E' un'onda di numeri a caso quella che Matteo Renzi riversa sui
giornalisti a Palazzo Chigi. In attesa di venerdì, quando il Governo
presenterà ufficialmente il nuovo Documento di economia e finanza,
martedì pomeriggio il Premier si produce in una conferenza stampa dai
toni quanto mai berlusconiani. La sparata più grossa, come sempre,
riguarda le tasse.
Il Presidente del Consiglio sostiene di averle ridotte addirittura per 21 miliardi: 10 dal bonus di 80 euro, otto dalla decontribuzione dei contratti e tre dal disinnesco di precedenti clausole di salvaguardia. Sorvoliamo sul fatto che la decontribuzione vale tre anni (poi addio) e sull'assurdità di considerare la mancata applicazione di una clausola di salvaguardia alla stregua di una riduzione delle tasse. Restiamo sui numeri.
Il 2 aprile scorso l'Istat ha fatto sapere che nel quarto trimestre del 2014 la pressione fiscale è risultata pari al 50,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali su base annua. In tutto l'anno passato, invece, il dato ha raggiunto il 43,5%, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto al 2013. Com'è potuto accadere, visti i 10 miliardi di riduzione dell'Irpef (per gli amici, "gli 80 euro") decisi a giugno scorso da questo governo? Semplice: se finanzi i tagli alle tasse centrali diminuendo le risorse da girare agli enti locali, questi ultimi compensano i mancati trasferimenti spingendo al massimo le accise locali.
Il meccanismo dei vasi comunicanti si ripete: è già accaduto e continuerà ad accadere. Secondo un focus della Uil, ad esempio, soltanto l'introduzione della Tasi e l'aumento delle addizionali Irpef regionali erodono oltre il 40% dei famosi 80 euro. Poi ci sono gli aumenti scattati a gennaio su sigarette, canone Rai, giornali e benzina (a proposito: come mai l'Eni non taglia mai il prezzo alla pompa in proporzione al crollo delle quotazioni del petrolio?). Si tratta di rincari che pesano sulle tasche di tutti gli italiani, non soltanto su quelle di chi beneficia dei famosi 80 euro, ovvero la classe media.
Basterebbe questo per smentire l'affermazione di Renzi secondo cui "non ci saranno aumenti delle tasse nel 2015". Ci sono già stati, Presidente. Ma Renzi non si ferma e arriva ad assicurare che quest'anno non arriveranno ulteriori tagli alla spesa pubblica. Lo dice proprio mentre il tandem Yoram Gugteld/Roberto Perotti - fresco di nomina al timone della spending review - si sta industriando per portare al Governo 10 miliardi di risparmi nel corso del 2015.
Ora, è verosimile che il duo delle meraviglie arrivi a una cifra del genere solo razionalizzando la spesa, senza tagliare nemmeno un euro ai bilanci degli amministratori? Certo che no, ma non è nemmeno questo l'aspetto più grave. Anche in caso di miracolo, infatti, quei soldi non basterebbero: 10 miliardi non sono pochi, ma le famigerate clausole di salvaguardia valgono 16,8 miliardi nel 2016 e addirittura 23 miliardi nel 2017.
"Non ci saranno tagli alle prestazioni per i cittadini", ribadisce il Premier, distillando rassicurazioni su scelte che non spettano a lui, "ma c'è bisogno che la macchina pubblica dimagrisca un po' e, se i sacrifici li fanno i politici o salta qualche poltrona nei consigli di amministrazione, male non fa". Nulla di più banale e populista, peccato che si scontri con la realtà dei numeri.
Ne sa qualcosa il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, il quale garantisce che "se la crescita sarà migliore delle attese le clausole di salvaguardia si disinnescheranno automaticamente". Non è esattamente il rigore scientifico che ci si aspetterebbe da un tecnico, ma lasciamo stare. Concentriamoci piuttosto sulle "attese": il governo prevede per quest'anno una crescita del Pil pari allo 0,7%. E' quanto verosimilmente riusciremo a incassare nell'anno del petrolio a prezzi di saldo e del Quantitative easing della Bce.
In pochi lo ricordano, ma a dicembre lo stesso Padoan aveva detto che il greggio a 60 dollari al barile prolungato nel tempo "potrebbe essere una buona notizia" e portare ad uno "0,5% di crescita in più". Oggi la quotazione del Brent è in risalita, ma al momento rimane comunque sotto i 57 dollari.
Quanto alla politica monetaria della Banca centrale, il programma di espansione abbatte i tassi reali sui titoli di Stato e indebolisce l'euro, rafforzando "l’attività economica - ha scritto il Centro studi di Confindustria -. I minori tassi alzano il Pil italiano dello 0,2% nel 2015 e di un ulteriore 0,4% nel 2016; il cambio più debole dello 0,6% in ciascun anno. La spinta complessiva è dunque pari allo 0,8% nel 2015".
Calcolatrice alla mano, tutto ciò significa che, senza il crollo del petrolio e l'apertura dei forzieri da parte della Bce, anche quest'anno avremmo dovuto esultare in caso di stagnazione.
Il Presidente del Consiglio sostiene di averle ridotte addirittura per 21 miliardi: 10 dal bonus di 80 euro, otto dalla decontribuzione dei contratti e tre dal disinnesco di precedenti clausole di salvaguardia. Sorvoliamo sul fatto che la decontribuzione vale tre anni (poi addio) e sull'assurdità di considerare la mancata applicazione di una clausola di salvaguardia alla stregua di una riduzione delle tasse. Restiamo sui numeri.
Il 2 aprile scorso l'Istat ha fatto sapere che nel quarto trimestre del 2014 la pressione fiscale è risultata pari al 50,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali su base annua. In tutto l'anno passato, invece, il dato ha raggiunto il 43,5%, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto al 2013. Com'è potuto accadere, visti i 10 miliardi di riduzione dell'Irpef (per gli amici, "gli 80 euro") decisi a giugno scorso da questo governo? Semplice: se finanzi i tagli alle tasse centrali diminuendo le risorse da girare agli enti locali, questi ultimi compensano i mancati trasferimenti spingendo al massimo le accise locali.
Il meccanismo dei vasi comunicanti si ripete: è già accaduto e continuerà ad accadere. Secondo un focus della Uil, ad esempio, soltanto l'introduzione della Tasi e l'aumento delle addizionali Irpef regionali erodono oltre il 40% dei famosi 80 euro. Poi ci sono gli aumenti scattati a gennaio su sigarette, canone Rai, giornali e benzina (a proposito: come mai l'Eni non taglia mai il prezzo alla pompa in proporzione al crollo delle quotazioni del petrolio?). Si tratta di rincari che pesano sulle tasche di tutti gli italiani, non soltanto su quelle di chi beneficia dei famosi 80 euro, ovvero la classe media.
Basterebbe questo per smentire l'affermazione di Renzi secondo cui "non ci saranno aumenti delle tasse nel 2015". Ci sono già stati, Presidente. Ma Renzi non si ferma e arriva ad assicurare che quest'anno non arriveranno ulteriori tagli alla spesa pubblica. Lo dice proprio mentre il tandem Yoram Gugteld/Roberto Perotti - fresco di nomina al timone della spending review - si sta industriando per portare al Governo 10 miliardi di risparmi nel corso del 2015.
Ora, è verosimile che il duo delle meraviglie arrivi a una cifra del genere solo razionalizzando la spesa, senza tagliare nemmeno un euro ai bilanci degli amministratori? Certo che no, ma non è nemmeno questo l'aspetto più grave. Anche in caso di miracolo, infatti, quei soldi non basterebbero: 10 miliardi non sono pochi, ma le famigerate clausole di salvaguardia valgono 16,8 miliardi nel 2016 e addirittura 23 miliardi nel 2017.
"Non ci saranno tagli alle prestazioni per i cittadini", ribadisce il Premier, distillando rassicurazioni su scelte che non spettano a lui, "ma c'è bisogno che la macchina pubblica dimagrisca un po' e, se i sacrifici li fanno i politici o salta qualche poltrona nei consigli di amministrazione, male non fa". Nulla di più banale e populista, peccato che si scontri con la realtà dei numeri.
Ne sa qualcosa il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, il quale garantisce che "se la crescita sarà migliore delle attese le clausole di salvaguardia si disinnescheranno automaticamente". Non è esattamente il rigore scientifico che ci si aspetterebbe da un tecnico, ma lasciamo stare. Concentriamoci piuttosto sulle "attese": il governo prevede per quest'anno una crescita del Pil pari allo 0,7%. E' quanto verosimilmente riusciremo a incassare nell'anno del petrolio a prezzi di saldo e del Quantitative easing della Bce.
In pochi lo ricordano, ma a dicembre lo stesso Padoan aveva detto che il greggio a 60 dollari al barile prolungato nel tempo "potrebbe essere una buona notizia" e portare ad uno "0,5% di crescita in più". Oggi la quotazione del Brent è in risalita, ma al momento rimane comunque sotto i 57 dollari.
Quanto alla politica monetaria della Banca centrale, il programma di espansione abbatte i tassi reali sui titoli di Stato e indebolisce l'euro, rafforzando "l’attività economica - ha scritto il Centro studi di Confindustria -. I minori tassi alzano il Pil italiano dello 0,2% nel 2015 e di un ulteriore 0,4% nel 2016; il cambio più debole dello 0,6% in ciascun anno. La spinta complessiva è dunque pari allo 0,8% nel 2015".
Calcolatrice alla mano, tutto ciò significa che, senza il crollo del petrolio e l'apertura dei forzieri da parte della Bce, anche quest'anno avremmo dovuto esultare in caso di stagnazione.
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