Nella
“storia universale dell’infamia” – grazie a Borges – c’è sempre posto
per qualche volto nuovo. E dopo aver ascoltato qualche passaggio della
chiacchierata con Lucia Annunziata, su RaiTre, crediamo proprio che un
posto speciale tocchi di diritto a Romano Prodi.
Patiamo da quel che ha detto, perché – come diceva un prodiano di complemento in Palombella rossa – “le parole sono importanti”.
Lucia Annunziata: «Draghi si è caratterizzato in una prima fase come un grande privatizzatore…».
Romano Prodi: «Erano obblighi europei! Erano obblighi europei! Scusi, a me che ero stato a costruire l’IRI, a risanarla, a metterla a posto, mi è stato dato il compito da Ciampi che PRIVATIZZARE ERA UN COMPITO OBBLIGATORIO PER TUTTI I NOSTRI RIFERIMENTI EUROPEI.
Quindi si immagini se io ero così contento di disfare le cose che avevo costruito, ma bisognava farlo per rispondere alle regole generali di un mercato in cui noi eravamo. E questo non era sempre un compito gradevole, ma l’abbiamo fatto come bisognava farlo».
Si potrebbe ironizzare a lungo su questa dissociazione postuma dalle politiche che hanno distrutto la parte migliore della struttura industriale di questo paese, accompagnate dal mantra “ce lo chiede l’Europa”. Magari ricordando quando assicurava “Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più“.
Ma non c’è proprio niente da ridere.
E’ un segno di quanto, anche dalle parti del “padre nobile del Pd”, ci si renda conto che il disastro economico, sociale e infine politico su cui è cresciuta la destra fascioleghista ha genitori ignobili. Proprio nel Pd (o come si chiamava allora) e in chi ne ha sostenuto i governi con suicida subalternità (Bertinotti e i suoi boys).
All’inizio degli anni ‘90 è cambiato il mondo, con il crollo del Muro e del “socialismo reale”. In quel periodo sono state fatte le scelte strategiche che hanno indirizzato anche l’Europa nei successivi 30 anni. Di queste scelte Prodi (con Bersani, Rutelli, D’Alema, Treu, e il codazzo chiamato “Ulivo”) è stato massimo protagonista. Due volte presidente del Consiglio, osannato a sinistra perché “unico a battere due volte Berlusconi”, presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004, ex presidente dell’Iri e poi suo liquidatore.
Un personaggio centrale dell’economia e della politica italiana che – vent’anni dopo le immonde decisioni da lui condivise-decise-firmate – se ne esce dicendo “io ho solo obbedito agli ordini” (di Ciampi e dell’Unione Europea), come un Eichmann qualsiasi. Ci sarebbero gli estremi per un processo per alto tradimento, se questo fosse un paese serio…
Naturalmente è falso che sa stato solo un “esecutore di ordini” (sorvolando sulla sublime “eleganza” di dare tutta la colpa a un morto…). Non si attraversano per sbaglio le strutture di direzione di cui ha fatto parte da protagonista per oltre 40 anni (lo ricordiamo ministro dell’industria nel governo Andreotti nel 1978, in pieno sequestro di Aldo Moro), sia in Italia che in Europa.
La privatizzazione-smantellamento dell’Iri è stato un atto criminale che ha privato questo paese del meglio dell’industria e della rete infrastrutturale (Telecom, Italsider, Alfa Romeo, Montedison, Autostrade, Alitalia, Tirrenia, i porti e gli aeroporti, ecc), consegnandola alla peggiore classe “imprenditoriale” dell’Occidente. Basterebbe fare l‘elenco: Colaninno (Telecom, poi sostituito da Tronchetti Provera, i francesi, gli spagnoli, ecc), Riva (finito com’è finito, con l’Ilva consegnata agli indiani è una città condannata a morte), Agnelli, Benetton, e via scendendo.
In pratica Prodi e il Pd (incrocio perverso di ex democristiani e ex “comunisti”) hanno agito come Eltsin in Russia: hanno svenduto il cuore del patrimonio industriale, per quattro soldi. Distruggendo il motore della “crescita” che aveva caratterizzato l’Italia nel dopoguerra.
Tocca ricordare, infatti, che “le imprese private” non sono mai state capaci, qui, di essere protagoniste dello sviluppo. Era stato indispensabile che lo svillaneggiato “potere pubblico” agisse in base a una programmazione economica (c’era persino un ministero con questo nome), attraverso l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (Iri, fondato addirittura da Beneduce in periodo fascista) e la proprietà statale delle aziende nominate prima. Intorno a quel “motore” i “privati” (a cominciare dalla sussidiatissima Fiat) si acconciavano a fare i propri affari, sempre pronti a fuggire al primo stormir di crisi.
Si chiamava economia mista – pubblica più privata – con qualche paragone, in piccolo, col “miracolo cinese” degli ultimi 40 anni.
Come in Russia con Eltsin, dopo le privatizzazioni l’economia ha perso completamente spinta propulsiva, capacità di innovazione (i “privati” – tranne rari casi – disdegnano l’investimento in ricerca, per tirchieria e visione corta), ruolo internazionale.
Come con Eltsin, molti poteri “europei” e statunitensi erano molto interessati a questo suicidio mal assistito. E hanno banchettato alla grande.
Una devastazione che oggi renderebbe problematico anche un diverso indirizzo del paese, per un altro modo e altre finalità del produrre. E lo vediamo ad ogni crisi industriale recente (Embraco, Whirpool, Ilva, Alitalia, Jabil, ecc), perché “i privati”, che siano multinazionali o meno, sono stati autorizzati a fare quello che vogliono (prendendo anche finanziamenti pubblici…). E quindi anche, se lo ritengono vantaggioso, a chiudere e trasferire altrove la produzione.
Un cambiamento di sistema deciso quasi 30 anni fa. E di cui Prodi è stato uno dei player di prima fila.
Un cambiamento di sistema che – come nell’Europa dell’Est e persino in Germania – ha distrutto anche le condizioni di vita di quote crescenti della popolazione, a partire dai lavoratori dipendenti (la precarizzazione contrattuale ha preso il via con il “pacchetto Treu”, con Prodi a palazzo Chigi, e poi esteso da Berlusconi con la “legge Biagi”). Oltre che diritti sul lavoro e servizi sociali.
E’ questo il processo che – governato dall’Unione Europea in ogni paese – ha posto le basi, il “brodo di coltura” che ha fatto proliferare la flora batterica fascista e leghista che oggi tracima (e che ha sempre attivamente collaborato a quelle scelte).
Questo, a Prodi e ai suo complici di allora, va imputato ogni giorno come il maggiore dei crimini perpetrato contro il movimento operaio e la possibilità materiale di scegliere come vivere in questo paese.
Non sono il “meno peggio”, sono la levatrice dei Salvini.
Patiamo da quel che ha detto, perché – come diceva un prodiano di complemento in Palombella rossa – “le parole sono importanti”.
Lucia Annunziata: «Draghi si è caratterizzato in una prima fase come un grande privatizzatore…».
Romano Prodi: «Erano obblighi europei! Erano obblighi europei! Scusi, a me che ero stato a costruire l’IRI, a risanarla, a metterla a posto, mi è stato dato il compito da Ciampi che PRIVATIZZARE ERA UN COMPITO OBBLIGATORIO PER TUTTI I NOSTRI RIFERIMENTI EUROPEI.
Quindi si immagini se io ero così contento di disfare le cose che avevo costruito, ma bisognava farlo per rispondere alle regole generali di un mercato in cui noi eravamo. E questo non era sempre un compito gradevole, ma l’abbiamo fatto come bisognava farlo».
Si potrebbe ironizzare a lungo su questa dissociazione postuma dalle politiche che hanno distrutto la parte migliore della struttura industriale di questo paese, accompagnate dal mantra “ce lo chiede l’Europa”. Magari ricordando quando assicurava “Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più“.
Ma non c’è proprio niente da ridere.
E’ un segno di quanto, anche dalle parti del “padre nobile del Pd”, ci si renda conto che il disastro economico, sociale e infine politico su cui è cresciuta la destra fascioleghista ha genitori ignobili. Proprio nel Pd (o come si chiamava allora) e in chi ne ha sostenuto i governi con suicida subalternità (Bertinotti e i suoi boys).
All’inizio degli anni ‘90 è cambiato il mondo, con il crollo del Muro e del “socialismo reale”. In quel periodo sono state fatte le scelte strategiche che hanno indirizzato anche l’Europa nei successivi 30 anni. Di queste scelte Prodi (con Bersani, Rutelli, D’Alema, Treu, e il codazzo chiamato “Ulivo”) è stato massimo protagonista. Due volte presidente del Consiglio, osannato a sinistra perché “unico a battere due volte Berlusconi”, presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004, ex presidente dell’Iri e poi suo liquidatore.
Un personaggio centrale dell’economia e della politica italiana che – vent’anni dopo le immonde decisioni da lui condivise-decise-firmate – se ne esce dicendo “io ho solo obbedito agli ordini” (di Ciampi e dell’Unione Europea), come un Eichmann qualsiasi. Ci sarebbero gli estremi per un processo per alto tradimento, se questo fosse un paese serio…
Naturalmente è falso che sa stato solo un “esecutore di ordini” (sorvolando sulla sublime “eleganza” di dare tutta la colpa a un morto…). Non si attraversano per sbaglio le strutture di direzione di cui ha fatto parte da protagonista per oltre 40 anni (lo ricordiamo ministro dell’industria nel governo Andreotti nel 1978, in pieno sequestro di Aldo Moro), sia in Italia che in Europa.
La privatizzazione-smantellamento dell’Iri è stato un atto criminale che ha privato questo paese del meglio dell’industria e della rete infrastrutturale (Telecom, Italsider, Alfa Romeo, Montedison, Autostrade, Alitalia, Tirrenia, i porti e gli aeroporti, ecc), consegnandola alla peggiore classe “imprenditoriale” dell’Occidente. Basterebbe fare l‘elenco: Colaninno (Telecom, poi sostituito da Tronchetti Provera, i francesi, gli spagnoli, ecc), Riva (finito com’è finito, con l’Ilva consegnata agli indiani è una città condannata a morte), Agnelli, Benetton, e via scendendo.
In pratica Prodi e il Pd (incrocio perverso di ex democristiani e ex “comunisti”) hanno agito come Eltsin in Russia: hanno svenduto il cuore del patrimonio industriale, per quattro soldi. Distruggendo il motore della “crescita” che aveva caratterizzato l’Italia nel dopoguerra.
Tocca ricordare, infatti, che “le imprese private” non sono mai state capaci, qui, di essere protagoniste dello sviluppo. Era stato indispensabile che lo svillaneggiato “potere pubblico” agisse in base a una programmazione economica (c’era persino un ministero con questo nome), attraverso l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (Iri, fondato addirittura da Beneduce in periodo fascista) e la proprietà statale delle aziende nominate prima. Intorno a quel “motore” i “privati” (a cominciare dalla sussidiatissima Fiat) si acconciavano a fare i propri affari, sempre pronti a fuggire al primo stormir di crisi.
Si chiamava economia mista – pubblica più privata – con qualche paragone, in piccolo, col “miracolo cinese” degli ultimi 40 anni.
Come in Russia con Eltsin, dopo le privatizzazioni l’economia ha perso completamente spinta propulsiva, capacità di innovazione (i “privati” – tranne rari casi – disdegnano l’investimento in ricerca, per tirchieria e visione corta), ruolo internazionale.
Come con Eltsin, molti poteri “europei” e statunitensi erano molto interessati a questo suicidio mal assistito. E hanno banchettato alla grande.
Una devastazione che oggi renderebbe problematico anche un diverso indirizzo del paese, per un altro modo e altre finalità del produrre. E lo vediamo ad ogni crisi industriale recente (Embraco, Whirpool, Ilva, Alitalia, Jabil, ecc), perché “i privati”, che siano multinazionali o meno, sono stati autorizzati a fare quello che vogliono (prendendo anche finanziamenti pubblici…). E quindi anche, se lo ritengono vantaggioso, a chiudere e trasferire altrove la produzione.
Un cambiamento di sistema deciso quasi 30 anni fa. E di cui Prodi è stato uno dei player di prima fila.
Un cambiamento di sistema che – come nell’Europa dell’Est e persino in Germania – ha distrutto anche le condizioni di vita di quote crescenti della popolazione, a partire dai lavoratori dipendenti (la precarizzazione contrattuale ha preso il via con il “pacchetto Treu”, con Prodi a palazzo Chigi, e poi esteso da Berlusconi con la “legge Biagi”). Oltre che diritti sul lavoro e servizi sociali.
E’ questo il processo che – governato dall’Unione Europea in ogni paese – ha posto le basi, il “brodo di coltura” che ha fatto proliferare la flora batterica fascista e leghista che oggi tracima (e che ha sempre attivamente collaborato a quelle scelte).
Questo, a Prodi e ai suo complici di allora, va imputato ogni giorno come il maggiore dei crimini perpetrato contro il movimento operaio e la possibilità materiale di scegliere come vivere in questo paese.
Non sono il “meno peggio”, sono la levatrice dei Salvini.