangono senza lavoro (40%) a causa dell’incapacità del nostro sistema di creare nuovi posti di lavoro. Ci sono poi politiche di welfare, inadeguate a creare occupazione e a contrastare la povertà e le diseguaglianze; un sistema sanitario disomogeneo che, sopratutto nel Mezzogiorno, non risponde alle esigenze di salute dei cittadini; una contrazione della spesa pensionistica che comporta anche un impulso depressivo per la domanda. Nel frattempo sempre più giovani, conclude lo studio, cercano lavoro all’estero nonostante gli investimenti – bassi – nell’istruzione del nostro sistema, mentre i risparmi privati delle famiglie italiane si ricongiungono all’estero con la “forza lavoro più istruita”, dove concorrono ad alimentare “sistemi conocrrenziali al nostro”. Il tutto mentre in Italia si punta alla riduzione del costo del lavoro per far sopravvivere imprese che operano in settori maturi, con persone di bassa formazione, di origine perlopiù immigrata, che operano spesso con modalità “irregolari se non malavitose”. Almeno su questo ci spetta il primato.
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