L’apertura a Roma della rappresentanza dell’Ossezia del Sud, repubblica caucasica proclamatasi indipendente dalla Georgia
nel 2008 ma riconosciuta da un pugno di nazioni, ha provocato nei giorni scorsi un piccolo caso diplomatico: nel ribadire che l’Italia non riconosce la sovranità ossetina, il nostro Ministero degli Esteri è intervenuto sulla questione confermando il pieno sostegno all’integrità territoriale della Georgia, e precisando che alla missione non verrà attribuito alcuno status diplomatico. Forse la Farnesina ha agito troppo d’impulso. Pur nel pieno rispetto dei rapporti bilaterali con Tbilisi, l’Italia avrebbe potuto cogliere l’occasione per farsi portavoce di un problema, la cui soluzione non può più essere procrastinata sine die dalla comunità internazionale: parliamo dei cosiddetti Stati “a riconoscimento limitato”.
Da raro quale era, il fenomeno si è moltiplicato nel corso degli ultimi venticinque anni, divenendo una spina nel fianco di molte nazioni, incluse le grandi potenze. Gli effetti della dissoluzione di Urss e Jugoslavia, entrambi Stati multietnici, non si sono infatti esauriti con la nascita dell’amorfa Comunità degli Stati Indipendenti e con le guerre balcaniche, ma sono continuati anche dopo, con la costituzione di nuove autoproclamate entità statali come l’Ossezia del Sud, ma anche come la Transnistria, il Nagorno Karabakh, il Kosovo e l’Abkhazia: Stati la cui sovranità non è generalmente riconosciuta dalla comunità internazionale, nonostante abbiano una propria struttura amministrativa, un proprio governo e anche una propria diplomazia.
Questi territori hanno tutti un comun denominatore: sono stati teatro di guerra. Alcuni lo sono ancora oggi, come ad esempio il Nagorno Karabakh, altri potranno esserlo domani, come la Transnistria. Ma il discorso che può essere applicato a tutti gli Stati a riconoscimento limitato è che la loro presenza nel contesto geopolitico mondiale rappresenta inequivocabilmente una potenziale fonte di instabilità: questo scenario, per nulla remoto, deve appunto mettere in guardia la comunità internazionale sui rischi per la pace provenienti da attori politici privi di uno status giuridico generalmente riconosciuto, che attribuisca loro diritti e doveri nei confronti degli altri Paesi e dei cittadini stessi. Ciò non vuol dire affatto che il diritto dei popoli all’autodeterminazione deve essere negato. Tutt’altro: il compito che spetta alle organizzazioni internazionali, Onu in primis, è quello di disinnescare questa bomba a tempo colmando il vuoto giuridico che caratterizza situazioni come quelle appena viste, a tutto vantaggio della convivenza pacifica.
Per far questo, le Nazioni Unite dovrebbero rispolverare l’Amministrazione fiduciaria, un vecchio istituto caduto in disuso che consentirebbe agli Stati a riconoscimento limitato di ottenere uno status giuridico a livello internazionale: essi verrebbero guidati da Amministrazioni o Agenzie speciali dell’Onu, oppure da un Paese fiduciario con mandato del Palazzo di Vetro, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà sancite dalle convenzioni e dalle dichiarazioni fondamentali delle Nazioni Unite. Oltre a ciò, il nuovo status potrebbe consentire loro di emettere particolari passaporti per i propri cittadini, ospitare consolati di nazioni estere, appellarsi alle Corti internazionali per la risoluzione di contenziosi e stabilire normali relazioni commerciali con Paesi terzi.
Certo, a molti può giustamente sembrare una sorta di neocolonialismo, un ritorno ai vecchi protettorati o ai mandati della Società delle Nazioni. D’altro canto c’è pure da considerare l’Amministrazione fiduciaria come uno strumento che, se impiegato sulla base esclusiva della Carta delle Nazioni Unite, può contribuire non poco a superare il clima di reciproci sospetti e accuse tra Stati. Dal prossimo gennaio l’Onu avrà un nuovo Segretario Generale: fossi in lui, farei pressione sui membri permanenti del Consiglio di Sicurezza per spingerli ad accettare un esperimento del genere. Campi di sperimentazione ce ne sono. Anche perchè le Nazioni Unite hanno disperatamente bisogno di un successo diplomatico per riappropriarsi del ruolo per cui sono state istituite settantuno anni fa, di cui ormai si è persa memoria.
nel 2008 ma riconosciuta da un pugno di nazioni, ha provocato nei giorni scorsi un piccolo caso diplomatico: nel ribadire che l’Italia non riconosce la sovranità ossetina, il nostro Ministero degli Esteri è intervenuto sulla questione confermando il pieno sostegno all’integrità territoriale della Georgia, e precisando che alla missione non verrà attribuito alcuno status diplomatico. Forse la Farnesina ha agito troppo d’impulso. Pur nel pieno rispetto dei rapporti bilaterali con Tbilisi, l’Italia avrebbe potuto cogliere l’occasione per farsi portavoce di un problema, la cui soluzione non può più essere procrastinata sine die dalla comunità internazionale: parliamo dei cosiddetti Stati “a riconoscimento limitato”.
Da raro quale era, il fenomeno si è moltiplicato nel corso degli ultimi venticinque anni, divenendo una spina nel fianco di molte nazioni, incluse le grandi potenze. Gli effetti della dissoluzione di Urss e Jugoslavia, entrambi Stati multietnici, non si sono infatti esauriti con la nascita dell’amorfa Comunità degli Stati Indipendenti e con le guerre balcaniche, ma sono continuati anche dopo, con la costituzione di nuove autoproclamate entità statali come l’Ossezia del Sud, ma anche come la Transnistria, il Nagorno Karabakh, il Kosovo e l’Abkhazia: Stati la cui sovranità non è generalmente riconosciuta dalla comunità internazionale, nonostante abbiano una propria struttura amministrativa, un proprio governo e anche una propria diplomazia.
Questi territori hanno tutti un comun denominatore: sono stati teatro di guerra. Alcuni lo sono ancora oggi, come ad esempio il Nagorno Karabakh, altri potranno esserlo domani, come la Transnistria. Ma il discorso che può essere applicato a tutti gli Stati a riconoscimento limitato è che la loro presenza nel contesto geopolitico mondiale rappresenta inequivocabilmente una potenziale fonte di instabilità: questo scenario, per nulla remoto, deve appunto mettere in guardia la comunità internazionale sui rischi per la pace provenienti da attori politici privi di uno status giuridico generalmente riconosciuto, che attribuisca loro diritti e doveri nei confronti degli altri Paesi e dei cittadini stessi. Ciò non vuol dire affatto che il diritto dei popoli all’autodeterminazione deve essere negato. Tutt’altro: il compito che spetta alle organizzazioni internazionali, Onu in primis, è quello di disinnescare questa bomba a tempo colmando il vuoto giuridico che caratterizza situazioni come quelle appena viste, a tutto vantaggio della convivenza pacifica.
Per far questo, le Nazioni Unite dovrebbero rispolverare l’Amministrazione fiduciaria, un vecchio istituto caduto in disuso che consentirebbe agli Stati a riconoscimento limitato di ottenere uno status giuridico a livello internazionale: essi verrebbero guidati da Amministrazioni o Agenzie speciali dell’Onu, oppure da un Paese fiduciario con mandato del Palazzo di Vetro, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà sancite dalle convenzioni e dalle dichiarazioni fondamentali delle Nazioni Unite. Oltre a ciò, il nuovo status potrebbe consentire loro di emettere particolari passaporti per i propri cittadini, ospitare consolati di nazioni estere, appellarsi alle Corti internazionali per la risoluzione di contenziosi e stabilire normali relazioni commerciali con Paesi terzi.
Certo, a molti può giustamente sembrare una sorta di neocolonialismo, un ritorno ai vecchi protettorati o ai mandati della Società delle Nazioni. D’altro canto c’è pure da considerare l’Amministrazione fiduciaria come uno strumento che, se impiegato sulla base esclusiva della Carta delle Nazioni Unite, può contribuire non poco a superare il clima di reciproci sospetti e accuse tra Stati. Dal prossimo gennaio l’Onu avrà un nuovo Segretario Generale: fossi in lui, farei pressione sui membri permanenti del Consiglio di Sicurezza per spingerli ad accettare un esperimento del genere. Campi di sperimentazione ce ne sono. Anche perchè le Nazioni Unite hanno disperatamente bisogno di un successo diplomatico per riappropriarsi del ruolo per cui sono state istituite settantuno anni fa, di cui ormai si è persa memoria.
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