Imercati finanziari sono una componente indispensabile in un’economia
capitalista. Semplificando all’estremo, potremmo definire la finanza
come il mercato dei soldi. Chi ha bisogno di denaro incontra altri
disposti a prestarlo, in cambio di un interesse. Tramite questo denaro
si sviluppano le attività economiche, dall’avvio di un’impresa alla
costruzione di una casa. Allo stesso mercato si rivolge chi ha bisogno
di gestire un rischio. La finanza è il sistema linfatico dal quale
l’economia di mercato attinge risorse per sostenersi. Il problema più
evidente del capitalismo contemporaneo è che questo sistema è cresciuto
in maniera abnorme, scriteriata ed ipertrofica, come un gigantesco
tumore che pregiudica il funzionamento dell’intera economia. Da
strumento al servizio delle attività economiche, il sistema finanziario
si è trasformato in un’immensa sovrastruttura che condiziona l’economia
in maniera egemone. Fra gli addetti ai lavori si parla di una “coda che
scodinzola il cane”, riferendosi al rapporto surreale instauratosi fra
la finanza e l’economia reale.
Per fare un esempio concreto, le oscillazioni del prezzo del grano possono dipendere oggi non soltanto da fattori reali relativi al mercato del grano – un calo nella domanda, una carestia – ma anche, in modo più pesante e repentino, dall’andamento del mercato dei derivati sul grano. Ossia, in buona parte, da scommesse degli speculatori che utilizzano il grano per le stesse finalità per cui uno scommettitore, in un ippodromo, utilizzerebbe i cavalli. La differenza è che, dagli esiti del mercato del grano, dipendono le vite di milioni di agricoltori, il potere d’acquisto dei cittadini, spesso anche le sorti di interi Paesi. La maggior parte della ricchezza in circolazione oggi è formata da dati informatici che si muovono a velocità folle da una parte all’altra del globo. Nel 2007, appena prima del collasso, il valore dei contratti derivati in circolazione era pari a circa dodici volte quello del pil mondiale. Le cinque maggiori banche americane, ancora oggi, detengono derivati per circa 200mila miliardi di dollari, una cifra di 100 volte superiore a quella del debito pubblico italiano. Quest’immensa ricchezza fittizia, e rigorosamente privata, è frutto dello scollamento fra la finanza e le attività reali. In un’economia che non può più crescere – poiché crescere indefinitamente non è il destino della produzione – si sono creati strumenti finanziari sempre più complessi per permettere al capitale di continuare a far profitti a prescindere da quest’ultima. Non solo le banche d’affari, ma anche tutte le grandi imprese, che dovrebbero in teoria avere un risparmio negativo (farsi prestare i soldi per investirli nella produzione), hanno messo in piedi attività finanziarie parallele per dirottarvi una buona parte degli utili, ottenendo rendite altrimenti impossibili nell’economia reale. Grazie alla cartolarizzazione, le attività rischiose vengono poi distribuite fra i più vari operatori, con meccanismi che di fatto, invece di ridurre il rischio, lo nascondono e lo moltiplicano.
La finanziarizzazione dell’economia, lungi dall’essere uno sviluppo naturale del capitalismo, è il frutto di un chiaro progetto politico teso a garantire l’unico diritto universale globalmente riconosciuto: la libertà del capitale di realizzare profitti, a qualsiasi costo. Questo progetto, iniziato negli anni Ottanta, ha trovato una giustificazione sociale nel pensiero neoliberale, che descrive il mercato come capace di autoregolarsi portando al bene collettivo. Solo con la crisi dei subprime, che ha trascinato il mondo nella Grande Recessione, siamo stati costretti a puntare i riflettori sui problemi della finanza. Una raffinatissima operazione di maquillage è però riuscita a far passare una crisi dovuta all’ipertrofia del debito privato come un problema di finanze pubbliche. Il debito pubblico è diventato insostenibile non per l’aumento improvviso della spesa sociale – come se scuole ed ospedali fossero spuntati a iosa negli anni pre-crisi – bensì per gli sconquassi creati dall’ipertrofia della finanza privata. Sconquassi e fallimenti privati appianati poi, sistematicamente, ricorrendo alle finanze pubbliche degli Stati, nell’ormai classico gioco del socializzare le perdite privatizzando i profitti. Lo smantellamento dello Stato sociale in Europa ha permesso inoltre alla finanza privata di asservire ai suoi scopi un insieme crescente risorse – dai fondi pensione alle assicurazioni sanitarie – tradizionalmente gestite in modo pubblico. Dopo il crollo del 2008, che avrebbe dovuto provocare una riscrittura completa delle regole finanziarie, i mercati hanno ripreso la loro crescita con le stesse perverse modalità e le stesse, criminogene, (de)regolamentazioni. Il grafico seguente, relativo agli Stati Uniti, mostra chiaramente come lo scollamento fra economia e finanza sia continuato a crescere indisturbato dal 2008 ad oggi.
A
Le politiche monetarie espansive attuate da Fed e Bce dopo la crisi sono servite esattamente a questo scopo. Mentre l’economia reale prosegue nella sua stagnazione, lasciando sul campo sempre più macerie sociali, i miliardi di dollari pompati regolarmente nei caveau informatici delle banche finiscono tutti per alimentare la sala giochi della speculazione. I soldi fanno soldi dai soldi, senza che l’uomo della strada, in nessun modo, possa trarne beneficio. Eppure anche l’uomo della strada, depositando i suoi pochi risparmi nelle mani dei giocatori di roulette, contribuisce col sudore della fronte ad alimentare questo sistema. Se è vero che il gioco della speculazione è a somma zero, perché se qualcuno vince c’è qualcun altro, dall’altra parte del contratto, che per forza ci sta rimettendo, a rimetterci sempre e comunque è la collettività. Dagli umori del casinò globale dipendono infatti i fondamentali dell’economia, i salari dei lavoratori, i programmi politici e persino, come visto più volte, il destino dei governi. L’immensa sperequazione economica determinata da questo sistema genera una disparità insostenibile fra potere pubblico ed interessi privati. Inoltre, le gigantesche bolle finanziare create dalla speculazione potrebbero, come dieci anni fa, scoppiare da un momento all’altro facendo precipitare nel baratro un sistema già immerso in una lenta agonia.
Nello scontro politico sui problemi economici contemporanei ci si focalizza sempre sulla dialettica fra keynesismo e rigore, trascurando quasi completamente il punto critico fondamentale: la regolamentazione della finanza privata. Soltanto ridisegnando le regole, mettendo un forte freno ai movimenti di capitale, agli strumenti speculativi e al fenomeno connesso dei paradisi fiscali (27 miliardi di dollari rubati alla collettività ogni anno dalle banche europee), si potrà tornare a parlare di democrazia e di bene collettivo. Per farlo, occorre tanto la sovranità nazionale quanto un sistema di Paesi che, coordinando le regole comuni, escluda dai suoi scambi chi non si uniforma a quest’ultime. A questo scopo, ad esempio, dovrebbe servire quell’Europa dei Popoli di cui si parla tanto, e sempre, con finalità tutte retoriche.
Per fare un esempio concreto, le oscillazioni del prezzo del grano possono dipendere oggi non soltanto da fattori reali relativi al mercato del grano – un calo nella domanda, una carestia – ma anche, in modo più pesante e repentino, dall’andamento del mercato dei derivati sul grano. Ossia, in buona parte, da scommesse degli speculatori che utilizzano il grano per le stesse finalità per cui uno scommettitore, in un ippodromo, utilizzerebbe i cavalli. La differenza è che, dagli esiti del mercato del grano, dipendono le vite di milioni di agricoltori, il potere d’acquisto dei cittadini, spesso anche le sorti di interi Paesi. La maggior parte della ricchezza in circolazione oggi è formata da dati informatici che si muovono a velocità folle da una parte all’altra del globo. Nel 2007, appena prima del collasso, il valore dei contratti derivati in circolazione era pari a circa dodici volte quello del pil mondiale. Le cinque maggiori banche americane, ancora oggi, detengono derivati per circa 200mila miliardi di dollari, una cifra di 100 volte superiore a quella del debito pubblico italiano. Quest’immensa ricchezza fittizia, e rigorosamente privata, è frutto dello scollamento fra la finanza e le attività reali. In un’economia che non può più crescere – poiché crescere indefinitamente non è il destino della produzione – si sono creati strumenti finanziari sempre più complessi per permettere al capitale di continuare a far profitti a prescindere da quest’ultima. Non solo le banche d’affari, ma anche tutte le grandi imprese, che dovrebbero in teoria avere un risparmio negativo (farsi prestare i soldi per investirli nella produzione), hanno messo in piedi attività finanziarie parallele per dirottarvi una buona parte degli utili, ottenendo rendite altrimenti impossibili nell’economia reale. Grazie alla cartolarizzazione, le attività rischiose vengono poi distribuite fra i più vari operatori, con meccanismi che di fatto, invece di ridurre il rischio, lo nascondono e lo moltiplicano.
La finanziarizzazione dell’economia, lungi dall’essere uno sviluppo naturale del capitalismo, è il frutto di un chiaro progetto politico teso a garantire l’unico diritto universale globalmente riconosciuto: la libertà del capitale di realizzare profitti, a qualsiasi costo. Questo progetto, iniziato negli anni Ottanta, ha trovato una giustificazione sociale nel pensiero neoliberale, che descrive il mercato come capace di autoregolarsi portando al bene collettivo. Solo con la crisi dei subprime, che ha trascinato il mondo nella Grande Recessione, siamo stati costretti a puntare i riflettori sui problemi della finanza. Una raffinatissima operazione di maquillage è però riuscita a far passare una crisi dovuta all’ipertrofia del debito privato come un problema di finanze pubbliche. Il debito pubblico è diventato insostenibile non per l’aumento improvviso della spesa sociale – come se scuole ed ospedali fossero spuntati a iosa negli anni pre-crisi – bensì per gli sconquassi creati dall’ipertrofia della finanza privata. Sconquassi e fallimenti privati appianati poi, sistematicamente, ricorrendo alle finanze pubbliche degli Stati, nell’ormai classico gioco del socializzare le perdite privatizzando i profitti. Lo smantellamento dello Stato sociale in Europa ha permesso inoltre alla finanza privata di asservire ai suoi scopi un insieme crescente risorse – dai fondi pensione alle assicurazioni sanitarie – tradizionalmente gestite in modo pubblico. Dopo il crollo del 2008, che avrebbe dovuto provocare una riscrittura completa delle regole finanziarie, i mercati hanno ripreso la loro crescita con le stesse perverse modalità e le stesse, criminogene, (de)regolamentazioni. Il grafico seguente, relativo agli Stati Uniti, mostra chiaramente come lo scollamento fra economia e finanza sia continuato a crescere indisturbato dal 2008 ad oggi.
A
Le politiche monetarie espansive attuate da Fed e Bce dopo la crisi sono servite esattamente a questo scopo. Mentre l’economia reale prosegue nella sua stagnazione, lasciando sul campo sempre più macerie sociali, i miliardi di dollari pompati regolarmente nei caveau informatici delle banche finiscono tutti per alimentare la sala giochi della speculazione. I soldi fanno soldi dai soldi, senza che l’uomo della strada, in nessun modo, possa trarne beneficio. Eppure anche l’uomo della strada, depositando i suoi pochi risparmi nelle mani dei giocatori di roulette, contribuisce col sudore della fronte ad alimentare questo sistema. Se è vero che il gioco della speculazione è a somma zero, perché se qualcuno vince c’è qualcun altro, dall’altra parte del contratto, che per forza ci sta rimettendo, a rimetterci sempre e comunque è la collettività. Dagli umori del casinò globale dipendono infatti i fondamentali dell’economia, i salari dei lavoratori, i programmi politici e persino, come visto più volte, il destino dei governi. L’immensa sperequazione economica determinata da questo sistema genera una disparità insostenibile fra potere pubblico ed interessi privati. Inoltre, le gigantesche bolle finanziare create dalla speculazione potrebbero, come dieci anni fa, scoppiare da un momento all’altro facendo precipitare nel baratro un sistema già immerso in una lenta agonia.
Nello scontro politico sui problemi economici contemporanei ci si focalizza sempre sulla dialettica fra keynesismo e rigore, trascurando quasi completamente il punto critico fondamentale: la regolamentazione della finanza privata. Soltanto ridisegnando le regole, mettendo un forte freno ai movimenti di capitale, agli strumenti speculativi e al fenomeno connesso dei paradisi fiscali (27 miliardi di dollari rubati alla collettività ogni anno dalle banche europee), si potrà tornare a parlare di democrazia e di bene collettivo. Per farlo, occorre tanto la sovranità nazionale quanto un sistema di Paesi che, coordinando le regole comuni, escluda dai suoi scambi chi non si uniforma a quest’ultime. A questo scopo, ad esempio, dovrebbe servire quell’Europa dei Popoli di cui si parla tanto, e sempre, con finalità tutte retoriche.