Un bagnino di 19 anni racconta al Fatto che, per assistere i bagnanti
dalle 8 del mattino alle 8 di sera, sarà pagato con i voucher lavoro.
“Faccio orario completo per tre mesi e il datore di lavoro mi paga a
fine stagione – racconta –. Mi dà 2 mila euro tutti in voucher. Poi mi
richiama l’anno dopo”. Il ragazzo, per riscuoterli, dice che dovrà
andare in almeno dieci diverse tabaccherie. O dividersi tra posta, banca
e tabaccai. “Altrimenti si insospettiscono – dice –. Non che cambi
nulla. Lo sanno tutti come funziona il sistema dei voucher. O mi
accontento di questo metodo oppure il capo chiama un altro. Lavorare qui
è sempre meglio che stare a casa senza fare niente”. E con il Jobs Act,
l’uso dei voucher è destinato ad aumentare.
Secondo i dati dell’Inps, l’Istituto nazionale di previdenza sociale, in totale sono stati venduti 69.183.825 di voucher. Considerando che l’Italia ha 60 milioni abitanti circa, è come se ogni italiano ne avesse utilizzato almeno uno. E il volume economico che producono è pari a circa 70 miliardi di euro. Ad aprile 2012, in circolazione c’erano poco meno di 29 milioni di buoni lavoro. Nel 2013 si era arrivati a 43 milioni. “È la più grande operazione di lavoro nero legalizzato che ci sia nel nostro Paese – spiega Gugliemo Loy, segretario confederale della Uil –. Non si può neanche parlare di vero rapporto di lavoro: i vincoli sull’uso dei voucher sono minimi. Ci sono solo i tetti: il datore di lavoro può elargire al massimo 2 mila euro in voucher per ogni lavoratore, il lavoratore può guadagnare in voucher non più di 5 mila euro all’anno. Ma il datore di lavoro non ha limiti per quanto riguarda il numero di persone che può pagare con i voucher. Quindi potrebbe anche cambiarne uno al giorno e utilizzarne 300 all’anno”.
L’uso dei buoni lavoro è legato al cosiddetto lavoro occasionale accessorio, cioè quello che genera un reddito netto inferiore a 5 mila euro all’anno. Un voucher costa 10 euro e corrisponde al pagamento di un’ora di lavoro: 7,50 euro vanno al lavoratore, 1,30 euro alla gestione separata dell’Inps, 70 centesimi sono destinati all’assicurazione Inail e il resto compensa la gestione del servizio. L’intento con cui furono introdotti, nel 2003, era quello di limitare il lavoro nero e riuscire a tassare alcune attività saltuarie come il giardinaggio, l’assistenza domestica, le ripetizioni private e gli altri tipi di impieghi occasionali indicati nel decreto 276 del 2003. Poi, di legge in legge, di decreto in decreto, di circolare in circolare, le limitazioni sono cadute. Le prestazioni di lavoro accessorio sono stata estese a quasi tutti i settori produttivi e a tutte le categorie di lavoratori. E con il diminuire dei vincoli, è aumentato il ricorso a questo tipo di rapporto di lavoro.
“La formula funziona – spiega Elvira Massimiano, responsabile delle politiche del lavoro di Confesercenti – soprattutto nei casi in cui le imprese non riescono a far fronte al carico di lavoro con il personale fisso”. Per la Massimiano, poi, il tetto di 2 mila euro per le imprese è in alcuni casi troppo stringente. “Se fosse più alto, molte categorie ne beneficerebbero. Penso ai tirocinanti e ai praticanti: potrebbero essere pagati per il lavoro in più che fanno. Si porterebbe alla luce molto lavoro nero. Ed è una formula che il Jobs Act sta incentivando”. Secondo Confesercenti, i voucher lavoro sono utilizzati specie nei casi in cui il datore non riesce a sostenere i carichi di lavoro ricorrendo ai dipendenti regolarmente assunti. “È il caso dei weekend e della stagione estiva per le attività del settore del turismo – dice, ma ammettendo anche che si tratta dell’approdo degli imprenditori in difficoltà per la crisi –. Quando un’azienda non può fare una programmazione a lunga durata sui costi del personale, i voucher sono una salvezza”. Negli anni la vendita più estesa dei buoni lavoro è stata registrata nei settori del commercio, del turismo, dei servizi e di altre attività. Il primo decreto legge prevedeva, negli articoli dal 70 al 73, che il lavoro occasionale accessorio, pagato con i voucher, fosse riservato a “piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, all’insegnamento privato supplementare, ai piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, alla realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli, alla collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà”. L’intenzione iniziale, però, è stata tanto snaturata che oggi questi settori rappresentano il minor campo di applicazione per i voucher lavoro. E il Jobs Act prevede proprio l’abrogazione degli articoli dal 70 al 73 del 276 del 2003.
“Quella dei voucher – spiega Corrado Barachetti, responsabile mercato del lavoro della Cgil – è diventata una politica principe di questo governo. Deve essere messa in cima alla scala della precarietà. Il recente abbozzo delle riforme contrattuali, con accento sul lavoro accessorio, rivede le tabelle pre Fornero e, alzando il tetto massimo di guadagno, genera solo un aumento del lavoro precario”. Nel riordino dei contratti previsto nel Jobs Act, infatti, i buoni subiranno un’ulteriore liberalizzazione. La bozza del decreto analizzata in consiglio dei ministri lo scorso 20 febbraio prevede che il limite di guadagno netto annuo per la definizione del lavoro occasionale accessorio passi da 5 mila a 7 mila euro. Secondo i rilievi della Uil i voucher producono 70 milioni di euro di elusione fiscale ogni anno: gli oltre 46 mila lavoratori pagati con i voucher genererebbero un mancato gettito dell’Irpef, l’imposta sul reddito, pari a 57,8 milioni di euro e un mancato gettito dell’Irap, imposta sulle attività produttive, di 12,2 milioni. “Il voucher non è imponibile per l’Irap e il lavoratore è esentasse – dice Loy della Uil – ed è pertanto un sistema che spinge i lavoratori verso il basso. Altro che contratti a tutele crescenti. Le aziende possono accordarsi e scambiarsi i dipendenti e, come se non bastasse, creano un danno alle casse dello Stato”.
Sul sito stranierinitalia, un utente chiede agli esperti: “Al momento ho un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Ho trovato una persona che mi prende come baby sitter e mi paga con i buoni lavoro. Posso richiedere il rilascio del permesso di soggiorno con questo lavoro?” La risposta è “no”, nonostante la maggior parte degli stranieri (quella non pagata in nero) sia retribuita proprio con questa forma di pagamento. Il reddito percepito con il lavoro accessorio ha un’utilità esclusivamente integrativa. Con i buoni lavoro, insomma, non si hanno diritti: non si matura il Tfr, il trattamento di fine rapporto, non si maturano ferie, non si ha diritto alle indennità di malattia e di maternità, né agli assegni familiari. “Fino a due anni fa – spiega Isabella Pavolucci, della Filcam di Rimini – avevamo registrato un aumento del lavoro a intermittenza, quello cioè che permette al datore di chiamare il dipendente quando ne ha bisogno. Non era il massimo per il lavoratore, ma perlomeno poteva contare sulle garanzie e le tutele di un contratto. Invece abbiamo notato che parallelamente all’aumento della vendita dei voucher e alla loro graduale liberalizzazione, c’è stata una conseguente diminuzione di questo tipo di contratti”. E con il Jobs Act, dicono tutti, sarà anche peggio.
Per rendere più tracciabili i voucher, sarà introdotto l’obbligo per le aziende di acquistare i buoni solo con modalità telematiche e quello di comunicare alla Direzione territoriale del lavoro il luogo della prestazione e l’arco temporale in cui sarà usato (che non può superare i trenta giorni successivi all’acquisto). “In questo modo l’Inps crede di poter controllare la domanda – spiega Barachetti della Cgil –. Ma in realtà è una stupidaggine. Prima si acquistavano in tabaccheria, ora per via telematica. Forse così si assicura in automatico il contributo all’Inps ma non c’è alcuna operazione di controllo aggiuntiva. Il committente può prendere un voucher e farlo valere per due, tre, quattro prestazioni. Può far lavorare il dipendente 10 ore e pagarlo con soli cinque voucher”. Uno dei maggiori problemi dei voucher lavoro è legato ai controlli. L’ispettore del lavoro non può verificare orario d’inizio e fine del lavoro, limitandosi ad appurare che siano stati pagati i contributi. Inoltre, sempre il Jobs Act prevede la nascita di un’agenzia unica ispettiva del lavoro che dovrà occuparsi di sicurezza, infortuni, contribuzione e rispetto delle norme contrattuali. “Gli ispettori non riusciranno mai ad acquisire competenze complete in tutti e tre i fronti – commenta Barachetti – né a tenere sotto controllo in modo efficiente aziende e imprese. Quest’agenzia, prima di nascere, sembra già essere depotenziata. Inoltre, tutti gli ispettori nominati che avrebbero dovuto entrare in ruolo quest’anno, sono ancora precari. Non è previsto un euro per loro. Già sono sotto organico, figuriamoci se riusciranno a vigilare anche sui voucher”.
Secondo i dati dell’Inps, l’Istituto nazionale di previdenza sociale, in totale sono stati venduti 69.183.825 di voucher. Considerando che l’Italia ha 60 milioni abitanti circa, è come se ogni italiano ne avesse utilizzato almeno uno. E il volume economico che producono è pari a circa 70 miliardi di euro. Ad aprile 2012, in circolazione c’erano poco meno di 29 milioni di buoni lavoro. Nel 2013 si era arrivati a 43 milioni. “È la più grande operazione di lavoro nero legalizzato che ci sia nel nostro Paese – spiega Gugliemo Loy, segretario confederale della Uil –. Non si può neanche parlare di vero rapporto di lavoro: i vincoli sull’uso dei voucher sono minimi. Ci sono solo i tetti: il datore di lavoro può elargire al massimo 2 mila euro in voucher per ogni lavoratore, il lavoratore può guadagnare in voucher non più di 5 mila euro all’anno. Ma il datore di lavoro non ha limiti per quanto riguarda il numero di persone che può pagare con i voucher. Quindi potrebbe anche cambiarne uno al giorno e utilizzarne 300 all’anno”.
L’uso dei buoni lavoro è legato al cosiddetto lavoro occasionale accessorio, cioè quello che genera un reddito netto inferiore a 5 mila euro all’anno. Un voucher costa 10 euro e corrisponde al pagamento di un’ora di lavoro: 7,50 euro vanno al lavoratore, 1,30 euro alla gestione separata dell’Inps, 70 centesimi sono destinati all’assicurazione Inail e il resto compensa la gestione del servizio. L’intento con cui furono introdotti, nel 2003, era quello di limitare il lavoro nero e riuscire a tassare alcune attività saltuarie come il giardinaggio, l’assistenza domestica, le ripetizioni private e gli altri tipi di impieghi occasionali indicati nel decreto 276 del 2003. Poi, di legge in legge, di decreto in decreto, di circolare in circolare, le limitazioni sono cadute. Le prestazioni di lavoro accessorio sono stata estese a quasi tutti i settori produttivi e a tutte le categorie di lavoratori. E con il diminuire dei vincoli, è aumentato il ricorso a questo tipo di rapporto di lavoro.
“La formula funziona – spiega Elvira Massimiano, responsabile delle politiche del lavoro di Confesercenti – soprattutto nei casi in cui le imprese non riescono a far fronte al carico di lavoro con il personale fisso”. Per la Massimiano, poi, il tetto di 2 mila euro per le imprese è in alcuni casi troppo stringente. “Se fosse più alto, molte categorie ne beneficerebbero. Penso ai tirocinanti e ai praticanti: potrebbero essere pagati per il lavoro in più che fanno. Si porterebbe alla luce molto lavoro nero. Ed è una formula che il Jobs Act sta incentivando”. Secondo Confesercenti, i voucher lavoro sono utilizzati specie nei casi in cui il datore non riesce a sostenere i carichi di lavoro ricorrendo ai dipendenti regolarmente assunti. “È il caso dei weekend e della stagione estiva per le attività del settore del turismo – dice, ma ammettendo anche che si tratta dell’approdo degli imprenditori in difficoltà per la crisi –. Quando un’azienda non può fare una programmazione a lunga durata sui costi del personale, i voucher sono una salvezza”. Negli anni la vendita più estesa dei buoni lavoro è stata registrata nei settori del commercio, del turismo, dei servizi e di altre attività. Il primo decreto legge prevedeva, negli articoli dal 70 al 73, che il lavoro occasionale accessorio, pagato con i voucher, fosse riservato a “piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, all’insegnamento privato supplementare, ai piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, alla realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli, alla collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà”. L’intenzione iniziale, però, è stata tanto snaturata che oggi questi settori rappresentano il minor campo di applicazione per i voucher lavoro. E il Jobs Act prevede proprio l’abrogazione degli articoli dal 70 al 73 del 276 del 2003.
“Quella dei voucher – spiega Corrado Barachetti, responsabile mercato del lavoro della Cgil – è diventata una politica principe di questo governo. Deve essere messa in cima alla scala della precarietà. Il recente abbozzo delle riforme contrattuali, con accento sul lavoro accessorio, rivede le tabelle pre Fornero e, alzando il tetto massimo di guadagno, genera solo un aumento del lavoro precario”. Nel riordino dei contratti previsto nel Jobs Act, infatti, i buoni subiranno un’ulteriore liberalizzazione. La bozza del decreto analizzata in consiglio dei ministri lo scorso 20 febbraio prevede che il limite di guadagno netto annuo per la definizione del lavoro occasionale accessorio passi da 5 mila a 7 mila euro. Secondo i rilievi della Uil i voucher producono 70 milioni di euro di elusione fiscale ogni anno: gli oltre 46 mila lavoratori pagati con i voucher genererebbero un mancato gettito dell’Irpef, l’imposta sul reddito, pari a 57,8 milioni di euro e un mancato gettito dell’Irap, imposta sulle attività produttive, di 12,2 milioni. “Il voucher non è imponibile per l’Irap e il lavoratore è esentasse – dice Loy della Uil – ed è pertanto un sistema che spinge i lavoratori verso il basso. Altro che contratti a tutele crescenti. Le aziende possono accordarsi e scambiarsi i dipendenti e, come se non bastasse, creano un danno alle casse dello Stato”.
Sul sito stranierinitalia, un utente chiede agli esperti: “Al momento ho un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Ho trovato una persona che mi prende come baby sitter e mi paga con i buoni lavoro. Posso richiedere il rilascio del permesso di soggiorno con questo lavoro?” La risposta è “no”, nonostante la maggior parte degli stranieri (quella non pagata in nero) sia retribuita proprio con questa forma di pagamento. Il reddito percepito con il lavoro accessorio ha un’utilità esclusivamente integrativa. Con i buoni lavoro, insomma, non si hanno diritti: non si matura il Tfr, il trattamento di fine rapporto, non si maturano ferie, non si ha diritto alle indennità di malattia e di maternità, né agli assegni familiari. “Fino a due anni fa – spiega Isabella Pavolucci, della Filcam di Rimini – avevamo registrato un aumento del lavoro a intermittenza, quello cioè che permette al datore di chiamare il dipendente quando ne ha bisogno. Non era il massimo per il lavoratore, ma perlomeno poteva contare sulle garanzie e le tutele di un contratto. Invece abbiamo notato che parallelamente all’aumento della vendita dei voucher e alla loro graduale liberalizzazione, c’è stata una conseguente diminuzione di questo tipo di contratti”. E con il Jobs Act, dicono tutti, sarà anche peggio.
Per rendere più tracciabili i voucher, sarà introdotto l’obbligo per le aziende di acquistare i buoni solo con modalità telematiche e quello di comunicare alla Direzione territoriale del lavoro il luogo della prestazione e l’arco temporale in cui sarà usato (che non può superare i trenta giorni successivi all’acquisto). “In questo modo l’Inps crede di poter controllare la domanda – spiega Barachetti della Cgil –. Ma in realtà è una stupidaggine. Prima si acquistavano in tabaccheria, ora per via telematica. Forse così si assicura in automatico il contributo all’Inps ma non c’è alcuna operazione di controllo aggiuntiva. Il committente può prendere un voucher e farlo valere per due, tre, quattro prestazioni. Può far lavorare il dipendente 10 ore e pagarlo con soli cinque voucher”. Uno dei maggiori problemi dei voucher lavoro è legato ai controlli. L’ispettore del lavoro non può verificare orario d’inizio e fine del lavoro, limitandosi ad appurare che siano stati pagati i contributi. Inoltre, sempre il Jobs Act prevede la nascita di un’agenzia unica ispettiva del lavoro che dovrà occuparsi di sicurezza, infortuni, contribuzione e rispetto delle norme contrattuali. “Gli ispettori non riusciranno mai ad acquisire competenze complete in tutti e tre i fronti – commenta Barachetti – né a tenere sotto controllo in modo efficiente aziende e imprese. Quest’agenzia, prima di nascere, sembra già essere depotenziata. Inoltre, tutti gli ispettori nominati che avrebbero dovuto entrare in ruolo quest’anno, sono ancora precari. Non è previsto un euro per loro. Già sono sotto organico, figuriamoci se riusciranno a vigilare anche sui voucher”.
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