«Quello dei vitalizi è uno dei più grandi scandali della Repubblica.
Per gli sfacciati privilegi che i parlamentari si sono dati, per lo
spreco di risorse che hanno comportato e comporteranno, per il peso che
continueranno ad avere sui bilanci di Camera e Senato, dunque sulle
finanze pubbliche»
Se questa è la perfetta sintesi del malcontento italiano, possiamo ben immaginare come una tematica del genere, qual è quella dei vitalizi parlamentari, risulti particolarmente ardua da analizzare. Per prestar fede al nostro compito, dunque, dobbiamo avanzare delle premesse tali da consentirci di comprendere la natura dei suddetti vitalizi e, ancor di più, delle indennità parlamentari, che da essi si distinguono. Partiremo, di conseguenza, analizzando tre ordini di questioni: l’origine dei vitalizi parlamentari e la loro odierna conformazione, la differenza tra i vitalizi parlamentari e il sistema pensionistico “comune” e, infine, tratteremo l’articolazione che compete le indennità parlamentari e, con esse, le altre modalità di “guadagno” di cui possono usufruire i parlamentari nostrani.
Parliamo, innanzi tutto, dei vitalizi in riferimento a quello che potrebbe definirsi un sistema “pensionistico” parlamentare. Grazie ad esso, difatti, i parlamentari, convogliando i propri interessi e le proprie forze nell’ambito politico, si garantiscono una rendita post lavorativa, che altrimenti gli sarebbe “impossibile” ottenere. Questa era l’idea che originariamente significava la nascita di tale forma di rendita. Invero, in questo modo veniva permesso anche agli esponenti dei ceti meno abbienti – garantendosi una forma di sostentamento – di partecipare all’attività politica, con lo scopo di non favorire la formazione di una “casta”. Purtroppo, così non è stato e, chi voleva eliminare una casta democratizzando la partecipazione politica, ha favorito ancor di più la formazione di una élite o “lobby”. Oggi, soprattutto grazie alla riforma del 2012, i vitalizi sono diventati sempre più affini al sistema pensionistico del Bel Paese, adottando il calcolo contributivo. Quest’ultimo, che ha “totalmente” soppiantato il metodo retributivo con la riforma Fornero, implica che la pensione dipenda in maniera diretta dai contributi che vengono versati dal lavoratore. Vi è, però, una distinzione: mentre il comune lavoratore dipende dall’ente INPS, i vitalizi parlamentari sottostanno a regolamentazioni differenti, pesando direttamente su Camera e Senato.
Ulteriori differenze – le più nette – tra pensioni e vitalizi riguardano le modalità che ne permettono l’acquisizione. In sintesi, nel nostro Paese, più o meno fino alla suddetta riforma del 2012, un deputato/senatore, anche dopo un singolo mandato e versando l’8,6% dell’indennità ricevuta, potevano usufruire già all’età di 65 anni (che poteva venire ridotta a 60) un elevato assegno di oltre 3.000 euro. Oggi, al netto delle età restate invariate, vi è stato un ridimensionamento che, però, non ha risolto – differentemente da come si potrebbe pensare – il peso con cui tali vitalizi e, in generale, i costi complessivi dei deputati/senatori gravino sullo Stato. Invero, dopo una carica effettiva di 5 anni, un deputato o senatore, a patto che abbia compiuto 65 anni, può usufruire dell’assegno preposto. Come avveniva precedentemente, in funzione all’aumentare degli anni di “servizio”, si riduce l’età utile ad ottenere il vitalizio, fino alla soglia minima dei 60 anni. Come evidenziato dal Fatto Quotidiano:
«Un bello sconto se si considera che, nel 2018, anno della scadenza naturale della legislatura in corso, la legge Fornero fissa a 66 anni e 7 mesi l’età pensionabile dei comuni mortali»
Ancora, la testata giornalistica citata, per avvalorare le sue ipotesi, ha chiamato in causa gli uffici della Camera per dar corpo a delle simulazioni tali da evidenziare la differenza che intercorre tra un deputato/senatore e un “comune mortale”:
«Un deputato eletto nel 2013, quando aveva 27 anni, che cesserà il suo mandato nel 2018 senza essere riconfermato per il secondo, percepirà nel 2051 (a 65 anni) una pensione compresa tra i 900 e i 970 euro al mese, quando il 64,7% delle pensioni erogate in Italia è inferiore ai 750 euro/mese. Se, invece, l’onorevole eletto sempre nel 2013 a 39 anni, sarà riconfermato fino al 2023, con due legislature alle spalle potrà andare in pensione nel 2034 (a 60 anni) incassando circa 1.500 euro al mese.»
Dimezzare gli stipendi? Le giustificazioni dei parlamentari
Credere, però, che queste siano le uniche problematiche inerenti i guadagli di deputati e senatori è ingenuo. Come abbiamo precedentemente evidenziato, è necessario analizzare i vitalizi in rapporto alle ulteriori e molteplici forme di “sostentamento” previste dalla legge. Alla luce dei cambiamenti – per lo più di ordine “denominativo” – i tagli previsti dalle ultime riforme non portano un reale ridimensionamento dei redditi. Invero, bisogna aggiungere a questi ultimi, prima di ogni cosa, l’indennità parlamentare. Come indicatoci dal portale web Camera.it:
«L’indennità parlamentare è prevista dall’articolo 69 della Costituzione, a garanzia del libero svolgimento del mandato elettivo. […] A decorrere dal 1° gennaio 2012, l’importo netto dell’indennità parlamentare, corrisposto per 12 mensilità, è pari a 5.246,54 euro, a cui devono poi essere sottratte le addizionali regionali e comunali, la cui misura varia in relazione al domicilio fiscale del deputato. Tenuto conto del valore medio di tali imposte addizionali, l’importo netto mensile dell’indennità parlamentare risulta pari a circa 5.000 euro.»
Tali valori sono stimati dalle detrazioni dei 10.435,00 euro previsti, concernenti, per l’appunto, pensioni, ma anche assistenza sanitaria ed altro. Difatti, i deputati usufruiscono di 3.323,70 euro trimestrali per le spese di viaggio e trasporto (che salgono a 3.995,10 euro se la distanza che il deputato deve percorrere supera i 100km). Ancora, i deputati dispongono anche di una somma annuale di oltre 3.000,00 euro per le spese telefoniche. Questa analisi non vuole essere esaustiva, ma potrebbe permettere uno sguardo generale sull’ingiustizia che apre un baratro tra i normali lavoratori e i deputati, i quali potrebbero essere definiti dei “lavoratori speciali”: ecco come si configura quella che da secoli viene definita come “differenza di classe”. Le problematiche non cessano qua e, riprendendo quanto affermato da Roberto Perotti per Repubblica, possiamo evidenziare che:
«I veri risparmi sono nei vitalizi in essere, uno scandalo che grida vendetta comunque li si voglia valutare. Nel 2014 Camera e Senato hanno speso quasi 230 milioni per vitalizi a ex parlamentari ed eredi, per un importo medio vicino ai 100 mila euro; le regioni hanno speso altri 175 milioni. Applicando il ricalcolo contributivo lo Stato risparmierebbe 80 milioni sui vitalizi dei parlamentari, e altri 60 sui vitalizi regionali.»
Quanto appena affermato ci interroga, per esempio, sullo scandalo dell’Ars, che – per citare un episodio su tanti – ha visto la “pensione” di Ignazio Adamo (1897-1973), deputato regionale fino all’anno 1955, passare dopo la sua morte alla moglie prima e alla figlia poi (che è arriva a percepire quasi 4.000,00 euro al mese).
Sicilia, il vitalizio dei politici non finisce
Sarebbe necessario riformulare le modalità di calcolo di tali “assegni previdenziali” facendo si, come indicato dalla petizione precedentemente citata, che venga aumentato il limite minimo di età e, al contempo, che il tetto massimo dei vitalizi venga ridimensionato (magari, come afferma il Fatto Quotidiano, a 5.000 euro lordi al mese) e, in presenza di altre pensioni che superano la soglia indicata, addirittura annullato. In fondo, lo scopo dovrebbe essere quello di parificare la pensione dei parlamentari a quella dei normali cittadini. Se l’applicazione del metodo contributivo è un primo passo, ancora molti altri se ne dovranno compiere. Resta, però, un interrogativo: davvero Camera e Senato, che gestiscono “autonomamente” il proprio guadagno, vorranno ridimensionarlo?
Se questa è la perfetta sintesi del malcontento italiano, possiamo ben immaginare come una tematica del genere, qual è quella dei vitalizi parlamentari, risulti particolarmente ardua da analizzare. Per prestar fede al nostro compito, dunque, dobbiamo avanzare delle premesse tali da consentirci di comprendere la natura dei suddetti vitalizi e, ancor di più, delle indennità parlamentari, che da essi si distinguono. Partiremo, di conseguenza, analizzando tre ordini di questioni: l’origine dei vitalizi parlamentari e la loro odierna conformazione, la differenza tra i vitalizi parlamentari e il sistema pensionistico “comune” e, infine, tratteremo l’articolazione che compete le indennità parlamentari e, con esse, le altre modalità di “guadagno” di cui possono usufruire i parlamentari nostrani.
Parliamo, innanzi tutto, dei vitalizi in riferimento a quello che potrebbe definirsi un sistema “pensionistico” parlamentare. Grazie ad esso, difatti, i parlamentari, convogliando i propri interessi e le proprie forze nell’ambito politico, si garantiscono una rendita post lavorativa, che altrimenti gli sarebbe “impossibile” ottenere. Questa era l’idea che originariamente significava la nascita di tale forma di rendita. Invero, in questo modo veniva permesso anche agli esponenti dei ceti meno abbienti – garantendosi una forma di sostentamento – di partecipare all’attività politica, con lo scopo di non favorire la formazione di una “casta”. Purtroppo, così non è stato e, chi voleva eliminare una casta democratizzando la partecipazione politica, ha favorito ancor di più la formazione di una élite o “lobby”. Oggi, soprattutto grazie alla riforma del 2012, i vitalizi sono diventati sempre più affini al sistema pensionistico del Bel Paese, adottando il calcolo contributivo. Quest’ultimo, che ha “totalmente” soppiantato il metodo retributivo con la riforma Fornero, implica che la pensione dipenda in maniera diretta dai contributi che vengono versati dal lavoratore. Vi è, però, una distinzione: mentre il comune lavoratore dipende dall’ente INPS, i vitalizi parlamentari sottostanno a regolamentazioni differenti, pesando direttamente su Camera e Senato.
Ulteriori differenze – le più nette – tra pensioni e vitalizi riguardano le modalità che ne permettono l’acquisizione. In sintesi, nel nostro Paese, più o meno fino alla suddetta riforma del 2012, un deputato/senatore, anche dopo un singolo mandato e versando l’8,6% dell’indennità ricevuta, potevano usufruire già all’età di 65 anni (che poteva venire ridotta a 60) un elevato assegno di oltre 3.000 euro. Oggi, al netto delle età restate invariate, vi è stato un ridimensionamento che, però, non ha risolto – differentemente da come si potrebbe pensare – il peso con cui tali vitalizi e, in generale, i costi complessivi dei deputati/senatori gravino sullo Stato. Invero, dopo una carica effettiva di 5 anni, un deputato o senatore, a patto che abbia compiuto 65 anni, può usufruire dell’assegno preposto. Come avveniva precedentemente, in funzione all’aumentare degli anni di “servizio”, si riduce l’età utile ad ottenere il vitalizio, fino alla soglia minima dei 60 anni. Come evidenziato dal Fatto Quotidiano:
«Un bello sconto se si considera che, nel 2018, anno della scadenza naturale della legislatura in corso, la legge Fornero fissa a 66 anni e 7 mesi l’età pensionabile dei comuni mortali»
Ancora, la testata giornalistica citata, per avvalorare le sue ipotesi, ha chiamato in causa gli uffici della Camera per dar corpo a delle simulazioni tali da evidenziare la differenza che intercorre tra un deputato/senatore e un “comune mortale”:
«Un deputato eletto nel 2013, quando aveva 27 anni, che cesserà il suo mandato nel 2018 senza essere riconfermato per il secondo, percepirà nel 2051 (a 65 anni) una pensione compresa tra i 900 e i 970 euro al mese, quando il 64,7% delle pensioni erogate in Italia è inferiore ai 750 euro/mese. Se, invece, l’onorevole eletto sempre nel 2013 a 39 anni, sarà riconfermato fino al 2023, con due legislature alle spalle potrà andare in pensione nel 2034 (a 60 anni) incassando circa 1.500 euro al mese.»
Dimezzare gli stipendi? Le giustificazioni dei parlamentari
Credere, però, che queste siano le uniche problematiche inerenti i guadagli di deputati e senatori è ingenuo. Come abbiamo precedentemente evidenziato, è necessario analizzare i vitalizi in rapporto alle ulteriori e molteplici forme di “sostentamento” previste dalla legge. Alla luce dei cambiamenti – per lo più di ordine “denominativo” – i tagli previsti dalle ultime riforme non portano un reale ridimensionamento dei redditi. Invero, bisogna aggiungere a questi ultimi, prima di ogni cosa, l’indennità parlamentare. Come indicatoci dal portale web Camera.it:
«L’indennità parlamentare è prevista dall’articolo 69 della Costituzione, a garanzia del libero svolgimento del mandato elettivo. […] A decorrere dal 1° gennaio 2012, l’importo netto dell’indennità parlamentare, corrisposto per 12 mensilità, è pari a 5.246,54 euro, a cui devono poi essere sottratte le addizionali regionali e comunali, la cui misura varia in relazione al domicilio fiscale del deputato. Tenuto conto del valore medio di tali imposte addizionali, l’importo netto mensile dell’indennità parlamentare risulta pari a circa 5.000 euro.»
Tali valori sono stimati dalle detrazioni dei 10.435,00 euro previsti, concernenti, per l’appunto, pensioni, ma anche assistenza sanitaria ed altro. Difatti, i deputati usufruiscono di 3.323,70 euro trimestrali per le spese di viaggio e trasporto (che salgono a 3.995,10 euro se la distanza che il deputato deve percorrere supera i 100km). Ancora, i deputati dispongono anche di una somma annuale di oltre 3.000,00 euro per le spese telefoniche. Questa analisi non vuole essere esaustiva, ma potrebbe permettere uno sguardo generale sull’ingiustizia che apre un baratro tra i normali lavoratori e i deputati, i quali potrebbero essere definiti dei “lavoratori speciali”: ecco come si configura quella che da secoli viene definita come “differenza di classe”. Le problematiche non cessano qua e, riprendendo quanto affermato da Roberto Perotti per Repubblica, possiamo evidenziare che:
«I veri risparmi sono nei vitalizi in essere, uno scandalo che grida vendetta comunque li si voglia valutare. Nel 2014 Camera e Senato hanno speso quasi 230 milioni per vitalizi a ex parlamentari ed eredi, per un importo medio vicino ai 100 mila euro; le regioni hanno speso altri 175 milioni. Applicando il ricalcolo contributivo lo Stato risparmierebbe 80 milioni sui vitalizi dei parlamentari, e altri 60 sui vitalizi regionali.»
Quanto appena affermato ci interroga, per esempio, sullo scandalo dell’Ars, che – per citare un episodio su tanti – ha visto la “pensione” di Ignazio Adamo (1897-1973), deputato regionale fino all’anno 1955, passare dopo la sua morte alla moglie prima e alla figlia poi (che è arriva a percepire quasi 4.000,00 euro al mese).
Sicilia, il vitalizio dei politici non finisce
Sarebbe necessario riformulare le modalità di calcolo di tali “assegni previdenziali” facendo si, come indicato dalla petizione precedentemente citata, che venga aumentato il limite minimo di età e, al contempo, che il tetto massimo dei vitalizi venga ridimensionato (magari, come afferma il Fatto Quotidiano, a 5.000 euro lordi al mese) e, in presenza di altre pensioni che superano la soglia indicata, addirittura annullato. In fondo, lo scopo dovrebbe essere quello di parificare la pensione dei parlamentari a quella dei normali cittadini. Se l’applicazione del metodo contributivo è un primo passo, ancora molti altri se ne dovranno compiere. Resta, però, un interrogativo: davvero Camera e Senato, che gestiscono “autonomamente” il proprio guadagno, vorranno ridimensionarlo?
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