venerdì 22 gennaio 2016

La violenza di massa

Il caso Cucchi divide. C’è chi, sensatamente, sostiene le ragioni dei familiari della vittima, ma anche chi giustifica a prescindere la polizia con omertosa complicità. Lo stesso accade per avvenimenti simili, in cui si sono verificati degli abusi da parte delle forze dell’ordine (Aldrovandi, Mastrogiovanni, Giuliani, ecc.). I “fatti” di Colonia (anzi, “fatticci” come direbbe Bruno Latour) invece trovano un’unanime indignazione contro i responsabili, anche se questa indignazione viene usata per scopi politici disparati. Stesso discorso per tutti i delitti spettacolarizzati, gli stupri, gli assassini, ecc. Ondate di odio che si scatenano (amplificate grazie alla rete) contro i responsabili, veri o presunti, con punte di violenza e fanatismo francamente ributtanti: pena di morte, torture truculente e giustizie private fantasticate dai leoni da tastiera semianalfabeti cui il livellamento della rete (ma anche di certi talk show) ha dato la stessa dignità intellettuale di un premio nobel per la letteratura. Se, poi, questo colpevole non viene condannato, o anche semplicemente la sua pena detentiva viene abbreviata, le fantasie distruttive raggiungono un parossismo surreale.
In realtà abbiamo in entrambe le situazioni vittime e carnefici. Cucchi era una vittima non meno di una donna che subisce uno stupro o un omicidio. Di stupro e di assassinio si tratta in entrambi i casi, sul piano etico. Ma il fatto che una violenza, per quanto barbara, possa essere commessa da chi dovrebbe difendere tutti dalla violenza, sembra che la renda quasi più accettabile. Allora Cucchi, massacrato di botte da alcuni agenti, in fondo “se l’è cercata”, perché era un “povero drogato”. Mastrogiovanni, internato, legato al letto e fatto morire di fame e di sete, in fondo era solo un anarchico depresso che cercava guai.
Quando il sopruso porta le mostrine può essere legittimato a qualunque atto. Il problema è solo trovare un’autorità proporzionata al delitto che si vuole commettere; un distintivo, per un ragazzo ammazzato, un Gabinetto di Governo, per un paese bombardato. Per quest’ultimo, è quasi più facile trovare giustificazioni (basta ripetere “democrazia, libertà, lotta al terrorismo” tante volte).
La verità è che il pubblico si indigna molto più facilmente per un colpevole che la fa franca che per la condanna di un innocente. Non si tratta tanto di una preoccupazione per la propria sicurezza personale, la quale può essere messa a repentaglio tanto da un criminale a piede libero, quanto da magistrati o da forze di polizia criminali. Che differenza c’è tra essere stuprati da un clandestino ubriaco e venire rinchiusi per anni in una prigione, senza aver commesso alcun delitto? Non è forse anche questo uno stupro? Non rovina forse la vita di una persona allo stesso modo (o forse anche di più perché la vittima viene marchiata per sempre)?
Basta guardare un po’ al di là di tutte le chiacchiere, le urla, i proclami, gli sfoghi, i parossismi di rabbia e si scopre che al pubblico non interessa molto delle “nostre” donne di Colonia o di quelle violentate dall’immigrato (perché se invece è un italiano che violenta una straniera non fa abbastanza notizia) che puntualmente i giornali non perdono occasione di sbattere in prima pagina. Al pubblico interessa solo la garanzia dell’impunità. Avere le spalle coperte. Partecipare all’orgia di sangue (simulata, ma pur sempre orgia di sangue) senza temere conseguenze. C’è la Polizia, il Tribunale, lo Stato, il Governo, la Legge che garantisce! A volte persino la Morale!
Televisione e stampa incitano la sua perversione. Lo inducono a pensare, confusamente: “Ben fatto. Ma se ci fossi stato io avrei fatto ancora meglio”. Solo che mentre prima era un pensiero che non poteva esprimersi, adesso i social media permettono di dare sfogo a queste pulsioni distruttive con la garanzia dell’anonimato.
Come si spiegano, del resto, tutti i riti di purificazione collettiva, le persecuzioni di folle inferocite libere da qualsiasi senso di colpa, perché convinte di stare dalla parte del Bene? L’individuo, confuso in sciami virtuali, è libero di scaricare qualsiasi responsabilità e di riversare tutte le frustrazioni su un unico oggetto. Non è dirimente che i malcapitati siano colpevoli o meno, ma è preferibile che lo siano, o che comunque siano percepiti come tali, perché ciò toglie qualsiasi inibizione. Politici, immigrati, omosessuali, dissidenti, intellettuali, zingari, musulmani. Il bersaglio può variare, a seconda della contingenza storica. Il potere fa convergere la rabbia e il malcontento che esso stesso produce verso obiettivi isolati, emarginati, magari anche, in alcuni casi, colpevoli di qualcosa, difficili da difendere o impossibilitati a difendersi; usa questa frustrazione per eliminare nemici scomodi o ottenere certi scopi non dichiarati.
I media offrono uno strumento formidabile in questo senso. I roghi di streghe sono spesso solo virtuali, ma possono essere un ottimo punto di partenza per quelli reali. La rapidità con il quale l’Occidente è riuscito a passare dalla paura per gli attentati in qualche capitale, al rancore contro l’Islam, all’invasione “umanitaria”, “democratica” dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia o della Siria, resta un fenomeno stupefacente che darà forse molto da pensare agli storici degli anni avvenire.

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