Il presidente dell’Inps Tito Boeri ha detto che la “generazione 1980″
rischia di dover lavorare fino a 75 anni e prendere un assegno del 25%
più basso rispetto ai pensionati di oggi. Questo perché, dalle analisi
dell’istituto sulla storia contributiva di un universo di lavoratori
dipendenti ma anche artigiani nati in quell’anno, è emerso che ognuno di
loro in media ha una discontinuità contributiva, legata probabilmente a
episodi di disoccupazione, di circa due anni.
La questione sollevata da Tito Boeri non ha nulla di sorprendente: le parole del presidente dell’Inps hanno messo solo una lente di ingrandimento sulla questione pensioni, quantificando il reddito e l’età pensionabile della generazione ’80. Tuttavia questo tipo di calcolo è sotto gli occhi di tutti, o meglio di chi oggi ha mediamente 35 anni. Quella generazione che tutto sommato ha potuto accedere al mondo del lavoro con un contratto a tempo indeterminato, quello che se anche ti sparavi 10 ore di lavoro, avevi ancora delle tutele legate ad un contratto nazionale. Gli anni ‘80 sono poi diventati i ‘90, 2000, 2010 ecc. ecc. La precarizzazione del mondo del lavoro e il fattore delega sindacato-politica ha fatto il resto, fino ad arrivare al Jobs Act di oggi, quello che ha introdotto il contratto a tempo “indeterminato” a tutele crescenti, voucher e contratti precari che hanno solo modernizzato il proprio norme salvo garantire la forma.
Boeri non dice una novità quando sostiene che si andrà in pensione a 75 anni e con un reddito da meno di 750 euro. Quest’ipotesi riguarderebbe chi ha versato i contributi in maniera discontinua, una realtà per milioni di lavoratori e lavoratrici, destino della generazione ’80, ’90 e cosi via.
Con l’uso strumentale della questione dell’innalzamento della vita media (tralasciando le svariate possibilità per cui quest’aumento dell’aspettativa di vita possa molto spesso precipitare rovinosamente, dato che l’impoverimento dell’individuo che arriva a tagliare la propria spesa sulle cure sanitarie è una variabile considerevole) il futuro delle generazioni che sono nate dagli anni ’80 in poi pare essere già scritto.
Il condizionale è sempre d’obbligo, perché non sarà il presidente dell’Inps a innescare quello che la segretaria nazionale della CGIL Camusso teme, dichiarando che “le frasi dell’economista rischiano di passare come un messaggio pericoloso disfiduciaai giovani, con molti che reagiscono dicendo allora non pago più i contributi, proporre in questo modo la previsione di pensione a 75 anni è irragionevole”.
Il problema non sarà una parte della società che farebbe, non a torto, discorsi di questo tipo, né che un economista dica come stanno realmente le cose, bensì chi come la Camusso sostiene che“È proprio per evitare questa situazione di sfiducia che abbiamo aperto la vertenza sulle pensioni . Questo è un sistema ingiusto che scarica la disoccupazione sulle spalle dei singoli e si basa solo sull’aspettativa di vita. Vedere ogni singolo aspetto come un costo impedisce una riforma complessiva del sistema che preveda investimenti che non sono costi: bisogna ricostruire il sistema per i giovani bisogna superare la differenza tra tutelati e non”.
Il problema sono proprio le vertenze aperte dai vari sindacati confederali, CGIL in primis, che attraverso tavoli concertativi hanno molto spesso illuso, ieri come oggi, milioni di lavoratori e lavoratrici. La sfiducia nel sistema pensionistico è da tempo nella testa della generazione ’80, imputare al presidente dell’Inps di turno l’aumento di questo dato è pura demagogia. A chiedere dov’era la CGIL venti o dieci anni fa, quando le riforme Amato, Dini e quella lacrime e sangue della Fornero, davano il senso sul dove saremmo arrivati non risolve la questione anche se sarebbe bello ricordarglielo. L’introduzione dei fondi pensioni integrative, tanto osannati dai sindacati (fondo: cometa, prevedi, ecc. ecc.), non erano altro che il cavallo di Troia di una situazione improntata su un cantiere sempre aperto con un minimo comune denominatore: tagliare la spesa pensionistica. Processo che ha avuto il suo culmine proprio dal 1 gennaio del 2015, quando è entrata in vigore la norma per cui l’età pensionabile è legata all’aumento della speranza di vita. Dati alla mano emerge che nel 2050 l’Italia avrà un “record” europeo di uscita dal lavoro: 69 anni e 9 mesi.
In conclusione non saranno certo gli annunci o le vertenze a dare fiducia o sfiducia alla generazione ’80, ma la consapevolezza , già presente in alcune realtà, della fine della delega.
La questione sollevata da Tito Boeri non ha nulla di sorprendente: le parole del presidente dell’Inps hanno messo solo una lente di ingrandimento sulla questione pensioni, quantificando il reddito e l’età pensionabile della generazione ’80. Tuttavia questo tipo di calcolo è sotto gli occhi di tutti, o meglio di chi oggi ha mediamente 35 anni. Quella generazione che tutto sommato ha potuto accedere al mondo del lavoro con un contratto a tempo indeterminato, quello che se anche ti sparavi 10 ore di lavoro, avevi ancora delle tutele legate ad un contratto nazionale. Gli anni ‘80 sono poi diventati i ‘90, 2000, 2010 ecc. ecc. La precarizzazione del mondo del lavoro e il fattore delega sindacato-politica ha fatto il resto, fino ad arrivare al Jobs Act di oggi, quello che ha introdotto il contratto a tempo “indeterminato” a tutele crescenti, voucher e contratti precari che hanno solo modernizzato il proprio norme salvo garantire la forma.
Boeri non dice una novità quando sostiene che si andrà in pensione a 75 anni e con un reddito da meno di 750 euro. Quest’ipotesi riguarderebbe chi ha versato i contributi in maniera discontinua, una realtà per milioni di lavoratori e lavoratrici, destino della generazione ’80, ’90 e cosi via.
Con l’uso strumentale della questione dell’innalzamento della vita media (tralasciando le svariate possibilità per cui quest’aumento dell’aspettativa di vita possa molto spesso precipitare rovinosamente, dato che l’impoverimento dell’individuo che arriva a tagliare la propria spesa sulle cure sanitarie è una variabile considerevole) il futuro delle generazioni che sono nate dagli anni ’80 in poi pare essere già scritto.
Il condizionale è sempre d’obbligo, perché non sarà il presidente dell’Inps a innescare quello che la segretaria nazionale della CGIL Camusso teme, dichiarando che “le frasi dell’economista rischiano di passare come un messaggio pericoloso disfiduciaai giovani, con molti che reagiscono dicendo allora non pago più i contributi, proporre in questo modo la previsione di pensione a 75 anni è irragionevole”.
Il problema non sarà una parte della società che farebbe, non a torto, discorsi di questo tipo, né che un economista dica come stanno realmente le cose, bensì chi come la Camusso sostiene che“È proprio per evitare questa situazione di sfiducia che abbiamo aperto la vertenza sulle pensioni . Questo è un sistema ingiusto che scarica la disoccupazione sulle spalle dei singoli e si basa solo sull’aspettativa di vita. Vedere ogni singolo aspetto come un costo impedisce una riforma complessiva del sistema che preveda investimenti che non sono costi: bisogna ricostruire il sistema per i giovani bisogna superare la differenza tra tutelati e non”.
Il problema sono proprio le vertenze aperte dai vari sindacati confederali, CGIL in primis, che attraverso tavoli concertativi hanno molto spesso illuso, ieri come oggi, milioni di lavoratori e lavoratrici. La sfiducia nel sistema pensionistico è da tempo nella testa della generazione ’80, imputare al presidente dell’Inps di turno l’aumento di questo dato è pura demagogia. A chiedere dov’era la CGIL venti o dieci anni fa, quando le riforme Amato, Dini e quella lacrime e sangue della Fornero, davano il senso sul dove saremmo arrivati non risolve la questione anche se sarebbe bello ricordarglielo. L’introduzione dei fondi pensioni integrative, tanto osannati dai sindacati (fondo: cometa, prevedi, ecc. ecc.), non erano altro che il cavallo di Troia di una situazione improntata su un cantiere sempre aperto con un minimo comune denominatore: tagliare la spesa pensionistica. Processo che ha avuto il suo culmine proprio dal 1 gennaio del 2015, quando è entrata in vigore la norma per cui l’età pensionabile è legata all’aumento della speranza di vita. Dati alla mano emerge che nel 2050 l’Italia avrà un “record” europeo di uscita dal lavoro: 69 anni e 9 mesi.
In conclusione non saranno certo gli annunci o le vertenze a dare fiducia o sfiducia alla generazione ’80, ma la consapevolezza , già presente in alcune realtà, della fine della delega.
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