domenica 10 maggio 2015

LA CRISI DEL CAPITALISMO

Se da un lato l’opinione di molti esperti diverge sulle cause, le conseguenze e le soluzioni da applicare in merito alla crisi economica attuale; dall’altro un fattore li accomuna: il sistema capitalistico è in crisi. Come ha affermato il sociologo, scrittore e docente italiano Luciano Gallino nel suo libro Finanzcapitalismo – La civiltà del denaro in crisi “la crisi economica (ma anche culturale e politica) che stiamo vivendo è la crisi di questa civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario.” Ma come si è arrivati a questa situazione in cui il sistema finanziario, come afferma Gallino, domina la nostra civiltà? E cosa si intende, esattamente, per “finanzcapitalismo”? Prima di tutto cominciamo definendo cosa si intende per “capitalismo”, più precisamente con “economia di tipo capitalistico”. L’economia capitalista è un’economia di mercato, basata cioè sulla produzione e la vendita di grandi quantità di merci. Il principio guida di tale organizzazione è il profitto, ovvero l’accumulazione attraverso le attività di mercato di un surplus finanziario rispetto al capitale originario, impiegato per la produzione e/o la commercializzazione delle merci.
In un periodo nel quale ci si interroga sulla crisi di tale sistema torna sicuramente attuale il pensiero di un filosofo dell’Ottocento che di questo sistema aveva previsto il crollo: Karl Marx. Il filosofo tedesco definisce il capitale come un accaparramento illecito di denaro a danno dei lavoratori: più precisamente il modo di produzione capitalistico, inteso come un enorme produzione e raccolta di merci, è finalizzato non al consumo, bensì al profitto. Infatti a un’economia di consumo tipica della società mercantile, sintetizzata dalla formula M-D-M (dove “M” sta per merce, “D” per denaro), è subentrata un’economia di profitto, data dallo schema D-M-D’ (dove D’ è maggiore di D). In questo secondo tipo di economia, finalizzata all’aumento di denaro, anche il lavoro diventa merce, che viene comprata in cambio di un salario calcolato sul minimo necessario per la sussistenza e, quindi, solo in base a una parte del lavoro impiegato dall’operaio: ciò genera plusvalore e quindi profitto per il capitalista. Tuttavia il capitalista, per poter dirigere la fabbrica e abbattere la concorrenza, è costretto a investire anche in impianti, macchine e materie prime (ovvero il cosiddetto “capitale costante”) pertanto il saggio (o tasso, percentuale) di profitto, che nasce dal rapporto tra plusvalore e la somma tra capitale variabile (salari) e capitale costante, subirà una tendenziale caduta. Con la conseguente concentrazione del capitale in poche mani a causa del fallimento di numerose industrie, la massa dei proletari crescerà sempre di più: secondo Marx “la borghesia crea ciò che la distruggerà: il proletariato”, che sfocerà nel comunismo.
Il primo grande evento che testimoniò l’avvenuta globalizzazione capitalistica delle merci e dei capitali, preannunciata da Marx nella prima metà dell’Ottocento, fu la crisi del ’29: una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni venti. In un contesto storico in cui, in seguito alla prima guerra mondiale, l’Europa cedette il primato economico agli Stati Uniti d’America (creditori di guerra) avvenne proprio nel Nord America il cosiddetto “boom borsistico”, caratterizzato da una fiducia illimitata nella crescita della ricchezza. Ciò generò un clima di euforia sui mercati azionari: oltre alle grandi imprese che, producendo più di quanto i mercati non fossero in grado di assorbire, preferirono investire in Borsa; anche i piccoli azionisti avevano la possibilità di comprare delle quote in Borsa sfruttando i tassi di interesse bassissimi. Una corsa speculativa che, non essendo regolata in alcun modo, crollò in un “giovedì nero” dell’ottobre del ’29: la Federal Reserve, che fino a quel momento aveva promesso alle banche di dilatare i loro debiti, rialzò il tasso di interesse causando una fortissima diminuzione delle quotazioni: chiunque si affrettò a vendere le proprie azioni, ormai prive di valore, innescando una crisi senza precedenti. I prezzi crollarono, le banche fallirono, la produzione si dimezzò, la disoccupazione balzò alle stelle. Due le strade che i governi adottarono in funzione anti-crisi: una politica di tipo deflazionistico (con una moneta forte e il contenimento della spesa pubblica, ma favorendo la disoccupazione) oppure una politica di incremento della spesa pubblica (con la svalutazione della moneta, l’aumento di consumi e occupazione, ma ampliando i deficit di bilancio).
Fautore di quest’ultima corrente di pensiero fu l’economista inglese John Maynard Keynes che, nell’opera intitolata Teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta, promosse un ruolo attivo dello stato in campo economico. Denominatore comune delle sue ricette anti-crisi, l’occupazione: “il capitalismo non crea l’occupazione, ma viceversa”. Ad applicare le teorie keynesiane per uscire dalla crisi fu l’allora presidente degli Stati Uniti d’America F.D. Roosevelt con il “New Deal”: il sistema creditizio venne sottoposto a rigidi controlli, venne promossa la costruzione di grandi opere pubbliche e allestito un sistema di previdenza sociale. Queste misure comportarono un ingente aumento della spesa pubblica, ma favorirono la ripresa dell’economia americana in un quadro di conservata democrazia. I fantasmi della grande crisi del 1929, che Roosevelt era riuscito a scacciare, tornarono però ad aleggiare nel 2007 con il crollo dei beni immobili: un vero e proprio annus horribilis che ha segnato l’entrata nella crisi del cosiddetto “finanzcapitalismo”. Ma cosa si intende esattamente per “finanzcapitalismo”? A differenza della prima grande crisi economica e finanziaria, quella del 1929, che aveva un carattere industriale; quella scoppiata nel 2007 ha, invece, un carattere finanziario. A partire dagli anni ’80 infatti la componente finanziaria ha preso un sopravvento sempre più marcato sulla componente produttiva delle merci dando vita a un sistema con lo scopo di massimizzare il valore estraibile dal maggior numero possibile di esseri umani e dalla natura: mentre il capitalismo industriale produceva accumulazione, come affermato da Marx, secondo il sistema D-M-D’ con l’industria manifatturiera come motore, quello finanziario produce accumulazione impiegando denaro per produrre una maggior quantità di denaro, senza passare per le merci e ha come motore il sistema finanziario stesso (D-D’). E alla sua base c’è il massiccio impiego in un’attività speculativa, basata sul debito privato e pubblico (basti pensare che nel 1980 gli attivi finanziari erano equivalenti al PIL mondiale, mentre nel 2007 lo superavano di oltre quattro volte).
Un’attività speculativa dovuta al fatto che la politica, invece di regolare l’economia, ha adattato la società all’economia: la deregulation di Ronald Reagan negli USA e il “thatcherismo” in Inghilterra degli anni ’80 hanno contribuito, adottando politiche economiche ultraliberiste, a favorire l’attività speculativa di banche e privati non più regolati dallo stato (“il governo non è la soluzione al problema, il governo è il problema” affermava Ronald Reagan).
Questa evoluzione del capitalismo da industriale a finanziario ha fatto sì che gli interessi finanziari diventassero una parte molto più forte del tutto con il settore industriale, e quindi il lavoro, che si ritrova con le spalle al muro. Le ragioni del declino dell’economia capitalista, dunque, si collocano nell’utilizzo sempre più consistente (fatto inevitabile a partire dalla logica concorrenziale che caratterizza questo tipo di sistema economico) della tecnologia come strumento di produzione delle merci, con la conseguente decrescita dell’impiego della manodopera salariata.
In questo contesto il benessere sociale decresce: o meglio, il declino tendenziale dei profitti capitalistici può essere considerato una conseguenza diretta delle minori risorse economiche dei lavoratori. E l’attuale rivoluzione tecnologica non aiuta: se per lungo tempo la maggior parte degli economisti, sulla base di quanto osservato dopo la prima rivoluzione industriale, ha dato per certa la relazione positiva tra innovazione tecnologica e innalzamento occupazionale e salariale, oggigiorno comincia a delinearsi un secondo filone di pensiero secondo cui, invece, nell’attuale era dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informatica il potenziale dell’automazione potrebbe portare a uno scenario meno positivo rispetto a quello osservato nello scorso secolo. Lo ha affermato anche l’ex premier Romano Prodi in un’intervista rilasciata su “La Repubblica”: «a differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro. Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto». L’automazione dei processi produttivi minaccia l’occupazione nelle fabbriche e negli uffici e, come ha scritto il giornalista britannico John Lanchester nel “London Review of Books”, “potrebbe far nascere un mondo in cui la ricchezza si concentrerà nelle mani di chi controlla le macchine, mentre la vita di tutti gli altri diventerà più precaria”, arrivando alla conclusione che “è il capitale che ha tratto il maggior profitto dalla produttività, non la forza lavoro”.
Per uscire da questa situazione bisognerà cercare delle alternative: la soluzione è quella di uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? La questione rimane aperta perché, come diceva il noto economista britannico John Maynard Keynes, “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.”

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