A margine dell’audizione parlamentare davanti alle commissioni
Bilancio di Camera e Senato, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan
è tornato ad aprire uno spiraglio per una ritocco al moloch delle
pensioni italiane: un capitolo fondamentale di un welfare state sempre
più sfilacciato, ma anche fonte di grandi squilibri nell’impegno di
risorse pubbliche.
Le pensioni rappresentano oggi la prima voce di spesa pubblica (circa un terzo) nel nostro Paese, il 14% del Pil, nonostante la riforma Fornero sia stata varata nel 2011 con la promessa di tagliare gli emolumenti di 80 miliardi di euro in 8 anni. Il prezzo più alto però lo pagano come di prassi le categorie più svantaggiate, che in questo caso spesso coincidono con le fasce d’età più giovani, come già 5 anni fa – appena prima che la riforma Fornero diventasse legge – sottolineava sulle nostre pagine il sociologo De Masi. «Dato il livello di disoccupazione giovanile – è tornato ieri a spiegare il presidente dell’Inps, Tito Boeri – rischiamo di avere intere generazioni perdute, invece abbiamo bisogno di quel capitale umano», a sua volta formatosi nella scuola pubblica (con risorse pubbliche). Boeri avvisa: chi è nato nel 1980 rischia concretamente di andare in pensione a 75 anni a causa dei ritardi cumulatisi in anni di disoccupazione.
Non è questo che un cittadino, di qualsiasi età, dovrebbe attendersi. La legge individua oggi in 66 anni e 7 mesi il target per raggiungere la pensione di vecchiaia, e in 42 anni e 10 mesi di contributi quello per la pensione anticipata; termini che a partire dal 2019 verranno rivalutati ogni due anni in base alla speranza di vita (che in Italia l’anno scorso ha invertito la rotta, calando) fino ad arrivare – si stima – a 70 anni (o 46 anni e 3 mesi di contributi) nel 2049: limiti d’età già assai gravosi, per un giovane in realtà rappresentano una chimera.
Introdurre una qualche forma di flessibilità in uscita dal sistema pensionistico come concepito dalla riforma Fornero darebbe respiro sia ai lavoratori anziani e desiderosi di rimodulare il loro impegno lavorativo, sia alle sempre più ampie file di giovani che non riescono a trovare occupazione. L’impegno per le casse pubbliche, stimano dal ministero, oscilla tra i 5 e i 7 miliardi di euro: un placebo per il quale comunque è risulta oggi difficile individuare risorse. Il presidente dell’Inps ha già suggerito in passato interventi che passino dal taglio delle pensioni d’oro già oggi erogate, col senno di poi troppo generose, ma il governo si è finora rifiutato di toccare i “diritti acquisiti” e niente dà a pensare che possa cambiare a breve idea. Nel mentre la disoccupazione giovanile si incancrenisce, smontando le prospettive di vita dei 25-34enni, ferendo in particolare la componente femminile (solo il 51% delle donne in questa fascia d’età ha un lavoro, in Italia) e dunque mortificando incidentalmente la crescita demografica: in futuro, ci saranno sempre meno lavoratori attivi che possano contribuire a finanziare le pensioni dei 30enni di oggi, in una spirale depressiva apparentemente senza fine.
«Ignorare la demografia – spiega il demografo Alessandro Rosina, curatore del Rapporto giovani (aggiornato pochi giorni fa) – è stato uno degli errori fatali del nostro percorso di sviluppo negli ultimi decenni. Lo scenario futuro è quello di una popolazione autoctona che diminuisce e invecchia: vedremo impoverire soprattutto la parte più giovane e quella delle età adulte al centro della vita riproduttiva e lavorativa del paese. Per non condannarci anche al declino economico e all’insostenibilità dello stato sociale, è uno scenario che chiede come risposta politiche lungimiranti sui meccanismi di rinnovo demografico, favorendo di più la scelta di avere figli e gestendo meglio l’immigrazione. La crisi, insomma, ha colpito duramente, ma nulla in confronto al futuro che ci aspetta se non impariamo a prendere la demografia seriamente».
Ancor prima che un paletto fondamentale dello stato sociale, l’equità intergenerazionale è un motore fondamentale della sostenibilità, così come definito dalla Commissione Brundtland su ambiente e sviluppo proprio negli anni ’80: lo sviluppo sostenibile è tale se soddisfa «i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro». Inutile ricordare che tutto questo, nell’Italia di oggi, non sta accadendo. Nel medio-lungo periodo le risposte non possono che essere legate a politiche di sviluppo – sostenibile, per definizione replicabile nel tempo – che tengano conto delle dinamiche sociali e demografiche in atto, di quelle ambientali come di quelle economiche.
Nel breve periodo però la risposta non può che essere una: ridistribuire. Durante questi anni di crisi gli indici di disuguaglianza economica sono schizzati verso l’alto nel Paese, con l’1% più ricco degli italiani che detiene 39 volte la ricchezza del 20% più povero. Indagini precedenti sottolineano come la ricchezza mobiliare privata ammonti in Italia a 4mila miliardi di euro, il 200% del debito pubblico, e la metà di essa è in mano a soli 2 milioni di famiglie italiane. I soldi ci sono, manca il coraggio politico.
Le pensioni rappresentano oggi la prima voce di spesa pubblica (circa un terzo) nel nostro Paese, il 14% del Pil, nonostante la riforma Fornero sia stata varata nel 2011 con la promessa di tagliare gli emolumenti di 80 miliardi di euro in 8 anni. Il prezzo più alto però lo pagano come di prassi le categorie più svantaggiate, che in questo caso spesso coincidono con le fasce d’età più giovani, come già 5 anni fa – appena prima che la riforma Fornero diventasse legge – sottolineava sulle nostre pagine il sociologo De Masi. «Dato il livello di disoccupazione giovanile – è tornato ieri a spiegare il presidente dell’Inps, Tito Boeri – rischiamo di avere intere generazioni perdute, invece abbiamo bisogno di quel capitale umano», a sua volta formatosi nella scuola pubblica (con risorse pubbliche). Boeri avvisa: chi è nato nel 1980 rischia concretamente di andare in pensione a 75 anni a causa dei ritardi cumulatisi in anni di disoccupazione.
Non è questo che un cittadino, di qualsiasi età, dovrebbe attendersi. La legge individua oggi in 66 anni e 7 mesi il target per raggiungere la pensione di vecchiaia, e in 42 anni e 10 mesi di contributi quello per la pensione anticipata; termini che a partire dal 2019 verranno rivalutati ogni due anni in base alla speranza di vita (che in Italia l’anno scorso ha invertito la rotta, calando) fino ad arrivare – si stima – a 70 anni (o 46 anni e 3 mesi di contributi) nel 2049: limiti d’età già assai gravosi, per un giovane in realtà rappresentano una chimera.
Introdurre una qualche forma di flessibilità in uscita dal sistema pensionistico come concepito dalla riforma Fornero darebbe respiro sia ai lavoratori anziani e desiderosi di rimodulare il loro impegno lavorativo, sia alle sempre più ampie file di giovani che non riescono a trovare occupazione. L’impegno per le casse pubbliche, stimano dal ministero, oscilla tra i 5 e i 7 miliardi di euro: un placebo per il quale comunque è risulta oggi difficile individuare risorse. Il presidente dell’Inps ha già suggerito in passato interventi che passino dal taglio delle pensioni d’oro già oggi erogate, col senno di poi troppo generose, ma il governo si è finora rifiutato di toccare i “diritti acquisiti” e niente dà a pensare che possa cambiare a breve idea. Nel mentre la disoccupazione giovanile si incancrenisce, smontando le prospettive di vita dei 25-34enni, ferendo in particolare la componente femminile (solo il 51% delle donne in questa fascia d’età ha un lavoro, in Italia) e dunque mortificando incidentalmente la crescita demografica: in futuro, ci saranno sempre meno lavoratori attivi che possano contribuire a finanziare le pensioni dei 30enni di oggi, in una spirale depressiva apparentemente senza fine.
«Ignorare la demografia – spiega il demografo Alessandro Rosina, curatore del Rapporto giovani (aggiornato pochi giorni fa) – è stato uno degli errori fatali del nostro percorso di sviluppo negli ultimi decenni. Lo scenario futuro è quello di una popolazione autoctona che diminuisce e invecchia: vedremo impoverire soprattutto la parte più giovane e quella delle età adulte al centro della vita riproduttiva e lavorativa del paese. Per non condannarci anche al declino economico e all’insostenibilità dello stato sociale, è uno scenario che chiede come risposta politiche lungimiranti sui meccanismi di rinnovo demografico, favorendo di più la scelta di avere figli e gestendo meglio l’immigrazione. La crisi, insomma, ha colpito duramente, ma nulla in confronto al futuro che ci aspetta se non impariamo a prendere la demografia seriamente».
Ancor prima che un paletto fondamentale dello stato sociale, l’equità intergenerazionale è un motore fondamentale della sostenibilità, così come definito dalla Commissione Brundtland su ambiente e sviluppo proprio negli anni ’80: lo sviluppo sostenibile è tale se soddisfa «i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro». Inutile ricordare che tutto questo, nell’Italia di oggi, non sta accadendo. Nel medio-lungo periodo le risposte non possono che essere legate a politiche di sviluppo – sostenibile, per definizione replicabile nel tempo – che tengano conto delle dinamiche sociali e demografiche in atto, di quelle ambientali come di quelle economiche.
Nel breve periodo però la risposta non può che essere una: ridistribuire. Durante questi anni di crisi gli indici di disuguaglianza economica sono schizzati verso l’alto nel Paese, con l’1% più ricco degli italiani che detiene 39 volte la ricchezza del 20% più povero. Indagini precedenti sottolineano come la ricchezza mobiliare privata ammonti in Italia a 4mila miliardi di euro, il 200% del debito pubblico, e la metà di essa è in mano a soli 2 milioni di famiglie italiane. I soldi ci sono, manca il coraggio politico.
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