Essere uno stato, piccolo o grande non importa, vuole sempre dire una
cosa molto semplice: avere sovranità territoriale, ossia la capacità di
agire all’interno dei propri confini in base alla volontà di chi abita
nel proprio territorio, senza rispondere agli ordini di qualcun altro.
Dopo un’epoca in cui i vicinati si sono fusi o sono stati percepiti come
destinati a fondersi in unità più grandi chiamate stati-nazione (con in
agguato la prospettiva di un’unificazione e di un’omogeneizzazione
della cultura, della legge, della politica e della vita umane in un
futuro che, se non era immediato, sarebbe senza dubbio giunto), dopo la
lunga guerra dichiarata dai grandi ai piccoli, dallo stato al locale e
al “parrocchiale”, entriamo ora nell’epoca della “sussidiarizzazione”,
in cui gli stati non vedono l’ora di scaricare i propri doveri, le
proprie responsabilità e - grazie alla globalizzazione
e alla nascente situazione cosmopolitica - il compito ingrato di riportare il caos all’ordine, mentre le vecchie località e i vecchi comuni serrano i ranghi per assumersi queste responsabilità e battersi per qualcosa in più.
L’indicatore più vistoso, carico di conflitto e potenzialmente esplosivo del momento presente e la volontà di rinunciare alla visione kantiana di una futura Burgerliche Vereinigung der Menschheit, un’unificazione civile dell’umanità, che coincide con la realtà della globalizzazione avanzata e imperante della finanza, dell’industria, del commercio, dell’informazione e di ogni forma di violazione della legge.
A cio si associa il confronto di uno spirito e di un sentimento klein aber mein (“piccolo, ma mio”) con il dato di una condizione esistenziale sempre più cosmopolita. In seguito alla globalizzazione e alla divisione dei poteri politici che ne deriva, infatti, gli stati si stanno trasformando in vicinati piuttosto grandi, compressi all’interno di confini permeabili, tracciati in modo vago e difesi in modo inefficiente. Nel mentre, i vicinati di una volta - considerati sul punto di essere cestinati dalla storia, insieme a tutti gli altri pouvoirs intermediaires — lottano per assumere il ruolo di “piccoli stati”, sfruttando al meglio cio che rimane delle politiche quasi-locali e dell’inalienabile prerogativa monopolista, un tempo gelosamente custodita dallo stato, di dividere “noi” da “loro” (e viceversa). Il “progresso”, per questi piccoli stati, si riduce a un “ritorno alle tribù”.
In un territorio popolato da tribù, le parti in conflitto evitano e rinunciano senza esitazione a convincersi e a convertirsi a vicenda; l’inferiorità di un membro — di un membro qualsiasi — di una tribù straniera è e deve restare una debolezza predestinata, eterna e incurabile, o almeno deve essere vista e trattata come tale. L’inferiorità dell’altra tribù è la sua condizione permanente e irreparabile, il suo stigma indelebile destinato a vincere ogni tentativo di riabilitazione.
Una volta che la divisione tra “noi” e “loro” è stata istituita secondo queste regole, lo scopo di ogni incontro fra gli antagonisti non è più lo stemperamento, ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove del fatto che qualsiasi stemperamento è irragionevole e fuori questione. Preoccupati di non svegliare il can che dorme e di evitare le sventure, i membri delle tribù bloccate nel circolo di superiorità/inferiorità non si parlano ma si ignorano. Per coloro che risiedono (o sono stati esiliati) nelle zone grigie di frontiera, la condizione di «essere sconosciuti e dunque minacciosi» e l’effetto della loro intrinseca o ipotetica resistenza o sottrazione alle categorie cognitive utilizzate come pilastri dell’“ordine” e della “stabilità”.
Il loro peccato capitale o il loro crimine imperdonabile consiste nell’essere la causa di una difficoltà mentale e pragmatica, derivata dalla confusione comportamentale che essi non possono non produrre (qui si può pensare a Ludwig Wittgenstein, che faceva consistere il comprendere nel sapere come andare avanti). Inoltre, questo peccato incontra ostacoli formidabili nella sua redenzione, per via del “nostro” testardo rifiuto di instaurare con “loro” un dialogo teso ad affrontare e a superare l’iniziale impossibilità della comprensione. L’assegnamento alle zone grigie è un processo autoalimentantesi messo in moto e intensificato dal venir meno o, meglio, dal rifiuto a priori della comunicazione.
Elevare la difficoltà della comprensione al rango di un’istanza o di un dovere morale imposto da Dio o dalla storia è, dopotutto, la prima causa e uno stimolo fondamentale alla definizione e al rafforzamento dei confini che “ci” separano da “loro”, anche se non su base esclusivamente etnica o religiosa, e della funzione fondamentale a cui devono assolvere. Come interfaccia tra i due contendenti, la zona grigia dell’ambiguità e dell’ambivalenza rappresenta inevitabilmente il territorio principale — e troppo spesso unico — su cui si proiettano le implacabili ostilità e si combattono le battaglie tra “noi” e “loro”.
Ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, papa Francesco — forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra — ha dichiarato: «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” ( Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione».
Subito dopo, papa Francesco aggiunge una frase che contiene un altro messaggio strettamente connesso alla cultura del dialogo, come sua autentica conditio sine qua non: «Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i percorsi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà a inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui le stiamo abituando». Ponendo una cultura del dialogo come compito educativo e chiamando noi al ruolo di insegnanti, egli afferma senza ambiguità che i problemi che oggi ci affliggono sono destinati a durare ancora a lungo — problemi che cerchiamo invano di risolvere nei modi a cui siamo abituati, ma per i quali la cultura del dialogo ha una chance di trovare soluzioni più umane (e, auspicabilmente, più efficaci).
Un vecchio proverbio cinese, ancora molto attuale, invita chi di noi è preoccupato per l’anno a venire a seminare grano e chi invece si preoccupa per i prossimi cento anni a educare le persone. I problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento. Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.
e alla nascente situazione cosmopolitica - il compito ingrato di riportare il caos all’ordine, mentre le vecchie località e i vecchi comuni serrano i ranghi per assumersi queste responsabilità e battersi per qualcosa in più.
L’indicatore più vistoso, carico di conflitto e potenzialmente esplosivo del momento presente e la volontà di rinunciare alla visione kantiana di una futura Burgerliche Vereinigung der Menschheit, un’unificazione civile dell’umanità, che coincide con la realtà della globalizzazione avanzata e imperante della finanza, dell’industria, del commercio, dell’informazione e di ogni forma di violazione della legge.
A cio si associa il confronto di uno spirito e di un sentimento klein aber mein (“piccolo, ma mio”) con il dato di una condizione esistenziale sempre più cosmopolita. In seguito alla globalizzazione e alla divisione dei poteri politici che ne deriva, infatti, gli stati si stanno trasformando in vicinati piuttosto grandi, compressi all’interno di confini permeabili, tracciati in modo vago e difesi in modo inefficiente. Nel mentre, i vicinati di una volta - considerati sul punto di essere cestinati dalla storia, insieme a tutti gli altri pouvoirs intermediaires — lottano per assumere il ruolo di “piccoli stati”, sfruttando al meglio cio che rimane delle politiche quasi-locali e dell’inalienabile prerogativa monopolista, un tempo gelosamente custodita dallo stato, di dividere “noi” da “loro” (e viceversa). Il “progresso”, per questi piccoli stati, si riduce a un “ritorno alle tribù”.
In un territorio popolato da tribù, le parti in conflitto evitano e rinunciano senza esitazione a convincersi e a convertirsi a vicenda; l’inferiorità di un membro — di un membro qualsiasi — di una tribù straniera è e deve restare una debolezza predestinata, eterna e incurabile, o almeno deve essere vista e trattata come tale. L’inferiorità dell’altra tribù è la sua condizione permanente e irreparabile, il suo stigma indelebile destinato a vincere ogni tentativo di riabilitazione.
Una volta che la divisione tra “noi” e “loro” è stata istituita secondo queste regole, lo scopo di ogni incontro fra gli antagonisti non è più lo stemperamento, ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove del fatto che qualsiasi stemperamento è irragionevole e fuori questione. Preoccupati di non svegliare il can che dorme e di evitare le sventure, i membri delle tribù bloccate nel circolo di superiorità/inferiorità non si parlano ma si ignorano. Per coloro che risiedono (o sono stati esiliati) nelle zone grigie di frontiera, la condizione di «essere sconosciuti e dunque minacciosi» e l’effetto della loro intrinseca o ipotetica resistenza o sottrazione alle categorie cognitive utilizzate come pilastri dell’“ordine” e della “stabilità”.
Il loro peccato capitale o il loro crimine imperdonabile consiste nell’essere la causa di una difficoltà mentale e pragmatica, derivata dalla confusione comportamentale che essi non possono non produrre (qui si può pensare a Ludwig Wittgenstein, che faceva consistere il comprendere nel sapere come andare avanti). Inoltre, questo peccato incontra ostacoli formidabili nella sua redenzione, per via del “nostro” testardo rifiuto di instaurare con “loro” un dialogo teso ad affrontare e a superare l’iniziale impossibilità della comprensione. L’assegnamento alle zone grigie è un processo autoalimentantesi messo in moto e intensificato dal venir meno o, meglio, dal rifiuto a priori della comunicazione.
Elevare la difficoltà della comprensione al rango di un’istanza o di un dovere morale imposto da Dio o dalla storia è, dopotutto, la prima causa e uno stimolo fondamentale alla definizione e al rafforzamento dei confini che “ci” separano da “loro”, anche se non su base esclusivamente etnica o religiosa, e della funzione fondamentale a cui devono assolvere. Come interfaccia tra i due contendenti, la zona grigia dell’ambiguità e dell’ambivalenza rappresenta inevitabilmente il territorio principale — e troppo spesso unico — su cui si proiettano le implacabili ostilità e si combattono le battaglie tra “noi” e “loro”.
Ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, papa Francesco — forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra — ha dichiarato: «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” ( Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione».
Subito dopo, papa Francesco aggiunge una frase che contiene un altro messaggio strettamente connesso alla cultura del dialogo, come sua autentica conditio sine qua non: «Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i percorsi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà a inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui le stiamo abituando». Ponendo una cultura del dialogo come compito educativo e chiamando noi al ruolo di insegnanti, egli afferma senza ambiguità che i problemi che oggi ci affliggono sono destinati a durare ancora a lungo — problemi che cerchiamo invano di risolvere nei modi a cui siamo abituati, ma per i quali la cultura del dialogo ha una chance di trovare soluzioni più umane (e, auspicabilmente, più efficaci).
Un vecchio proverbio cinese, ancora molto attuale, invita chi di noi è preoccupato per l’anno a venire a seminare grano e chi invece si preoccupa per i prossimi cento anni a educare le persone. I problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento. Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.
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