venerdì 30 gennaio 2015

Un Colle per il Nazareno

Quando perdi il tocco magico se ne accorgono tutti... Matteo Renzi si gioca tutto nella partita del Quirinale, e a dar retta a diversi commentatori ben introdotti nel "palazzo" l'immagine del Colle si sovrappone a quella del Golgota.
A forza di strappare, infatti, ha ridotto ai minimi termini "i forni" a cui andare a chiedere voti. Una volta per "riforme" infami come il Jobs act, un'altra per la legge elettorale, un'altra per le norme da modificare poi di notte in solitudine... Alla fine rischi di restare solo con la Boschi, che a quel punto c'è il rischio ti molli anche lei.
Riassumiamo. Il "Patto del Nazareno" ha tenuto fin qui in modo eccellente, consolidando l'idea di un partito unico renzian-belusconiano. Il problema è che il vantaggio per il Caimano non si è ancora visto. Ceto, la "manina" di Matteo aveva corretto nella notte la legge di stabilità, inserendo quell'articolo di tre righe che condovana l'evasione fiscale al di sotto del 3%, e quind anche la condanna dell'ex Cavaliere (era appena sotto il 2%).
Saltato quel trucchetto, resta la necessità di dare a Silvio quel che chiede: una riabilitazione piena, adeguata a farlo ricandidare alle prossime elezioni politiche (se la legislatura finisce nel 2018, però, ci arriverebbe 82enne). Impossibile che gliela dia il governo direttamente (non ha il potere di farlo, se non con altri trucchetti legislativi come quello sopra descritto; ma difficili ormai da replicare). Ci dovrebbe pensare il prossimo presidente della Repubblica, appunto. Ma come garantirsi che lo faccia davvero?
Il nome di Giuliano Amato piace all'omino di Arcore anche per questo motivo. Nonostante la fama di voltagabbana che avvolge il "dottor sottile" fina dalla mezza età, quando accompagnava Bettino Craxi fino sull'orlo del baratro per poi lasciarlo solo.
Un uomo della "casta", di quella più impopolare che si può immaginare. L'esatto contrario di quel che servirebbe per confermare l'idea che si sta "cambiando verso". Per di più geneticamente infedele.
Ma anche l'uomo giusto per far scattare la vendetta dell'"opposizione interna" al Pd. In fondo Massimo D'Alema ci ha convissuto per anni, dopo aver inventato la fondazione ItalianiEuropei.
Scene di caccia sul lungotevere, con tutti disposti a sparare su tutti. La normalità della politica italiana, ma - appunto - uno scenario in cui il divo Matteo smette di sembrare "alessandro mignon" e torna a essere "uno dei tanti".
Vedremo a ore se le difficoltà diventeranno crisi. Se il prossimo presidente non sarà "il suo uomo", infatti, anche per lui si apriranno in anticipo le porte del dimenticatoio. Mai troppo presto.

giovedì 29 gennaio 2015

Grazie alla crisi, l’1% sta per superare in ricchezza il 99%

La ricchezza oggi è insaziabile. Premia sempre di più coloro che hanno già tutto, e toglie ancora di più a coloro che non hanno quasi niente. Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, la Ong Oxfam ha pubblicato il rapporto annuale “Grandi disuguaglianze crescono”, che aggrava lo scenario tracciato solo un anno fa. All’inizio del 2014 Oxfam aveva calcolato che 85 persone possedevano la ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, un dato choc che è stato ultra-citato in questi mesi a controprova del livello di estrema diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e che oggi la lotta di classe esiste, e l’hanno vinta i ricchi. Le nuove stime, effettuate sui dati del Credit Suisse, ricalcolano il numero dei miliardari che nel 2013 possedevano la stessa ricchezza del 50% più povero, e attesta che oggi il loro numero esatto è 92 e non più 85. Oxfam fa una previsione: nel 2016 la ricchezza dell’1% della popolazione mondiale supererà quella del 99%, rendendo obsoleto persino lo slogan del movimento di Occupy Wall Street.
L’1% dei super-ricchi possiede oggi il 48% della ricchezza globale e lascia al restante 99% il 52% delle risorse. Questo 52% è, a sua volta, posseduto da 20% di “ricchi”. Il restante 80% si deve arrangiare con il 5,5% delle risorse. Dal 2010, spiega il Bill Gatesrapporto, gli 80 ultra-miliardari della lista stilata da “Forbes” (primo Bill Gates, secondo Warren Buffett, terzo Carlos Slim, quindicesimo Mark Zuckerberg; primo tra gli italiani Michele Ferrero e famiglia) hanno visto le loro ricchezze moltiplicarsi con l’esplosione della crisi globale. Cinque anni fa detenevano una ricchezza netta pari a 1.300 miliardi di dollari. Oggi contano su 1.900 miliardi di dollari. Un aumento di 600 miliardi di dollari, il 50% in termini nominali. Oxfam segnala inoltre una lotta tra i ricchi, visto che il loro numero è diminuito dai 388 del 2010 agli attuali 92 che detengono il volume equivalente alla ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale. Tre miliardi e mezzo di persone si dividono dunque il totale della ricchezza posseduta da queste persone.
Nell’élite elencata da “Forbes” c’erano 1645 miliardari nel 2014. Il 30% (492 persone) sono cittadini statunitensi, oligarchi russi, nuovi ricchi cinesi, finanzieri come George Soros e i principi sauditi. Più di un terzo di queste persone ha ereditato, e non prodotto, la ricchezza che detiene, segno che il capitale di produce verso l’alto e non allarga la base della piramide. Il 20% di questi ricchi ha interessi nei settori finanziario o assicurativo dove la ricchezza è aumentata da 1.010 miliardi di dollari a 1.160 miliardi in un solo anno. Nel frattempo sono cresciuti i miliardari che operano nel settore farmaceutico e sanitario. Nel club sono entrati in 29 con un aumento del 47% della ricchezza collettiva, passata da 170 miliardi a 250 miliardi di dollari. I campi Michele Ferrerobiopolitici della cura o della prevenzione delle malattia, così come quello dell’assicurazione contro i rischi, costituiscono uno dei principali fattori dell’accumulazione.
Lo strumento principale per ottenere tale risultato è il lobbismo, una modalità alla quale la finanza e le imprese ricorrono per ottenere benefici dalla politica e dagli Stati. Nel 2013, solo negli Usa, il settore finanziario ha speso oltre 400 milioni di dollari per fare lobby. Nell’Unione Europea la stima è di 150 milioni di dollari. Nel vecchio continente, tra il 2013 e il 2014, i super-ricchi sono aumentati da 31 a 39 con una ricchezza pari a 128 miliardi. Un’élite di oligarchi globali contro un mondo di working poors e poverissimi. Sono dati che smentiscono, una volta in più, la pseudo-teoria neoliberista del “trickle-down” (lo “sgocciolamento”). La ricchezza di pochi non traina lo sviluppo capitalistico né la redistribuzione delle ricchezze. Anzi, aumenta le diseguaglianze. Sono sette le proposte di Oxfam per invertire questa tendenza: contrasto all’elusione fiscale, investimenti in salute e istruzione pubblica e gratuita; redistribuzione equa del peso fiscale; introduzione del salario minimo e di salari dignitosi per tutti; parità di retribuzione, reti di protezione sociale per i poveri, lotta globale contro la diseguaglianza. Un’agenda in fondo minimalista per provare a rovesciare la direzione della lotta di classe dal basso verso l’alto.

mercoledì 28 gennaio 2015

Contro la crisi si torna al baratto. Cresce lo scambio di beni e servizi online

Sono sempre di più in Italia le aziende che si rivolgono ai circuiti di barter, la pratica commerciale praticata tra imprese per lo scambio multilaterale di beni o servizi in compensazione. A rivelarlo è iBarter, la prima piattaforma italiana per il baratto multimediale online dedicata alle aziende, che ha registrato negli ultimi anni una crescita esponenziale. Il ricorso delle aziende al baratto, infatti, aumenta del 50% all'anno e iBarter nel 2015 conta di superare le mille aziende con un controvalore di scambi superiore ai 3 milioni di euro.
"Il baratto è una forma di scambio antichissima, quello tra imprese è invece una realtà relativamente giovane in Italia", spiega Marco Gschwentner, area strategie di sviluppo iBarter e tra i fondatori del circuito. "Viene stimato che solamente negli Stati Uniti siano circa 400mila le imprese che si appoggiano ad un sistema di barteraggio, sviluppando un controvalore pari a oltre 12 miliardi di dollari".
La finalità di iBarter, giovane azienda con quartier generale a Torino, è quella di fornire alle imprese uno strumento utile che consenta loro di acquistare ciò di cui necessitano utilizzando servizi e/o prodotti come pagamento. La piattaforma multimediale promuove lo scambio di beni attraverso la moneta complementare dell’iBcredits. "Davanti ad una crisi che ha acuito i problemi di liquidità ed evidenziato la necessità di trovare nuovi clienti, il baratto rappresenta una possibile risposta - spiega Gschwentner - . Innanzitutto perché non costringe le imprese a mettere mano al portafoglio, ma queste possono utilizzare come merce di scambio i propri prodotti/servizi per l’acquisto dei beni di cui hanno bisogno. In secondo luogo, le aziende si ritrovano su un’unica piattaforma che ha il preciso scopo di creare una rete dedicata allo scambio, permettendo di trovare nuovi fornitori e nuovi clienti".
Così un albergo che rinnova il parco televisori in dotazione, paga i nuovi tv con un numero di stanze messe a disposizione, oppure un elettricista si avvale di una consulenza specialista marketing e mette sulla piattaforma un impianto antifurto che può essere acquistato da un’azienda terza. Esempi di come lo scambio di beni e servizi possa arricchire le aziende, il tutto svolto in assoluta libertà come sottolinea Massimo Cirio, area marketing iBarter e tra i fondatori del circuito: "Lo scambio avviene in assoluta libertà: le aziende trattano tra di loro secondo le regole del mercato. E beni e servizi possono essere messi in vendita totalmente in crediti oppure ripartiti in crediti ed euro". Ma chi sono le aziende che aderiscono? "La maggior parte, il 90%, sono imprese di piccole e medie dimensioni - conclude Cirio - con un fatturato che non supera i 10 milioni di euro. Le categorie merceologiche sono varie: si spazia dalla chimica alla meccanica all’arredamento, passando dai servizi alle assicurazioni. Non mancano settori come l’alimentare, l’informatica, la stampa, le energie alternative, l’oggettistica da regalo e il tempo libero".

martedì 27 gennaio 2015

Schengen addio, l’Italia ripristina i controlli alle frontiere sugli extracomunitari

Nonostante le rassicurazioni dopo la strage di Charlie Hebdo, il Ministro dell’Interno Angelino Alfano ha preso una decisione drastica: ripristinare i controlli alle frontiere sugli extracomunitari. Ecco tutti i dettagli.
Sul trattato di Schengen e la chiusura o meno delle frontiere lo scontro politico era stato durissimo. Dopo la strage di Charlie Hebdo c’era chi ne chiedeva a gran voce la sospensione – su tutti la Lega di Salvini e il Front National di Le Pen – e chi, invece, difendeva questo diritto acquisito.
Angelino Alfano, Ministro dell’Interno italiano, era tra questi ultimi ma evidentemente deve aver cambiato idea. O, più probabilmente, l’allerta terrorismo ha influito sulla sua decisione.
Come ha riportato Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, “l’Italia ripristina i controlli alle frontiere e chiede la lista passeggeri dei voli che arrivano da tratte a rischio. Mentre scattano accertamenti su una quarantina di stranieri ritenuti «sospetti» - residenti nel Lazio, in Lombardia e in Campania - per valutare nuove espulsioni, il prefetto Alessandro Pansa potenzia l’attività della polizia di frontiera per realizzare «la piena efficacia dei dispositivi e delle misure»”.
Nella circolare trasmessa dal Dipartimento dell’Immigrazione del Viminale vengono sottolineate le “recenti segnalazioni concernenti un incremento dell’utilizzo fraudolento di documenti e titoli di viaggio sottratti in bianco e le diversificate procedure di falsificazione degli stessi”.
La preoccupazione che i terroristi arrivino in Italia è altissima e le minacce dell’Isis hanno fatto il resto. Se ci aggiungete le informative allarmanti dei servizi segreti è facile comprendere il passo indietro di Alfano.
Non si tratta di una sospensione piena del trattato di Schengen ma la realtà dei fatti prevede che “ad essere controllati ai confini potranno essere non solo i cittadini extracomunitari ma tutti coloro che sono ritenuti potenzialmente pericolosi per la sicurezza nazionale”.
La nuova strategia anti-terrorismo del Viminale mette in campo anche “il sistematico accesso alle banche dati per migliorare il processo di gestione dei rischi e contrastare adeguatamente l’immigrazione irregolare e il terrorismo internazionale» soprattutto potenziando «l’utilizzo del sistema Bcs per l’acquisizione anticipata delle liste dei vettori provenienti da tratte a rischio”.

venerdì 23 gennaio 2015

Gli attacchi di Parigi dimostrano l’ipocrisia dello sdegno dell’Occidente

Dopo l’attacco terroristico a Charlie Hebdo che ha ucciso 12 persone, compresi il direttore e altri 4 vignettisti, e dopo l’uccisione di 4 ebrei in un supermercato kosher subito dopo, il Primo Ministro francese Manuel Valls ha dichiarato “una guerra contro il terrorismo, contro lo jihadismo, contro l’Islam radicale, contro ogni cosa che sia mirata a rompere la fraternità , la libertà, la solidarietà. “
Milioni di persone hanno dimostrato a condanna delle atrocità, amplificati da un coro di orrore sotto di “Io sono Charlie.” Ci sono stati eloquenti dichiarazioni di sdegno, compresi bene dal capo del Partito laburista di Israele e principale sfidante nelle imminenti elezioni, Isaac Herzog, che ha dichiarato che “Il terrorismo è terrorismo. Non ce ne sono due modi,” e che “Tutte le nazioni che cercano la pace e la libertà, [affrontano] un’enorme sfida da parte della violenza brutale.
I crimini hanno anche provocato un’ondata di commenti che indagavano sulle radici di questi attacchi sconvolgenti nella cultura islamica ed esploravano i modi di contrastare l’ondata omicida di terrorismo islamico senza sacrificare i nostri valori. Il New York Times ha definito l’attacco uno “scontro di civiltà,,” ma è stato corretto dall’editorialista del Times Anand Giriharadas che ha postato un tweet che l’attacco “Non & mai una guerra di civiltà o una guerra tra di loro, ma una guerra PER la civiltà contro gruppi dall’altra parte di quella sull’altro lato di quella linea. ‪#‎Charlie‬ Hebdo.”
Lo scenario a Parigi è stato descritto vividamente sul New York Times dal corrispondente dall’Europa Steven Erlanger: “una giornata di sirene, di elicotteri in aria, di frenetici comunicati stampa, di cordoni di polizia e di folle ansiose, di bambini portati via ??? dalle scuole verso la salvezza. E’ stata una giornata, come le due precedenti, di sangue e orrore a Parigi e intorno alla città.”
Erlanger ha anche citato un giornalista sopravvissuto che ha detto che “Tutto è andato in pezzi. Non c’era via di uscita. C’era fumo dappertutto. Era terribile. La gente urlava. Sembrava un incubo.” Un altro ha riferito di una “enorme denotazione, e tutto è diventato buio.” La scena, ha raccontato Erlanger, “era una scena sempre più familiare di vetri infranti, di muri rotti, di legni contorti, di vernice scrostata e devastazione emotiva.
Tuttavia queste ultime citazioni- come ci ricorda il giornalista David Paterson – non sono sul gennaio 2015. Sono ricavate, invece, da un servizio di Erlanger del 24 aprile 1999 che ha ricevuto un’attenzione di gran lunga minore. Eralnger riferiva circa “l’attacco missilistico della NATO contro il quartiere generale della televisione di “ stato serba che ha “fatto interrompere i collegamenti della Radio televisione serba” uccidendo 16 giornalisti.
“La NATO e gli ufficiali americani hanno difeso l’attacco,” ha riferito Erlanger , “nel tentativo di indebolire il regime del Presidente della Jugoslavia Slobodan Milosevic.” Il portavoce del Pentagono Kenneth Bacon in un briefing a Washington ha detto che “la televisione serba fa parte della macchina omicida di Milosevic tanto quanto quella militare,” e quindi un obiettivo legittimo dell’attacco.
Non ci sono state dimostrazioni o grida di sdegno, nessuno slogan: “Noi siamo RTV,”, nessuna ricerca delle radici dell’attacco alla cultura e alla storia cristiana. Al contrario, l’attacco alla stampa è stato elogiato. Il diplomatico statunitense Richard Holbrooke, allora inviato in Jugoslavia, ha descritto il riuscito attacco alla RTV come uno “sviluppo estremamente importante e, penso, positivo,” un sentimento a cui altri hanno fatto eco.
Ci sono molti altri eventi che non richiedono alcuna ricerca nella cultura e nella storia occidentale – per esempio, la peggior atrocità di tipo terroristico un Europa in anni recenti compiuta da un solo individuo ne luglio 2011, quando Anders Breivik, un cristiano ultra sionista, ha massacrato 77 persone, per lo più giovani al di sotto dei 20 anni.
Nella “guerra contro il terrorismo” è ignorata anche la più estrema campagna terroristica dei tempi moderni – la campagna globale di assassinio fatta da Barack Obama prendendo come obiettivi persone sospettate di avere una presunta intenzione di farci del male in un qualche momento, e qualsiasi sfortunato che per caso era nei pressi. Non mancano neanche altri sfortunati, come i 50 civili che si dice siano stati uccisi in un bombardamento guidato dagli Stati Uniti in Siria in dicembre, di cui a malapena è stato riferito.
In realtà una persona è stata punita in connessione con l’attacco della NATO alla RTV – Dragoljub Milanović, l’amministratore generale della stazione TV, che è stato condannato dalla Corte Europea per i Diritti Umani a 10 anni di prigione per aver mancato di evacuare l’edificio, secondo i Comitato per Proteggere i Giornalisti. Il Tribunale Internazionale per la Jugoslavia, ha valutato l’attacco della NATO, concludendo che non era stato un crimine, e che, sebbene il numero delle vittime civili sfortunatamente fosse alto, non sembra fosse chiaramente sproporzionato.”
Il paragone tra questi casi ci aiuta a capire la condanna del New York Times da parte dell’avvocato per i diritti civili, Floyd Abrams, famoso per la sua energica difesa della libertà di espressione. “Ci sono dei momenti per l’autocontrollo,” ha scritto Abrams, ma “ma immediatamente dopo il più minaccioso attacco al giornalismo a memoria d’uomo, [i redattori del Times] avrebbero servito meglio la causa della libertà di espressione impegnandosi in questa”, pubblicando le vignette di Charlie Hebdo che ridicolizzano Maometto che hanno provocato l’assalto.
Abrams ha ragione a descrivere l’attacco a Charlie Hebdo come “ il più minaccioso attacco al giornalismo a memoria d’uomo.” Il motivo ha a che fare con il concetto di ‘memoria d’uomo’, una categoria attentamente costruita per includere i Loro attacchi contro di noi, escludendo allo stesso tempo i Nostri crimini contro di loro – questi ultimi non reati, ma nobile difesa dei più alti valori, a volte inavvertitamente fallaci.
Questa non è la sede per chiedere informazioni soltanto su che cosa veniva “difeso”
Quando la RTV veniva attaccata, ma questa inchiesta è molto esplicativa (vedere il mio pezzo intitolato: A new generation Draws the Line – Una nuova generazione mette un punto).
Ci sono molti altri esempi dell’interessante categoria “a memoria d’uomo.” Una di queste è fornita dall’assalto dei Marine contro Fallujah nel novembre 2004, uno dei peggiori crimini dell’invasione dell’Iraq da parte di Regno Unito e Stati Uniti.
L’assalto si è aperto con l’occupazione dell’ l’Ospedale Generale di Fallujah, un importante crimine di guerra, a parte il modo in cui è stato eseguito. Il crimine è stato riportato soprattutto sulla prima pagina del New York Times, accompagnato da una fotografia che descriveva in che modo “I pazienti e gli impiegati dell’ospedale venivano fatti uscire di corsa dalle stanze da soldati armati e come si ordinava loro di stare seduti o sdraiati sul pavimento mentre i soldati gli legavano le mani dietro la schiena.” L’occupazione dell’ospedale era stata considerata meritoria e giustificata; “eliminava quello che i funzionari dicevano che era un’arma di propaganda per i militanti:l’Ospedale Generale di Fallujah con il suo fiume di servizi sulle morti di civili.”
Evidentemente, questo non è un assalto alla libera espressione, e non è qualificato per entrare nella “memoria d’uomo.”
Ci sono altre domande. Una, naturalmente, chiederebbe in che modo la Francia sostenga la libertà di espressione e i sacri principi di “fraternità, libertà, solidarietà.” Per esempio, è tramite la Legge Gaysott, ripetutamente attuata, che effettivamente garantisce allo stato il diritto di determinare la Verità Storica e di punire le deviazioni rispetto ai suoi editti? Espellendo i tristi discendenti dei sopravvissuti dell’Olocausto (Roma) verso un’amara persecuzione nell’Europa Orientale? Con il deplorevole modo di trattare gli immigrati nord-africani nelle banlieues di Parigi dove i terroristi di Charlie Hebdo sono diventati terroristi? Dove il coraggioso giornale Charlie Hebdo ha licenziato il vignettista Siné per il motivo che un suo commento è stato avere connotazioni anti-semite? Sorgono rapidamente molte altre domande.
Chiunque abbia gli occhi aperti noterà rapidamente altre omissioni piuttosto impressionanti. E così, preminenti tra coloro che affrontano una “sfida enorme” a causa delle violenza brutale, sono palestinesi, ancora una volta durante il violento assalto di Israele a Gaza nell’estate del 2014, nel quale molti giornalisti sono stati uccisi, talvolta in automobili della stampa ben contrassegnate, insieme a migliaia di altri, mentre la prigione all’aperto gestita da Israele è stata di nuovo ridotta in macerie con il pretesto che era crollata istantaneamente
E’ stato ignorato anche l’assassinio di altri tre giornalisti in America in dicembre, portando a 31il numero di quell’anno. Ci sono stati più di una dozzina di giornalisti uccisi in soltanto in Honduras, fin dal golpe militare del 2009 che è stato effettivamente riconosciuto dagli Stati Uniti (tranne pochi altri)? Probabilmente, secondo l’Honduras del dopo golpe, il campionato per capta per l’assassinio di giornalisti. Ma, di nuovo, non un assalto alla libertà di stampa e memoria d’uomo.
Non è difficile da approfondire. Questi pochi esempi illustrano un principio molto generale che viene osservato con zelo e coerenza impressionanti. Più possiamo incolpare di alcuni crimini i nemici, maggiore è lo sdegno; maggiore la nostra responsabilità per i crimini – e quindi più possiamo fare per fine a questi, minore è la preoccupazione, che tende all’oblio o perfino alla negazione.
Contrariamente alle eloquenti dichiarazioni, non è vero che il “terrorismo è terrorismo. Non ci sono due modi al riguardo.” Ci sono due modi al riguardo; il loro e il nostro. E non soltanto il terrorismo.

giovedì 22 gennaio 2015

Renzi da Davos conferma che suo sarà governo delle banche

"Le banche sono centrali per un'economia, ma l'Italia non si concentra sulle banche". Lo ha dichiarato il premier Matteo Renzi dal World Economic Forum di Davos, in una intervista di Julia Chatterley trasmessa su Class-Cnbc.
Sulla Bce il primo ministro ha detto che rispetta l'indipendenza dell'istituto ma "è tempo di investire in una diversa idea di Unione Europea". Con le giuste leadership e politiche es, l'Europa può essere un posto che dà al mondo un messaggio di innovazione nell'economia e nella cultura delle idee".
Citando l'inflazionata locuzione latina 'carpe diem', Renzi ha detto che il miglior momento per l'Italia non è ieri, bensì domani.
Il decreto di emergenza sulle banche appena approvato, che aumenterà la concorrenza e faciliterrà le operazioni di takeover e consolidamento nel settore bancario, si basa sul presupposto "che finalmente se investi in Italia non ti devi più preoccupare dei giudici o del fisco; ora si può investire". In Italia, ha proseguito Renzi, "purtroppo abbiamo perso l'opportunità di realizzare una riforma bancaria tre anni fa".
Per effetto della riforma, dieci Popolari diventeranno Spa. "Abbiamo deciso in Consiglio dei Ministri di cancellare le regole che riguardano le banche popolari. In Italia c'è questo sistema delle banche che è molto vicino ai mercati internazionali. Ora per legge 10 di esse saranno costrette a diventare delle Spa. In questo modo potranno essere più vicine ai mercati internazionali", prosegue il premier che definisce la riforma "un cambio radicale al nostro sistema tradizionale".
"Quando la crisi ha mostrato i primi segnali", ha spiegato il premier, "tanti Paesi, come per esempio la Germania, la Spagna e l'Inghilterra, hanno deciso di cambiare sistema bancario del loro Paese. Berlusconi, Monti ed Enrico Letta non lo hanno fatto, e io rispetto la loro decisione, ma in un sistema sano e positivo la prima scelta da fare in termini di riforme è quella bancaria".
Renzi ha chiosato ricordando che "io vengo da Firenze, la mia città è diventata una città incredibile non per la qualità degli artisti ma per la presenza del sistema bancario, che ha creato le basi per la cultura, per l'arte, per lo sviluppo di queste attività. Le banche sono assolutamente centrali per un'economia".
C'è tanto business nella girandola di incontri che il premier Matteo Renzi avrà al forum di Davos a margine del suo intervento pubblico delle 11.30. Fittissima l'agenda del premier che questa mattina vedrà il ceo di Bank of America, Brian Moynihan, il ceo di Royal Dutch Shell Ben Van Beurden, il ceo di At&t Randall Stephenson, il ceo di Ubs Sergio Ermotti e il chair dell'azienda farmaceutica Merck, Karl Ludwig Kley. Dopo il suo speech alla sessione plenaria dedicata alle leadership del cambiamento e introdotta da Klaus Schwab, Renzi nel primo pomeriggio avrà un incontro con Lakshmi Mittal e con il Coo di Facebook Sheryl Sandberg.
Renzi nel pomeriggio prima di lasciare la località svizzera, vedrà anche il presidente e Ceo di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, mentre a margine dei bilaterali Renzi si è intrattenuto per un caloroso e rapido scambio di battute con l'ex premier britannico Gordon Brown che gli ha sottolineato come nei confronti del premier italiano ci siano grandi attese.
Prevista poi la partecipazione al Business Interaction Group in Italy con imprenditori stranieri ed italiani (tra questi ultimi, Marcegaglia, Illy, Alessandri, Colao, Messina, Starace e Merloni) all'International Media Council che vedrà riuniti editori da tutto il mondo. E, prima di lasciare Davos, Renzi incontrerà, con il presidente del Coni Malagò, il presidente del Cio Thomas Bach in un vertice in cui si parlerà della candidatura italiana alle Olimpiadi del 2024.

mercoledì 21 gennaio 2015

Lo Stato islamico è il bebè di George W. Bush

La violenza a cui oggi assistiamo è l'effetto boomerang delle nostre guerre"
Il giornalista e scrittore tedesco, Jürgen Todenhöfer, conosciuto come il primo occidentale che è stato in grado di parlare con i militanti dello Stato islamico, ha dichiarato nella sua ultima intervista con Euronews che l'organizzazione terroristica è "il bebè di George W. Bush".
Todenhöfer, che più volte ha dichiarato nei suoi libri che l'Islam viene trattato ingiustamente, ha spiegato a Euronews che l'emergere di gruppi radicali, in particolare lo Stato islamico, è legato alle guerre che l'Occidente sta conducendo in Medio Oriente.
"Nel corso degli ultimi 200 anni nessun paese arabo ha attaccato l'Occidente. Spieghiamo perché abbiamo innalzato guerre in Afghanistan, Iraq e Libia. E se stiamo cerando una ragione per l'esistenza dello Stato islamico, questa organizzazione terribile, dobbiamo guardare alla sua storia", spiega il giornalista tedesco.
Secondo lo scrittore, che ha trascorso dieci giorni nei territori controllati dai jihadisti in Iraq e Siria, il gruppo terroristico è stato fondato un paio di settimane dopo l'invasione guidata dagli Usa in Iraq. "L'organizzazione è il bambino di George W. Bush. E la violenza a cui oggi assistiamo è l'effetto boomerang delle nostre guerre", ha detto.
Todenhöfer rileva inoltre che lo Stato islamico è molto più forte di quello che credono i politici occidentali, che non hanno ancora una strategia di lotta contro questo gruppo terroristico

martedì 20 gennaio 2015

Senza via d’uscita?

Viviamo in un’epoca dominata da un’ossessione inquietante ripetuta come un mantra da tutte le classi dirigenti occidentali: il ritorno al “passato” grazie ad una poderosa crescita. Ogni giorno i nostri leader, quasi con fare disperato, ci promettono un nuovo ciclo economico votato alla ripresa, alla crescita del potere d’acquisto e all’incremento di un maggiore benessere materiale, estendibile a tutti gli elettori, sia delle classi agiate, che della classe media, fino a quella povera. I cittadini italiani hanno sentito spesso questo pensiero declinato in spot elettorali quali un “nuovo miracolo italiano”, un “nuovo rinascimento italiano” e via dicendo.
Questa narrazione si è radicata in modo profondo nell’animo collettivo, grazie anche all’incessante opera dei mass media combinata con le esternazioni di economisti, analisti, intellettuali e opinionisti di ogni risma, i quali non fanno altro che ribadire la speranza di un futuro radioso, in contrapposizione ai segnali di profonda crisi attuale. Tale propaganda, unita al ricordo del passato, ha generato una pericolosissima illusione nei cittadini occidentali, specialmente nelle nuove generazioni che si avviano ad entrare o sono appena entrate nel mercato del lavoro in questi anni.
Perché, al di là delle frasi fatte e del pessimismo misto rassegnazione che vediamo esibiti in ogni momento dalle nuove generazioni e dalla maggior parte dei cittadini, vi è al contrario, sottotraccia, una segreta speranza e fiducia sulla fine della Crisi. Il desiderio in questione, nello specifico, non è rivolto alla creazione di un nuovo e migliore mondo, ma al contrario è votato ad un ritorno al passato (le mitiche età dell’oro), che può essere il boom economico degli anni 60 o il mini-boom degli anni 80 o addirittura la condizione degli anni 90, prima dell’ingresso nella moneta unica. Ci si illude che la tempesta di questi anni sia stata solo un malessere passeggero, quindi non una crisi sistemica, in attesa di nuovi “anni ruggenti” dove poter tornare a consumare spensieratamente, in modo da aver tutti una bella villetta con piscina, con monovolume annessa e viaggetto semestrale alle Bahamas. Ad alimentare questa distorsione sull’andamento dell’economia occidentale, ci pensa anche il dominio del pensiero unico, il quale pone come come Alfa e Omega dell’umanità il turbo-capitalismo tecnologico-industriale, avendo dimostrato che tutte le precedenti alternative sono fallite nel corso del tempo. Proprio la mancanza di un modello diverso, spinge tutti ad aggrapparsi al lato più “presentabile” del capitalismo (le socialdemocrazie europee) e al loro miglior periodo storico, che è stato il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale.
Questa condizione mentale odierna, apparentemente paradossale, è dimostrata proprio dalla “vecchia” progettualità delle nuove generazioni e dal fatto che non riescano ad accettare la fine di un certo tenore di vita. Se i cittadini fossero realmente consapevoli dell’andamento globale e del fatto che il futuro non potrà garantire una pensione dignitosa a fine mese, uno stipendio sicuro o addirittura le condizioni basilari per una vita nella modernità, ma che al contrario si va verso la resa dei conti con un sistema fuori controllo, a quest’ora gli sconvolgimenti all’interno delle pacifiche società europee sarebbero molto più elevati. Così come sarebbero molto più numerosi i tentativi per trovare un’alternativa al morente modello globalizzato.
Ma di fronte al salto nel buio o alla disperata ricerca di un via nuova, la gente preferisce rimanere cullata dal grande sogno di una nuova crescita duratura, in nome di un passato glorioso che però non potrà tornare. Infatti il famoso trentennio keynesiano, che va dalla fine degli anni 40 fino alla fine degli anni 70, è stato un unicum della storia, esattamente come lo furono il Rinascimento, l’Età Vittoriana o l’età d’oro dell’Impero Romano.
Solo prendendo atto della fine di un mondo (e non del mondo) si potranno porre le basi per l’ascesa di un nuovo ordine sociale, eliminando le false illusioni che vengono alimentate dalla fine degli anni 70, periodo in cui iniziò il declino della classe media occidentale e l’ascesa della nuova plutocrazia, favorita dal modello globalizzato…

lunedì 19 gennaio 2015

Il Governo salva-Berlusconi?

Il Pd ri-salva Berlusconi? Il Movimento 5 stelle denuncia: E’ stato presentato un emendamento al ddl anticorruzione in discussione al Senato, depositato in origine da Piero Grasso, che ripropone esattamente alla lettera lo stesso testo del 2003, tutt’oggi in vigore.
Fonte: Oltremedianews
L’articolo 7 del ddl 19, infatti, riscrive l’articolo 2621 c.c. cancellando le soglie di punibilità: chi falsifica il bilancio rischia da uno a cinque anni di reclusione indipendentemente dall’entità della somma nascosta. L’emendamento governativo prevede l’aumento delle pene da due a sei anni, però, allo stesso tempo, riproduce letteralmente la vecchia legge con le soglie di non punibilità. L’articolo 2621 c.c. è riprodotta nell’art.7: “La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1 per cento”.
La norma approvata nel 2003 fissava delle soglie di falsità al di qua delle quali non esisteva punibilità. Ricordiamo i “benefici” pro Berlusconi scaturiti grazie a quella norma, quando nel 2008 venne assolto dal processo Sme perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.
Risultato finale: la delega fiscale approvata dal governo garantisce la possibilità di frodare l’erario per somme molto consistenti, grazie al meccanismo delle soglie percentuali.
Il Patto del Nazareno oggi sembra essere l’unica certezza in Italia.

domenica 18 gennaio 2015

Senza lavoro quasi sette milioni di persone

Più i governi fanno quel che prescrive la Troika e chiedono le imprese, più cresce la quota di popolazione senza lavoro. A noi sembra proprio che ci sia una relazione diretta tra le due cose, aggravata dalla specifica disposizione degli imprenditori italici a rifuggire dagli investimenti, preferendo la speculazione finanziaria, la delocalizzazione o la fuga con tutti i capitali verso altri lidi.
In Italia - rileva Eurostat, l'istituto di statistica dell'Unione Europea, che lavora sui dati Istat - ci sono oltre 3,6 milioni di persone che sarebbero disponibili a lavorare ma non cercano impiego. Rappresentano ormai il 14,2% della forza lavoro, oltre tre volte la media Ue-28 (4,1%), e vanno ad aggiugersi a quelle ufficialmente classificate tra i disoccupati perché registrate come in cerca di occupazione. Una distinzione sottile, quasi soltanto burocratica, che attraversa una popolazione di 6,6 milioni di persone.
Nel terzo trimestre 2014, calcolando in percentuale, la quota è salitanell'Unione Europea di 0,2 punti, mentre in Italia addiritura dell'1,1%.
Se si sommano dunque ai tre milioni di disoccupati ufficiali (secondo i dati del terzi trimestre, da luglio a settembre; perché a novemebre ne sono stati già calcolati oltre 3,4 milioni) si raggiunge una cifra del 7,8% superiore a quella registratatì nello stesso periodo del 2013. Non c'è male come risultato per le "politiche a favore dell'occupazione"!
Naturalmente, come tutti gli istituti che fanno seriamente il proprio lavoro, Eurostat avverte che la situazione rischia di aggravarsi nell'ultimo trimestre. In Italia non solo la disoccupazione è più alta in media rispetto all'Europa (a novembre al 13,4% contro l'11,5% dell'Eurozona e il 10% dell'Ue a 28) con un aumento di quasi un punto rispetto all'anno precedente ma è enorme il divario sulle ''forze lavoro potenziali'' (ovvero i 3,6 milioni di persone che non cercano impiego ma sono pronte a lavorare. Si tratta di persone considerate "inattive" (non hanno fatto ricerche di lavoro nelle quattro settimane precedenti la rilevazione) anche a causa della sfiducia nella possibilità di poter trovare occupazione.
In Germania la percentuale complessiva di questo tipo di disoccupati è ferma all'1,2%, e sembra logico vista la differente situazione dell'economia tedesca. Ma persino nella derelitta Grecia, con la disoccupazione oltre il 25%, quest'area è rimasta stabile all'1,9%.
Non stupisce neanche la spaccatura consueta tra Nord e Sud. Nel Nord la percentuale di scoraggiati è del 6,5% (vicina alla media europea), mentre il Sud sprofonda con il 30,7% (su 100 forze lavoro tra i 15 e i 74 anni), e quasi il 48% tra le donne.
Se non ci togliamo questa classe di servi della Troika dalle spalle finiremo nel peggior baratro che si sia mai visto.

sabato 17 gennaio 2015

L’Europa è ben altro che “UE” e “occidente”

L’Europa ha fotocopiato il modello produttivo e sociale di coloro che distrussero dai cieli sessantasei delle sue maggiori città. L’Europa è spenta, non è più centro di elaborazione e irradiazione di criteri normativi adottati nel resto del mondo. Da essa non si irradiano più culture e linee di forza capaci di sedimentare e stabilizzare aree geografiche e sociali. E’ imitazione, copia sfocata, incapacità di improntarsi alla sua specificità storica. Abiura e rinnega, in nome e per conto d’un
universalismo trapiantato e importato, che è solo sudditanza ai neofiti dell’usura riattualizzata.
I tristi saltimbanchi, privi di bussola e mappe genuine della psicogeografia dell’Europa reale, persistono nell’apologetica. accecati su un vagone rimorchiato. Piombato dai nuovi barbari che -mentre saccheggiano senza ritegno- hanno plasmato la mentalità adatta a riprodurre la servitù volontaria. Incassano i benefici di una estesa interiorizzazione del senso di colpa, spinta fino alla negazione di sè stessi e all’imitazione di chiunque altro (“dobbiamo fare come in Germania” o “in america” ecc). E’ venuta a galla una identità surrogata da limes lontano dell’impero.
Impazzano i funzionari neocoloniali, quelli dall’inamovibile “erre-moscia” sempre attualizzata ai centri esterni della dominazione di turno; gli entusiasti d’una Italia ridivenuta “espressione geografica” che spazza via ogni retaggio della storia e del suo divenire nel territorio. Ladri di storia e di geografia al servizio della geopolitica anglosax, arroganti quando occultano il decisivo e storico apporto antinazista della Russia. Infine, è il breve carnevale dei psicolabili che esibiscono la maschera dell’Europa evaporata nella nube di un “occidente” ad estensione variabile.
Dal “modernismo” esibito con pose caricaturali, scaturiscono controfigure plasmate alla temperie morale proprie di una neo colonia. Subordinata, inchiodata ad assorbire “cultura” seriale, stilemi grotteschi, slogan e i diktat apologetici dell’autonomia del denaro. L’introiezione dei caratteri dell’epoca della carestia (per ceti bassi e plebe) si fonda sulla supremazia assoluta dell’individualismo, assunto come unico e ineluttabile fattore positivo e lecito. Chi osa resistere ai settari che si compiacciono del ruolo di liberali immaginari, viene scaraventato nella bolgia dei reazionari o populisti. Si auto-rappresentano sempre come progresso ed efficienza in lotta epica contro l’arretratezza; oppure come riformatori e partito del “cambio” contrapposti ai conservatori e biechi difensori del passato.
L’individualismo vorrebbe dissolvere ogni altra identità e valore: classe, famiglia, nazione, popolo, comunità, solidarietà, spiritualità e dignità. Predicano la bontà di una identità sessuale indifferenziata ed equivalente, però con predilezione per l’infecondità e la sterilità. L’atomizzazione sociale deve accelerare la decomposizione e la solitudine più estrema, e troncare radici, rami, foglie e i frutti, per l’avvento definitivo dei grossisti del denaro. Incombe l’incubo del millenarismo mediatico dei nuovi padroni della natura e degli umani. E’ l’agguato proditorio di una sopravvivenza -spacciata come destino manifesto!- che si nutre di paura e angoscia permanente. Si varano e proteggono regimi para-terroristi, utilizzatori intensivi di droni, committenti di guerre privatizzate appaltate a “mercenari con patologie politiche indotte o criminalità pseudoreligiosa di avariata origine”.
E’ in corso uno scontro epocale tra le forze stanziali, legate ai vincoli umani, territoriali e affettivi della produzione concreta e l’elite con la sua struttura di potere reale. Fondata sul nomadismo della finanza che impone regole draconiane per sacralizzare la magia del denaro generato direttamente dal denaro. La necessità, o meno, di passare attraverso il lavoro e la produzione prima che il denaro possa accrescersi, è l’oggetto dell’attuale contesa su scala mondiale. Nessuno “scontro di civiltà”, piuttosto un urto “biblico” tra il nuovo auge delle religioni dell’usura e le maggioranze operose, che sono complementari solo con il policentrismo. Sono entrati in collisione la comunità e il dominio reale del capitale, la cooperazione come alternativa alla concorrenza, l’iper-individualismo dell’elite totalitaria e la superstite socialità umana.
E’ belligeranza asimmetrica tra i fabbricanti di valori coniati dai templi liberisti e quanti si battono per mantenerli fuori e separati dal potere politico. Mercato ed economia sono un frammento del sociale, importante ma non preponderante. Sono la parte, non il tutto. Pertanto la visione dell’economia come cosa integralmente autonoma, svincolata e superiore ad ogni altro valore e struttura sociale, si rivela un fondamentalismo da contrastare con crescente fermezza. Questi strambi liberali, in realtà, sono nemici giurati di ogni sovranità geopolitica, culturale ed economica, come pure di ogni identità che non deriva o non si subordina al primato dell’economia.
Da un lato c’è l’oligarchia con il suo espansionismo egemonico e dall’altro l’arco di forze che si richiamano alle tradizioni con giustizia, ed hanno bisogno dello Stato come pilota collettivo che stabilisce le mete di fondo del bene comune. Lo scontro reale in atto è quello che oppone elite e società, oligarchia e popoli. Per l’equità è indispensabile la separazione assoluta tra potere politico e potere economico, tra l’egoismo onnivoro dei manipoli oscuri e la minacciata socialità delle maggioranze.

venerdì 16 gennaio 2015

Miseria intellettuale dell’Occidente

I fatti di Parigi li conosciamo tutti: due uomini armati, al grido di “Allah è grande”, hanno attaccato la redazione del periodico francese di satira politica e religiosa Charlie Hebdo, provocando la morte di dodici persone tra cui il direttore del giornale e due agenti di polizia. Difronte a questa violenza inaudita, ignoranza e malafede hanno preso il posto di una riflessione profonda e di un’analisi lucida rispetto ai fatti di cui stiamo parlando. L’Occidente ha preferito seguire la strada dell’allarmismo e dell’irrazionalità dispiegata, dando luogo a folli interpretazioni e a prese di posizioni divergenti ma ugualmente grottesche. Il coro di voci che ha commentato i fatti di Parigi ha reso manifesta l’assenza di un’élite intellettuale europea in grado di formulare un pensiero adeguato.
Gli sciacalli sono usciti dalle loro tane. Qualcuno ha parlato di una matrice religiosa dell’attentato, affermando che non si tratta di un gruppo di fondamentalisti ma che il nemico da combattere si chiama Islam. Non esiste un Islam moderato contrapposto ad un fondamentalismo islamico; il Corano parla chiaro: l’infedele deve essere estirpato dal mondo. Dall’altro lato della trincea, si è giunti alla conclusione che il nemico pubblico si chiami semplicemente religione, cristiana o musulmana che sia. La religione, infatti, degenererebbe sempre nel fondamentalismo e nel pregiudizio. Una società senza religione è una società aperta e pacifica, libera dagli assurdi dogmi medievali. Un altro filone di grandi pensatori ha tirato in ballo la questione dell’immigrazione, affermando che essa rappresenta il ponte attraverso il quale questi terroristi giungono in Europa, partiti da terre lontane. Dimentichi, per ignoranza o per malafede, che la stragrande maggioranza di questi miliziani è nata e cresciuta in Europa, figli in un certo qual senso del nostro stesso Occidente.
Nessuno, per esempio, ha ipotizzato che mezzo secolo di politica estera aggressiva da parte dell’Occidente democratico nei confronti del mondo arabo potrebbe aver svegliato il mostro che riposava nelle sabbie dell’Est. A nessuno è venuto in mente che forse questi colpi sferrati in nome di Allah non abbiamo nulla a che vedere con l’argomento religioso, mentre rappresentano la reazione ad un imperialismo economico e culturale cui determinate culture non hanno intenzione di sottomettersi. E ancora, nessuno si era mai strappato i capelli per quel fondamentalismo islamico che inzuppa di sangue il continente africano da decenni e che fa notizia nei nostri telegiornali tra il servizio dedicato alla cucina e quello dedicato al gossip del mondo dello spettacolo. Fin quando non viene attaccata la Francia, regna il silenzio del clero mediatico. Nessuna marcia, nessun corteo di nessun capo di Stato per le 2000 vittime dell’attacco di Boko Haram, che ha raso al suolo la città di Damaturu. Pochi, inoltre, si sono chiesti chi ci sia veramente dietro la strage di Parigi. Isis ha applaudito, ma non ha rivendicato l’attentato. Il nemico non ha una patria, e non ci sono campi di battaglia. Ma, ancora una volta, l’Occidente è piombato in uno stato confusionale. Continuiamo a non capire. Non si tratta di una guerra di religione, né di uno scontro di civiltà, nei termini in cui lo si è finora inteso. Si tratta di una guerra senza frontiere tra un fondamentalismo retrogrado e violento ed un Occidente spersonalizzato e privo di identità, unito da nient’altro che una logica di mercato, che porta avanti politiche di imperialismo culturale.
La questione più interessante è quella che riguarda uno slogan che sta facendo il giro del mondo: JeSuisCharlie. E’ lo slogan di chi crede di difendere la libertà di espressione, intesa come la libertà di dire tutto ciò che si vuole, la libertè della rivoluzione francese, la libertà senza limiti. Senza limiti e senza rispetto neanche per la religione, considerata un lascito medievale, priva di senso nell’era della modernità. L’idea che la religione rappresenti un qualcosa di superato e superabile, appartenente solo a chi non è ancora passato dalla parte della ragione, genera l’idea secondo cui risparmiarla da una satira violenta non rappresenti più un peccato contro ciò che è sacro, un crimine di lesa maestà divina. Il sacro, ciò che per un credente era, è e sarà, viene degradato al livello del profano. Come se la religione fosse l’ultima moda intoccabile da buttare giù, una volta per tutte, per aprire la strada ad una libertà di espressione senza confini. Dio rappresenta, idealmente, l’ultimo vero grande ostacolo alla logica del “posso dire tutto quello che voglio”, al progetto dell’uomo moderno di farsi Dio di se stesso. E’ una situazione già vista: la libertà di espressione si, purché rientri nelle linee e nei dogmi del fondamentalismo laico, nei canoni di un relativismo per cui tutto è vero, nulla è verità. In nome di questa libertà, siete tutti Charlie.
E sia: Io non sono Charlie. Io sono la città di Damaturu, io sono il bambino palestinese morto sotto le macerie della guerra, io sono il musulmano che rispetta le leggi, io sono il Gesù Bambino nel presepe di San Pietro portato via dalle Femen, io sono Corano bruciato dalle stesse Femen in nome della libertà, io sono il figlio senza voce dell’Africa distrutta dalle guerre finanziate dall’Occidente, io sono l’ateo che rispetta il credente, io sono il cittadino che non si arrende al pensiero uniforme e uniformante, io sono poliziotto ucciso a sangue freddo a Parigi, io sono il musulmano che ha salvato la vita agli ostaggi, io sono le vittime del silenzio in Ucraina. Io non sono come voi, io non sono Charlie.

giovedì 15 gennaio 2015

Quell'assenza di Obama alla marcia di Parigi

L'hanno notata in molti, l'hanno sottolineata pubblicamente in pochi. Ma l'assenza del presidente Obama, o di qualche alto esponente dell'amministrazione statunitense, nello “spezzone” dei capi di stato alla marcia di Parigi dopo le stragi, è un segnale pesante, per certi versi storico.
Gli Usa, domenica a Parigi erano rappresentati dal ministro della giustizia Eric Holder, ma solo perchè nella stessa giornata aveva partecipato a una riunione sulla sicurezza con i ministri dell’interno di 11 paesi europei tra cui l’Italia. Mentre a Parigi solo oggi arriverà il segretario di stato Kerry per discutere il vertice sulla “sicurezza globale” previsto per il prossimo 18 febbraio a Washington. Una settimana dopo i fatti.
Difficile poi non collegare l'assenza delle autorità statunitensi nella “condivisione del dolore e dell'emergenza del partner francese” con l'editoriale scritto a caldo del Financial Times, firmato dal suo ex direttore, il quale con un cinismo molto molto anglosassone scriveva, mentre il sangue scorreva a Parigi, che il settimanale Charlie Hebdo aveva peccato di "stupidità editoriale" attaccando l'Islam. "Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione", si legge su uno dei giornali simbolo del capitalismo anglosassone. "Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, è solo per dire che sarebbe utile un po' di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocano i musulmani".
Due segnali dal sapore inequivocabile: “adesso sono affari vostri, cavatevela da soli se ne siete capaci”. Una rivalsa neanche troppo nascosta dell'intero establishment Usa verso le ambizioni “indipendenti” dell'Unione Europea, e della grandeur francese innanzitutto. Ed anche verso l'atteggiamento oscillante della Francia e della Ue in una “guerra globale al terrorismo” che gli Stati Uniti perseguono sistematicamente come strumento per mantenere intatto il proprio ruolo di primus inter pares nello schieramento occidentale.
Un indicatore palese a conferma della competizione tra alleati – che si affianca alla tradizionale concertazione atlantica – che sta raggiungendo nuove soglie di tensione, niente affatto attutite dalle finora comuni convergenze contro la Russia in Europa e contro l'Isis in Medio Oriente. Sullo sfondo, una crisi economica che sta riproducendo tentativi di soluzione “duali” e divaricanti tra Stati Uniti ed Unione Europea che possono ripercuotersi anche sulle trattative per il Ttip, da molti ritenute salvifiche e costituenti.
Gli Usa continuano a cercare con ogni mezzo di condizionare i processi politici dell'Unione Europea. Spezzandone ad esempio le relazioni economiche e politiche con la Russia (rilevanti per entrambi), perseguendo la destabilizzazione “creativa” nel cortile di casa mediterraneo europeo, alimentando una tensione sempre più alta e foriera di conflitti destabilizzanti in un arco di crisi che va dall'Ucraina all'Algeria, a ridosso o ben dentro gli interessi strategici europei.
L'avvio dello “sganciamento” della Francia dalla campagna bellicista e di sostegno ai gruppi jihadisti sul teatro di crisi siriano (che ha visto la decapitazione dei vertici dell'intelligence francese nei mesi scorsi), l'aumento dell'interventismo militare francese in Africa e il tentativo di capitalizzare ai propri interessi le primavere arabe... sono tutte scelte che marcano ed evidenziano la divaricazioni di interessi tra Stati Uniti ed Unione Europea.
Quest'ultima, con le stragi di Parigi, sembra aver trovato il suo evento costituente per perseguire come potenza globale i propri interessi strategici, e non potrà che farlo anche in competizione con gli Stati Uniti, là dove la concertazione non appare più adeguata.
L'assenza di Obama o di Biden o di Kerry alla marcia di Parigi sono state un'assenza troppo vistosa per essere ignorate. Ma sono anche il segno dei tempi. Tempi di guerra.

mercoledì 14 gennaio 2015

Frane e inondazioni, tutti i numeri del disastro-Italia

Frane e inondazioni hanno colpito tutta Italia nel 2014, con un bilancio di 33 morti, 46 i feriti e oltre 10.000 persone costrette ad abbandonare temporaneamente le loro case. E' il bilancio presentato nei giorni scorsi nel 'Rapporto sul rischio per la popolazione italiana da frane e inondazioni' e pubblicato sul sito Polaris dell'Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Irpi-Cnr).
Nell'anno appena trascorso frane e inondazioni hanno colpito in 19 regioni su 20, causando danni in 220 comuni, primi fra tutti quelli di Genova e Refrontolo. Nel primo si sono avuti danni, vittime e sfollati in oltre 20 località, mentre Refrontolo (Treviso) ha il triste primato del maggior numero di vittime nel 2014 in seguito alla piena del torrente Lierza, che a Molinetto della Croda ha provocato 4 morti e 20 feriti.
Ovunque i mesi peggiori sono stati ottobre e novembre. In generale, ''le regioni più colpite sono state quelle del Nord-Ovest e in parte del centro'', spiega Paola Salvati dell'Irpi-Cnr. La Liguria, risulta la più colpita perché le forti piogge di ottobre e novembre hanno provocato 5 vittime e danni in 34 comuni e 71 località. Seguono Piemonte, con 48 località colpite e 2 persone decedute, Lombardia (42 località e 6 vittime), Emilia-Romagna (28 localit… e un morto), Toscana (35 località e 5 morti). Per il direttore dell'Irpi-Cnr, Fausto Guzzetti, ''i dati raccolti nel 2014 confermano purtroppo quanto siano diffuse le condizioni di rischio per la popolazione e contribuiscono a comprendere come esse aumentino o diminuiscano in funzione dei cambiamenti climatici ma anche di quelli ambientali e sociali".
I dati del 2014 rientrano infatti nella media delle 40 morti l'anno causate in Italia da inondazioni e frane nel periodo compreso fra il 1964 e il 2013. Nell'arco di mezzo secolo, infatti, 1.989 le persone morte a causa di frane (1.291) e inondazioni (698), 72 dispersi e 2.561 feriti. Nello stesso periodo sono stati colpiti 2.031 comuni (pari al 25% dei Comuni italiani). Considerando gli anni fra il 2009 e il 2013, la media è stata di 33 morti l'anno (162 complessivamente), con 7 dispersi, 331 feriti e oltre 45.000 sfollati. Al di sopra di questa media sono stati il 2009 (anno delle frane nel Messinese, con 50 persone decedute, 6 dispersi e 171 feriti) e il 2011 (quando le inondazioni nello Spezzino, in Lunigiana e a Genova hanno provocato 49 morti, 30 feriti e almeno 900 sfollati, seguito pochi giorni dopo). Si scende sotto la media nel 2010 (27 morti e 55 feriti) e nel 2012 (15 morti e 23 feriti) e nel 2013 (27 morti, 1 disperso e 52 feriti)

martedì 13 gennaio 2015

L'Italia, non la Grecia, potrebbe causare la fine dell'euro

La ricetta attuale non funziona e continuare ad ignorare l'evidenza è imprudente e potenzialmente molto pericoloso
Tutti gli occhi sono sulla Grecia, ma l'Italia è il Paese che determinerà il futuro della moneta unica europea, scrive Foreign Policy. Il malcontento popolare è direttamente correlato ai problemi economici prolungati. La ricetta attuale non funziona e continuare ad ignorare l'evidenza è imprudente e potenzialmente molto pericoloso.
L'ostilità verso l'euro, prosegue FP, è in aumento nei paesi che sono stati duramente colpiti dalla crisi economica e finanziaria del continente. In Italia, solo il 54 per cento delle persone intervistate nell’ultimo sondaggio Eurobarometro sostengono la moneta unica europea.

Questo sentimento si traduce in politica. In Italia, la Lega Nord e il Movimento cinque stelle, entrambi apertamente anti-euro, insieme detengono circa il 30 per cento dei voti. In Grecia, Syriza, il partito che stando agli ultimi sondaggi dovrebbe vincere le elezioni generali del 25 gennaio, è pronto a vivere con l'euro, ma è favorevole ad un cambiamento radicale nelle politiche economiche che sono alla base dell'unione monetaria europea. Allo stesso modo in Spagna, Podemos, il partito anti-establishment di nuova costituzione, sta conducendo una campagna per la revisione dell'euro. (Il rovescio della medaglia, ci sono paesi che sono ancora felici di adottare la moneta comune, come la Lituania, che è diventata il 19° membro dell’eurozona)
Le prolungate difficoltà economiche, la mancanza di una leadership e una risposta politica inflessibile alla crisi spiegano la disaffezione diffusa in quei paesi per l'integrazione economica e monetaria europea. Più di sei anni dopo la crisi finanziaria globale, la zona euro non ha conosciuto ripresa.
Da anni, la mancanza di opportunità e un futuro incerto affliggono le sorti di milioni di persone nella zona euro. La bassa crescita - e una prolungata crisi in alcuni paesi - hanno portato a un minor numero di posti di lavoro creati. Nella zona euro, il tasso di disoccupazione si attesta a circa il 10 per cento, con punte di quasi il 13 e il 26 per cento in Italia e in Grecia. Per i partecipanti al sondaggio Eurobarometro, la disoccupazione è di gran lunga la preoccupazione più pressante (45 per cento), seguita dalla situazione economica (23 per cento). Ancora più preoccupante è il senso che non vi è “alcuna luce in fondo al tunnel”: il 45 per cento delle persone nel sondaggio Eurobarometro non si aspettatevi alcuna significativa ripresa economica. Il malessere economico è ormai così profondamente radicato in alcune zone d'Europa che riaccendere la domanda interna è diventata quasi un'impresa titanica.

lunedì 12 gennaio 2015

ci stanno togliendo il diritto di scegliere i nostri rappresentanti

Il Parlamento incostituzionale si appresta ad approvare, incalzato dal "ritmo" renziano, una legge elettorale anch’essa incostituzionale. «Gli effetti della nuova legge elettorale, minando alla base i principi costituzionali e sottraendo ai cittadini il diritto alla autodeterminazione, rischiano di andare ben al di là di una, già grave, esplicita concentrazione del potere»
In queste ore, il Senato esamina nuovamente la proposta di nuova legge elettorale che il Presidente del Consiglio e Segretario del PD vuole approvata con la massima velocità, o, come dice Lui, col massimo ‘ritmo’. Volontà che corre il rischio di trovare attuazione, vista la attuale composizione del Parlamento, costituito grazie a una legge dichiarata incostituzionale perché non consente ai cittadini di esercitare la sovranità riconosciuta loro dall’articolo 1 della Costituzione.
La nuova legge manterrebbe sostanzialmente gli stessi caratteri di incostituzionalità della precedente, consentendo la deformazione della volontà espressa dagli elettori fino a rischiare di capovolgerla e potrebbe assegnare la maggioranza della (unica) Camera a un partito che abbia ricevuto una percentuale minima di voti al primo turno, purché sia arrivato secondo e il primo non abbia ottenuto almeno il 45% dei voti, consentendogli di partecipare al ‘ballottaggio’, valido qualunque sia il numero degli elettori partecipanti. Inoltre prevede che molti degli eletti siano sottratti alla valutazione degli elettori grazie alla priorità assegnata ai capilista, scelti dalle segreterie dei partiti, e la possibilità che un’alta percentuale di votanti non sia rappresentata nell’assemblea a causa del meccanismo delle ‘soglie’ e del ‘premio’ che, assegnando al vincitore molti più seggi, li sottrae alle altre forze politiche.
La sostanza della sentenza n.1/2014 della Consulta viene così elusa, in una visione che privilegia una discutibile ‘stabilità’ (tutta la dimostrare, viste le divisioni interne anche agli stessi partiti) al criterio essenziale e irrinunciabile della rappresentanza democratica, sconfinando in una prospettiva presidenziale e autoritaria che contraddice i fondamenti della nostra Costituzione.
Se appare comprensibile, anche se non accettabile, la scarsa attenzione di gran parte della opinione pubblica sottoposta al bombardamento mediatico-propagandistico di quasi tutti i mezzi di informazione, impegnati in una gara accanita a chi dedica più tempo agli annunci, ai proclami, perfino ai tweet e alle vacanze di Renzi, meno giustificabili appaiono le esitazioni di esponenti politici che continuano i loro esercizi di contorsionismo fra la critica verbale e il rifiuto di una indispensabile unità di tutti coloro che nella difesa delle Istituzioni democratiche potrebbero trovare un denominatore comune.
La percentuale ormai altissima degli astenuti ha dimostrato che il degrado morale e l’arroganza dei attuali professionisti della politica rischia di cancellare la credibilità degli stessi meccanismi democratici; dovendo scegliere fra le attuali proposte del quadro politico, sempre di più sono gli elettori che si rifiutano di dare il proprio avallo a quella che è ormai una oligarchia impegnata a ridisegnare ‘regole del giuoco’ per la propria auto-conservazione.
E’ invece indispensabile recuperare una piena coscienza delle conseguenze di questa deriva autoritaria, anche per opporsi efficacemente alla involuzione di una Europa colpevolmente asservita a un modello di sviluppo suicida e alle logiche liberiste della finanza internazionale, per rilanciare, come accaduto nell’ultimo dopoguerra, un grande movimento di civiltà, che rimetta al centro della cultura politica pace, solidarietà, eguaglianza, giustizia come fondamenta di una nuova convivenza e di un impegno comune per la salvezza del pianeta.
Gli effetti della nuova legge elettorale, minando alla base i principi costituzionali e sottraendo ai cittadini il diritto alla autodeterminazione, rischiano di andare ben al di là di una, già grave, esplicita concentrazione del potere, soffocando nel nostro Paese quella ricerca di alternative culturali e civili che si sta diffondendo e acquistando dimensioni significative in molte altre Nazioni. Sarebbe come uscire dalla Storia

domenica 11 gennaio 2015

I Kouachi sorvegliati fino al luglio del 2014. Poi lasciati liberi di uccidere

L’intelligence francese aveva smesso di sorvegliare i fratelli Kouachi lo scorso luglio perché i due autori della strage di Charlie Hebdo erano considerati soggetti a “basso rischio”. Lo riporta Le Parisien riferendo che Cherif e Said Kouachi erano stati sottoposti a vigilanza tra la primavera del 2009 e il luglio 2014.
L’attività di sorveglianza, comprendente anche le comunicazioni telefoniche e internet, era stata intensificata alla fine del 2011 quando Said Kouachi fece ritorno dal suo viaggio in Yemen, dove incontrò Anwar Al-Awlaki, leader di Al Qaeda nella Penisola Arabica.
Ma secondo quanto riferito al quotidiano francese da una fonte giudiziaria, “tra quella data e l’estate del 2014 nulla suggeriva un qualsiasi collegamento con movimenti del radicalismo islamico, né attraverso il telefono, né su internet”. Per questo, “in mancanza di questi elementi, la sorveglianza fu interrotta per concentrarsi su altri individui che in quel momento rappresentavano un rischio maggiore”.
Il minore dei due fratelli, Cherif, era stato arrestato e condannato a metà degli anni 2000 per crimini collegati al terrorismo.
Negli Usa i Kouachi erano inseriti da anni nel gruppo di chi non è ammesso a bordo dei voli da e per gli Stati Uniti tenuto dall’agenzia Terrorist Screening Center. Il Terrorist Screening Center non conferma né smentisce, essendo tenuto al segreto sui membri della black list. Nel 2013 il database conteneva oltre un milioni di nomi, secondo il National Counterterrorism Center.
I fratelli Kouachi avrebbero inoltre dichiarato la propria affiliazione ad AQPA durante l’azione. La volontà di colpire il giornale e, soprattutto, il suo direttore Stéphane Charbonnie, sarebbe inoltre stata dichiarata all’interno del numero 10 della rivista Inspire, il principale organo di propaganda di Al-Qaeda e fondata dal uno dei suoi leader, Anwar al-Awlaki, ucciso nel 2011 da un drone americano.
Il nome del direttore di Charlie Hebdo compare nella lista dei Most Wanted dell’organizzazione all’interno di un inquietante manifesto (foto) che recita “una pallottola al giorno tiene lontano l’infedele”.

venerdì 9 gennaio 2015

Charlie. Nota in margine a una strage.

L'atto compiuto dagli assassini nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi è infame e va condannato senza esitazione, senza attenuanti. L'unico dato di fatto è questo: sono state assassinate 12 persone e altre 4 sono rimaste ferite. Il resto è un grande blob d'immagini e parole, dove sarebbe più facile trovare il classico ago nel pagliaio che una briciola di verità. Ci vorrà tempo e lavoro prima che si possano avanzare delle ipotesi. Per poter mettere insieme le informazioni, trovare il bandolo della matassa e una qualche conclusione, seppure provvisoria. Insomma, qualcosa di più della retorica dei politicanti e degli imbonitori della cosiddetta informazione pubblica a cui stiamo assistendo. Intanto?
Intanto, Je suis Charlie Hebdo o, declinando in un improvvido plurale maiestatico, Nous sommes tous... Tutto il mondo "informato" dai social networks e dalla grande madre televisione si è attivato in competizione di solidarietà. Sentimento nobile la solidarietà ma estremamente sfuggente e tremendamente "manipolabile". Non si fraintenda. Non si può mettere in dubbio che la maggior parte delle testimonianze di rifiuto della violenza e di condanna dell'accaduto, succedutesi nel "tempo corto" dell'homo videns già pochi minuti dopo la strage, siano state sincere. Il cittadino di Internet si è mosso veramente a pietà per le vittime. L'ignaro e pigro videoascoltatore, tra una pubblicità e un talk show, ha avuto veramente un sussulto di umanità alla notizia dei morti ammazzati. Ma quanti di loro sapevano prima della strage chi (cosa) fosse veramente Charlie Hebdo? Chi tra questi aveva visto almeno una delle "oltraggiose" vignette (non soltanto per gli islamici) di cui oggi sono pieni i giornali e il web? Quanti sapevano (e sanno adesso) della sua storia e della sua linea editoriale? Io penso siano in pochi... come tanti sono invece quelli che continuano a chiamarlo "ciàrli", come Charlie Brown (che pure ha qualcosa a che fare con il nome del periodico parigino).
Eppure, in poche ore abbiamo assistito a una vera e propria escalation emozionale, fino agli estremi di una acefala immedesimazione. E perché ciò non è accaduto con la stessa partecipazione, ad esempio, dopo la strage nazista di Odessa in Ucraina? O dopo i tanti raid aerei e bombardamenti israeliani sui territori palestinesi? O per la "sparizione" di decine di studenti in Messico, dopo una manifestazione repressa dalla polizia? Per ogni strage sul lavoro rimasta impunita in questo nostro violentato paese? La conta degli assassinati sarebbe ben più alta, la responsabilità degli assassini non meno deprecabile e finanche più certa. E non si tratta di fare classifiche o graduatorie con il sangue delle vittime. Ma di aprire gli occhi. Se anche l'indignazione diventa un'operazione di marketing, direttamente proporzionale al numero di visualizzazioni che una notizia può avere su facebook o al tempo che resta in prima pagina su giornali e televisioni, che ne sarà della verità?
Dunque, l'efferatezza di quanto si è consumato in una manciata di minuti nel cuore dell'Europa, porta come corollario la grande affabulazione del teatro mediatico. E di questo teatro, non meno che in quello elisabettiano, l'uomo digitale o televisivo è partecipe volontario, inconsapevole però che le arringhe degli attori al piano superiore sono funzionali al proseguimento di una storia che qualcuno sta scrivendo da tempo a sua insaputa.
Il terrorista che perde la scarpa e, dopo aver "giustiziato" con calcolata e addestrata freddezza, dimentica la propria carta d'identità nell'auto ha del comico, se non fosse che la realtà di cui stiamo parlando è drammatica, anzi tragica. Possiamo crederci?

giovedì 8 gennaio 2015

L’America dà i numeri

Che l’economia sia la religione dei nostri tempi e i suoi dati il nuovo verbo non è una sorpresa. Accanto ai sacri dogmi intoccabili – come quello della crescita infinita, dell’inflazione salutare e del Mercato che si autoregola – istituti pubblici e privati ogni giorno sono obbligati a snocciolare cifre, statistiche ed elaborazioni che certifichino la giustezza delle previsioni e lo stato di salute delle nazioni. Eppure se nell’Unione Europea, bloccata da anni in una recessione senza fine e – nei casi fortunati – in una crescita asfittica, si continua a ripetere come un mantra che “l’anno prossimo segnerà l’inversione di tendenza” mentre si rivedono le stime al ribasso, negli Stati Uniti il “miracolo” è già avvenuto. Il PIL nel terzo trimestre non soltanto supera le aspettative (+4,3%), ma eguaglia addirittura il record storico del 2003 (+5%). I dati americani – che hanno sospinto sull’onda dell’entusiasmo Wall Street nelle ultime settimane – sono la dimostrazione che, come esemplifica egregiamente il premier italiano, “puntare su investimenti e crescita funziona”.1
Al di là dell’ovvia tautologia insita nella proposizione renziana occorre però tenere ben presente come questi dati vengano calcolati e di come tutta una serie di artifici contabili siano stati introdotti per sospingere il “miracolo americano” a questi livelli. I metodi usati per calcolare il tasso di disoccupazione e quello dell’inflazione sono concepiti proprio per negarne l’esistenza e la stessa crescita del PIL si scontra con l’evidenza della riduzione del reddito disponibile per la classe media e l’impossibilità di ottenere credito per il consumo. In altre parole se l’economia è cresciuta così vistosamente o l’ha fatto per pochi – il famoso 1% – o non è cresciuta affatto e gli indicatori sono stati ritoccati; ma tant’è: questo basta per infiammare la Borsa e proiettare un’immagine vincente. Il Bureau of Labor Statistics informa che il tasso di disoccupazione è sceso a 5,8%, ma non per la creazione di altrettanti posti di lavoro, ma semplicemente perché coloro che, scoraggiati, hanno smesso di cercarlo non vengono più conteggiati; anche la percentuale di popolazione attiva è scesa ma non per il pensionamento della generazione dei baby boomers – come dicono i Media – ma per mancanza di offerta.2 Tant’è che ormai gli over 60 se hanno un lavoro si guardano bene dal lasciarlo, bloccando di fatto il ricambio generazionale.
Scorporando i dati si nota come non vi sia stato alcun incremento del reddito e neppure aumento del credito ai cittadini, né crescita del settore immobiliare o delle vendite al dettaglio, né tantomeno del commercio. Quindi da dove viene fuori questo magico 5% di crescita? Semplicemente dall’aumento della spesa per i servizi, ovvero dall’Obamacare.3 Dato che il sistema sanitario in America è totalmente privato la spese medica non ricade sul bilancio pubblico ma, anzi, viene conteggiata come un’entrata per le Assicurazioni, generando quindi profitto. La riforma della Sanità ha generato un fiorire di visite e analisi – spesso ridondanti, poiché occorre effettuare le più economiche prima di passare a quelle più dispendiose – che hanno prodotto questa massiccia crescita nel terzo trimestre, che di fatto coincide con il pagamento dei servizi erogati. Mentre l’indice dei prezzi alla produzione è più basso di quello del 2008, il prezzo di tutte le materie prime è crollato – petrolio, acciaio, gas, rame, ecc. – e l’attacco finanziario alla Russia è fallito (grazie anche all’aiuto della Cina), a Wall Street si respira un’aria euforica simile a quella del Titanic mentre viaggiava spedito contro il destino. Se a ciò si aggiunge l’esposizione delle banche e dei fondi d’investimento verso il settore del fracking e del petrolio bituminoso – ormai fuori mercato dalla mossa dell’Arabia Saudita – più che da gioire c’è da preoccuparsi a dispetto di questi “magici numeri”.

mercoledì 7 gennaio 2015

Italia s.p.a.

La nostra congiuntura storica può essere interpretata in due modi: l’economico ha fagocitato il politico e lo controlla interamente, erodendo qualsiasi spazio decisionale; il politico ha fatto dell’economico uno strumento di governo semplice ed efficiente contro al quale non fa nulla per convenienza propria. Quale che sia la più aderente ai fatti non è molto importante, la realtà è che economico e politico sono interamente fusi. Con politico si intende tutta la macchina statale, non solo l’esecutivo, quindi l’intero stato è assorbito nei giochi economici. Questo è il problema che già Hegel aveva individuato, ovvero la confusione fra società civile e stato nel liberalismo. Nel mondo liberale la società civile abbassa ai propri interessi egoistici e svuota di significato lo stato, che perde il suo carattere di uguaglianza e superiorità. In questo senso lo stato scompare, o meglio oggi si osserva la tendenza dello stato a diventare come una società privata a tutti gli effetti.
Che il settore pubblico non pecchi per efficienza e trasparenza non è un mistero. La macchina statale italiana è perfezionabile ed è inutile fare l’apologia dello statale medio a priori, non c’è prova per cui ogni impiegato statale sia un lavoratore diligente (né del contrario, del resto). Ma in che senso vanno lette le recenti dichiarazioni del premier e del ministro Madia circa la possibilità di licenziare gli statali “fannulloni”? Un semplice richiamo alla disciplina dei lavoratori di qualsiasi settore non è colpevole di nulla, ma il messaggio che deve passare è un altro: lo stato non è niente più che un’azienda e come tale i suoi dipendenti devono essere efficienti al 100%. Occorre capire, secondo loro, che lo stato non può più considerarsi superiore alla società civile e che non può più estendere tutele, è solo una società che deve amministrare la burocrazia per permettere all’economia di fare il suo corso. Come primo passo, quindi, i lavoratori pubblici vanno messi nelle stesse condizioni di quelli privati, in balia delle fluttuazioni del mercato. C’è questo, infatti, da aggiungere: se il mercato pretende uno stato più “leggero”, i dipendenti vanno licenziati perché inefficienti e non vanno sostituiti. Questo è solo uno dei passi verso la realizzazione dello stato neoliberale: minimo, leggero, flessibile, svuotato di significato, senza potere decisionale.
È proprio la mancanza di autorità e potere che dovrebbe preoccupare nello stato-azienda che ci viene proposto. L’accidia di qualsiasi politico di fronte ai problemi oggi è già insopportabile, se questo diventerà la prassi generale non si potrà che annegare nella palude. Per questo occorre lottare per ridare dignità e autorità allo stato attraverso la smentita pratica della pigrizia dei dipendenti pubblici da un lato, dall’altro la difesa della sua autonomia rispetto a qualsiasi vincolo economico o politico che ne promuova la distruzione e la perdita di significato.

martedì 6 gennaio 2015

Il cavillo infilato del decreto di Natale

Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.

lunedì 5 gennaio 2015

Perseguire i torturatori e i loro capi

Fino dal giorno che il Presidente Obama si è insediato in carica, non è riuscito ad assicurare alla giustizia nessuno dei responsabili della tortura delle persone sospette di terrorismo – un programma ufficiale ideato e messo in atto negli anni successivi agli attacchi dell’11 settembre 2001.
Ha permesso al suo Dipartimento di Giustizia di indagare sulla eliminazione delle videocassette della CIA dove erano registrate le “sedute” di tortura, e su coloro che possono essere andati oltre le tecniche di tortura autorizzate dal presidente George W. Bush. L’indagine non ha però portato a nessuna accusa registrata o neanche a nessuna spiegazione del motivo per cui non sono state registrate.
Obama ha detto molteplici volte che “si deve guardare avanti invece a guardare indietro,” come se le due cose fossero incompatibili. Non lo sono. La nazione non può andare avanti in qualsiasi modo significativo senza farsi una ragione, dal punto di vista legale e e morale, delle azioni abominevoli che sono state autorizzate, a cui è stata data una falsa patina di legalità, e che sono state commesse da uomini e donne americani dai più alti livelli governativi fino a quelli inferiori.
Gli americani erano al corrente da anni di molte di queste azioni, ma il rapporto sintetico di 524 pagine del rapporto completo scritto dal Comitato per l’Intelligence del Senato, cancella ogni dubbio rimanente circa la loro perversione e illegalità. Oltre a nuove rivelazioni di tattiche sadiche come la “alimentazione per via rettale,” dozzine di detenuti venivano sottoposti alla tortura del “waterboarding”, venivano appesi per i polsi, prigionieri in bare, privati del sonno, minacciati di morte o picchiati brutalmente. Nel novembre del 2002, un detenuto che era stato incatenato a un pavimento di cemento, è morto per “sospetta ipotermia.”
Questi sono, semplicemente, crimini. Sono proibiti dalla legge federale che definisce la tortura come comminazione voluta di “grave dolore o sofferenza fisica o mentale.” Questi crimini sono vietati anche dalla Convenzione contro la tortura, cioè dal trattato internazionale che gli Stati Uniti hanno ratificato nel1994 e che richiede il procedimento penale per qualsiasi atto di tortura.
Non c’è quindi da meravigliarsi che gli attuali difensori ottusi muoiano dalla voglia di chiamare questi atti niente altro che tortura, come di fatto erano. Come rivela il rapporto, queste affermazioni non hanno successo per una semplice ragione: i funzionari della CIA all’epoca hanno ammesso che quello che intendevano fare era illegale.
Nel luglio2002, i legali della CIA hanno comunicato al dipartimento di Giustizia che l’agenzia aveva bisogno di usare “metodi più aggressivi” durante gli interrogatori che “sarebbero stati altrimenti proibiti dallo statuto per la tortura.” Hanno chiesto al dipartimento di promettere di non perseguire coloro che usavano questi metodi. Quando il dipartimento si è rifiutato di farlo, sono andati in cerca della risposta che volevano. La hanno ottenuta dagli avvocati dell’Ufficio del Consiglio Legale, motivati ideologicamente, che hanno scritto dei promemoria, costruendo un fondamento legale per quei metodi. I funzionari governativi ora fanno affidamento sui promemoria come prova che hanno cercato e ricevuto autorizzazione legale per le loro azioni. Ma il rapporto cambia i giochi: sappiamo ora che questo assegnamento non era stato fatto in buona fede.
Nessuna quantità di logica legale complicata può giustificare il comportamento descritto in dettaglio nel rapporto. In effetti, è impossibile leggerlo e concludere che nessuno può essere ritenuto colpevole. Come minimo è necessario che Obama autorizzi un’indagine penale completa e indipendente.
L’Unione Americana per le libertà civili e l’Osservatorio per i diritti umani lunedì devono consegnare una lettera al Procuratore Generale Eric Holder Jr chiedendo la nomina di uno speciale procuratore per indagare su ciò che appare sempre di più “una vasta cospirazione criminale, sotto sembianza legale, per commettere torture e altri gravi reati.”
La domanda a cui ciascuno vorrà avere risposta, naturalmente è: Chi dovrebbe essere ritenuto responsabile? Questo dipenderà da che cosa scoprirà un’indagine, e per quanto sia difficile immaginare che il Signor Obama abbia il coraggio politico di ordinare una nuova indagine, è ancora più difficile immaginare un’indagine penale sulle azioni dell’ex presidente.
Però qualunque indagine credibile dovrebbe comprendere l’ex Vice Presidente Dick Cheney, il capo del suo staff, David Addington, l’ex direttore della C.I.A., George Tenet; John Yoo and Jay Bybee, gli avvocati dell’Ufficio del Consulente Legale che hanno redatto quelli che sono diventati noti con il nome di promemoria della tortura. Ci sono molti altri nomi che potrebbero essere considerati, compreso Rodriguez Jr., il funzionario della CIA che ha ordinato l’eliminazione delle videocassette; gli psicologi che hanno elaborato il programma di torture e i dipendenti della CIA che lo hanno messo in atto.
Ci si aspetterebbe che i Repubblicani che sono diventati rauchi a forza di ragliare che l’esecutivo di Obama era stato il primo a richiedere la responsabilità, ma con un’ eccezione rilevante, il Senatore John McCain, ora o si sono azzittiti o hanno attivamente difeso l’indifendibile. Non possono neanche far notare dei risultati. Contrariamente alle ripetute dichiarazioni della CIA, il rapporto ha concluso che “in nessun momento” nessuna di queste tecniche ha fornito informazioni che hanno evitato un attacco terroristico. E si determinato in seguito che sono almeno 26 detenuti sono stati “ trattenuti per errore.”
Iniziare un’indagine penale non riguarda si fa per assicurare che questo non accada di nuovo e per riguadagnare la credibilità morale per da altri governi. Grazie al rapporto del Senato, ora sappiamo fino a dove si sono spinti?? I funzionari del ramo esecutivo per razionalizzare e nascondere i crimini che volevano commettere. Il problema è se la nazione starà in disparte e permetterà agli autori delle torture di avere una perpetua immunità per le loro azioni.

domenica 4 gennaio 2015

Rapporto Ue, la corruzione costa all’Italia 60 mld l’anno.

Il primo report della Commissione è impietoso con l'Italia: conflitto d'interesse, leggi ad personam, lunghezza dei processi e conseguente prescrizione, collusioni tra politica, imprenditoria e criminalità, appalti truccati. Senza farne i nomi, l'organismo porta ad esempio i casi Berlusconi e Cosentino. Se la stima di 60 miliardi è considerata "esagerata" dalla Corte dei Conti, il fenomeno corruttivo italiano spicca tra i paesi europei, come riporta Repubblica.
Giudizi durissimi sull'Italia nel primo report della Commissione Ue sulla corruzione in Europa. Dove si legge che la nuova legge italiana contro la corruzione "lascia irrisolti" vari problemi perché "non modifica la disciplina della prescrizione, la legge sul falso in bilancio e l'autoriciclaggio e non introduce reati per il voto di scambio". Secondo il rapporto, tre quarti dei cittadini europei, e il 97% degli italiani, ritengono che la corruzione sia diffusa nel proprio Paese. E per due europei su tre, e per l'88% degli italiani, le mazzette e l'utilizzo di legami, sono il modo più semplice per ottenere alcuni servizi pubblici.
Corruzione in Italia vale 4% del Pil. Nonostante la "legge anticorruzione" adottata nel novembre 2012 e "gli sforzi notevoli profusi dall'Italia" per combattere il fenomeno, questo "rimane preoccupante" secondo la Commissione Ue, ricordando che il suo valore in Italia è di circa 60 miliardi all'anno, pari a circa il 4% del Pil. Ad aggravare il giudizio sull'Italia è il dato sulla corruzione a livello Ue: 120 miliardi di euro annui, un costo a cui il nostro Paese "contribuisce" per metà dell'intero ammontare. E se davvero la stima di 60 miliardi - calcolata dal SAeT del dipartimento della Funzione Pubblica e ripresa oggi dalla Commissione Ue - fosse "esagerata" come sostenuto dalla Corte dei Conti, il suo valore resta molto alto rispetto a quello degli altri paesi europei.
Legge anticorruzione italiana insufficiente. Bruxelles suggerisce di perfezionare la legge, anche perché "frammenta" le disposizioni sulla concussione e la corruzione, "rischiando di dare adito ad ambiguità nella pratica e limitare ulteriormente la discrezionalità dell'azione penale". Sono inoltre "ancora insufficienti le nuove disposizioni sulla corruzione nel settore privato e sulla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.
Leggi ad personam e conflitto d'interessi. Il report Ue sulla corruzione rileva che "i tentativi" di darsi norme per garantire processi efficaci sono stati "più volte ostacolati da leggi ad personam" approvate in Italia "in molte occasioni" per "favorire i politici imputati in procedimenti giudiziari, anche per reati di corruzione". Norme come il lodo Alfano, la ex Cirielli, la depenalizzazione del falso in bilancio, il legittimo impedimento. La Commissione Ue suggerisce all'Italia di rafforzare il quadro giuridico e attuativo sul finanziamento ai partiti politici, soprattutto per quanto riguarda le donazioni, il consolidamento dei conti, il coordinamento, mettere in atto adeguati poteri di controllo e prevedere l'applicazione di sanzioni dissuasive.

sabato 3 gennaio 2015

L’ideologia renziana all’attacco del pubblico impiego

Matteo Renzi è stato per due anni consecutivi il sindaco più assenteista d’Italia (con il 59% di assenze in consiglio comunale nel 2013 e addirittura l’82% nel 2012), ma adesso che è diventato premier ritiene giusto che in futuro paghi col licenziamento “un impiegato pubblico che sbaglia, partendo dai furti e arrivando all’assenteismo a volte vergognoso“, e su questo principio si dichiara “pronto al confronto in parlamento“.
Ma c’è ben poco da confrontarsi: forse Renzi ignora che la legge italiana ha già introdotto da diversi anni la possibilità di licenziamento a seguito di un procedimento disciplinare per i dipendenti pubblici ladri o nullafacenti, che falsificano documenti, dichiarano il falso, riportano condanne penali definitive o hanno una insufficiente valutazione del rendimento nell’arco di un biennio. Il licenziamento non è ancora previsto, invece, per le cariche elettive ricoperte in seno alle istituzioni pubbliche, che consentono ancora di assentarsi a piacimento dal luogo di lavoro, come ha potuto fare il “sindaco d’Italia” quando era ancora sindaco di Firenze.
L’ipotesi alternativa all’ignoranza del premier sulla normativa in vigore è che queste dichiarazioni siano funzionali alla preparazione del terreno per una inconfessabile agenda politica: rendere licenziabili anche senza una giusta causa tutti i dipendenti pubblici a prescindere, in modo da poterli trasformare in esuberi a convenienza, per semplici ragioni di efficienza economica e indipendentemente dalla loro onestà e dal loro rendimento.
Del resto, i licenziamenti senza giusta causa sono appena stati legalizzati nel settore privato con il crudele sillogismo alla base del “Jobs Act”: Voglio diritti uguali per tutti. C’è qualcuno senza diritti. Allora togliamoli a tutti per affermare nobili principi di uguaglianza. In questo modo la disparità di trattamento tra precari e contrattualizzati è stata eliminata alla radice: adesso sono tutti licenziabili a piacimento, fannulloni e stakanovisti. E’ il libero mercato, bellezza, dove i problemi si possono scaricare dai piani alti fino ai livelli più bassi della piramide sociale.
Il passo successivo sarà quello di far notare che adesso i dipendenti pubblici hanno più diritti di quelli del settore privato, e in nome dell’uguaglianza bisognerà negare questi diritti con un nuovo livellamento verso il basso, che renderà tutti i lavoratori ricattabili perché nessuno sarà più tutelato da licenziamenti arbitrari, nemmeno chi lavora sodo e si trascina in ufficio anche con la febbre.
Una ipotesi che il giuslavorista Ichino aveva frettolosamente descritto come realtà già in vigore per effetto del “Jobs Act”, costringendo Renzi a smentirlo: “il Jobs act e il disegno di legge Madia sono due cose diverse - ha dichiarato il premier - per questo ho chiesto di togliere il riferimento al pubblico impiego dal Jobs act“.
Nella nuova sinistra, infatti, non bisogna essere impazienti come Ichino: i diritti vanno tolti poco per volta, una legge dopo l’altra, senza strappi bruschi e convincendo il popolo che è l’unica strada possibile verso l’”uguaglianza reale”, cominciando dai precari per poi risalire ai contrattualizzati del settore privato e culminare con la rimozione delle tutele di quelli che nel nostro immaginario collettivo sono i tutelati per antonomasia.
E dopo il regalo di Natale del Jobs Act, si intravede già che cosa ci porterà la primavera grazie al botticelliano ministro Madia e alla sua annunciata riforma del pubblico impiego: raccogliere a sinistra quello che aveva seminato Brunetta da destra, aggiungendo alla possibilità di licenziamento senza giusta causa per i dipendenti pubblici altre forme mascherate di licenziamento, come il demansionamento che altri chiamerebbero mobbing o il trasferimento forzato in un raggio di cinquanta chilometri da casa, pagando il rifiuto con la perdita del posto.
La “perla” di Renzi sui ladri e i fannulloni, dipinti come inamovibili anche se è già possibile licenziarli, non è una gemma isolata, ma va incastonata in quel teatrino della politica dove i “rottamatori dei diritti” hanno costruito sapientemente nel corso degli anni un ricco cast di personaggi: i “lavoratori flessibili” di Maroni, da flettere fino allo schiavismo, i “dipendenti pubblici fannulloni” di Brunetta su cui far convergere l’odio dei meno abbienti, gli “annoiati dal posto fisso” di Monti che rifiutano le sfide della modernità, i “disoccupati schizzinosi” della Fornero che non lavorano per colpa loro, e dulcis in fundo i “contrattualizzati privilegiati” di Renzi, spogliati delle loro misere tutele per renderli nudi tanto quanto i precari davanti ai loro datori di lavoro.
A questo si aggiunge l’artificio retorico dei futuri contratti a “tutele parziali” che vengono spacciate per “tutele crescenti”: a parità di condizione sociale dovremo decidere se le tutele che un tempo coprivano tutti vanno fatte crescere nei contratti destinati al giovane o all’anziano, al neoassunto o allo specializzato, allo sposato con prole o al divorziato, al disabile o alla vedova. Il risultato di questa compartimentazione dei diritti è la perdita di ogni umana solidarietà tra lavoratori, dove i nemici sono sempre altri lavoratori: gli autonomi evasori se sei tassato alla fonte, gli statali fannulloni se sei libero professionista, le caste delle libere professioni se sei un dipendente pubblico, i giovani rampanti se sei anziano, gli anziani baroni se sei giovane, i precari malpagati che svalutano la tua professione se sei assunto, gli assunti privilegiati se sei precario.
Il meccanismo culturale che porta le classi meno abbienti a sbranarsi politicamente e culturalmente a vicenda, sgretolando ogni brandello residuo di solidarietà tra onesti lavoratori, è stato illustrato in modo magistrale già da tempo da Alessandro Robecchi, che fa i conti con un imprescindibile “dato ideologico” (grassetti miei):
“la vera vittoria del renzismo - scrive Robecchi - [è] aver trasferito l’invidia sociale ai piani bassi della società. Quella che una volta si chiamava lotta di classe (l’operaio con la Panda contro il padrone con la Ferrari) e che la destra si affannava a chiamare “invidia sociale“, ora si è trasferita alle classi più basse (il precario con la bici contro l’avido e privilegiato statale con la Panda). Insomma, mentre le posizioni apicali non le tocca nessuno (né per gli ottanta euro, né per altre riforme economiche è stato preso qualcosa ai più ricchi), si è alimentata una feroce guerra tra poveri. Una costante corsa al ribasso che avrà effetti devastanti. Perché se oggi un precario può dire al dipendente pubblico che è privilegiato, domani uno che muore di fame potrà indicare un precario come “fortunato”, e via così, sempre scavando in fondo al barile. Si tratta esattamente, perfettamente, di un’ideologia”.
Sul palco di questo teatrino ideologico dove i pupi sono spinti a darsi randellate a vicenda, gli unici che non sono esposti ai fischi e al lancio di pomodori sono i burattinai che restano dietro le quinte a custodire l’ideologia: i finanzieri con la residenza fiscale all’estero che pontificano alla Leopolda contro il diritto di sciopero, i banchieri che tappano i loro buchi privati di bilancio grazie ai miliardi erogati con decretazione d’urgenza, le multinazionali che fanno profitti in Italia ma li fanno tassare in altri paesi grazie a quel legalissimo e convenientissimo gioco delle tre carte chiamato elusione fiscale, i vip alla Ezio Greggio che portano in dote a Montecarlo i profitti maturati nella televisione italiana, i faccendieri alla Briatore che si spacciano per grandi capitani d’industria con “sogni” e visioni innovative mentre sono semplicemente degli ex latitanti con conoscenze altolocate.
Il dibattito sul diritto di licenziare i dipendenti pubblici come ultima frontiera verso l’uguaglianza dei diritti (negandoli a tutti in egual misura) si preannuncia come intenso e appassionante. Ma prima di affrontarlo, fermiamoci un attimo a riflettere su altri dibattiti già persi in passato. Com’è finito il dibattito sul precariato? Con Maroni che approva la legge sedicente “Biagi”. Com’è finito il dibattito sulle pensioni? Con la Fornero che alza l’età pensionabile. Com’è finito il dibattito sulla macelleria sociale? Con l’aumento di Monti dell’Iva e delle accise per non toccare profitti finanziari, patrimoni e redditi milionari. Com’è finito il dibattito sull’articolo diciotto? Con Renzi che lo rottama dipingendo una tutela come privilegio.
A questo punto non ci vuole un indovino per capire come andrà a finire il dibattito sui dipendenti pubblici da licenziare a convenienza e assumere a progetto con contratti stagionali, come già avviene del resto per gli insegnanti. Da qui il dubbio: anziché accanirci sui dibattiti, non sarebbe meglio mettersi a studiare perché finiscono sempre nel modo peggiore per chi lavora, che casualmente coincide con quello auspicato da chi comanda?
Del resto, vista la scelta tra Gesù e Barabba, cosa possiamo aspettarci da un popolo imbevuto dall’ideologia del teatrino quando viene chiamato a scegliere tra il dipendente pubblico (archetipo del parassita) e l’intraprendente finanziere con residenza fiscale all’estero, archetipo del determinato e salvifico uomo di successo che porterà in italia gli investitori, ma solo a condizione che si smetta di scioperare nel settore dei trasporti?
Alla dozzina di discepoli del keynesismo, ostili al potere politico dei macellai sociali e al potere religioso del culto neoliberista, non resta che restare nelle catacombe del mondo intellettuale dove saranno pereguitati come “professoroni”, mentre cercano di predicare la buona novella del ‘900, quella a cui avevano creduto in molti: un mondo che verrà, dove la spesa pubblica è orientata al lavoro socialmente utile come “moltiplicatore keynesiano dell’economia”, e non a Ilva, Banche, Confindustria, Mercanti d’armi, mafie private camuffate da servizi pubblici, grandi opere inutili, e tutto per poi piangere miseria ogni luglio, licenziando anche gli insegnanti che si riassumeranno con certezza il settembre successivo.
Se il rischioso percorso della licenziabilità è la strada che ha deciso di intraprendere la maggioranza politica del paese, non possiamo che inchinarci alle regole del gioco democratico. Ma in ogni caso io introdurrei per gli sperimentatori di queste ricette economiche un principio di “accountability”, obbligandoli a rispondere delle loro decisioni.
I detrattori del pubblico impiego che applaudono con la bava alla bocca le ipotesi di licenziabilità senza giusta causa dei dipendenti statali dovrebbero mettere per iscritto la loro presa di posizione, per renderne conto politicamente (o almeno moralmente) nel caso in cui questa ennesima sforbiciata alla rete di tutela del lavoro dovesse innescare in Italia la spirale che dalla crisi porta verso la profonda e conclamata depressione economica, terreno fertile per la trasformazione del conflitto sociale in guerra civile.
Per quanto mi riguarda, è palese che lo Stato col pubblico impiego fa girare l’economia italiana più di quanto non faccia la grande industria, e che piegare anche il settore pubblico alla logica del profitto (per alcuni fortunati che resteranno nella macchina statale a prescindere dal loro rendimento) significa condannare il paese alla miseria (per tutti quelli che non avranno santi in paradiso e si vedranno licenziati anche lavorando sodo, perché i bilanci si faranno quadrare coi licenziamenti e i tagli orizzontali).
A conferma del ruolo centrale del pubblico impiego come motore dell’economia, ci sono i dati di realtà raccolti in una ricerca pubblicata dal Forum PA, da cui risulta che i dipendenti pubblici in Italia sono il 14,8% rispetto al totale degli occupati, e di conseguenza rappresentano una fetta consistente della popolazione lavoratrice, che con il suo reddito e le sue spese aiuta a tenere in piedi l’economia del paese, e in molti casi ne compensa anche le diseconomie, come avviene nelle famiglie in cui il reddito di un dipendente pubblico compensa l’intermittenza di reddito di un familiare precario.
Ma si sbaglia chi pensa che i dipendenti pubblici “sono troppi e vanno sforbiciati in qualche modo”, come suggerirebbe l’ideologia renziana: in Francia i dipendenti pubblici sono il 20% degli occupati, in Inghilterra il 19,2%, e sono molti meno anche in termini assoluti e in rapporto alla popolazione complessiva. In Italia abbiamo 3,4 milioni di dipendenti pubblici pari al 5,6% della popolazione, contro 5,5 milioni in Francia (dove rappresentano l’8,3% della popolazione) e 5,7 milioni in Inghilterra, che corrispondono al 10,9% della popolazione britannica.
E dopo aver scoperto che ci sono paesi dove il settore pubblico viene sostenuto senza timore, invece di essere minacciato con ipotesi di licenziamenti giustificati solo dalle esigenze della macelleria sociale, possiamo chiederci quali possono essere i rischi potenziali legati ad un crollo del pubblico impiego.
Se il settore pubblico diventa “licenziabile a prescindere” anche se non ci sono motivi di licenziamento, la conseguenza è che i dipendenti pubblici diventeranno ricattabiili e corruttibili, perdendo ogni potere di contrattazione e ogni rivendicazione di diritti di fronte alla minaccia di licenziamento. Visto che non sono dipendente della pubblica amministrazione italiana potrei anche fregarmene se la scure dei macellai cadrà su altri, ma azzerando le tutele del pubblico impiego crollerà inevitabilmente anche il reddito, con l’applicazione della collaudata formula “se non ti sta bene così ti licenzio, ti demansiono finché non ti stufi o ti trasferisco anche se hai figli a carico, tanto ne trovo a migliaia disposti a fare la fila per condizioni peggiori delle tue“. E se crolla il reddito in un settore che genera il 14,8% del lavoro in Italia c’è il rischio concreto che crolli l’intera economia del paese e che la crisi acuta si trasformi in una depressione economica esplosiva, che a quel punto colpirà tutti, dipendenti pubblici e non.
E da qui le domande cruciali di fronte al vento di tempesta che sta soffiando sul pubblico impiego: cari innovatori, rottamatori, cambiatori di verso, costruttori di futuro, twittatori, coraggiosi visionari di governo e profeti dell’ideologia renziana: vale davvero la pena di rischiare la depressione economica per battere cassa in modo miope con tagli che generano risparmi sul breve periodo ma negano lo sviluppo economico sul lungo termine? Vale davvero la pena di colpire un settore strategico del nostro sistema economico e lavorativo, legittimando questo azzardo con il risentimento atavico indirizzato verso il settore pubblico? Vale la pena di cavalcare questo risentimento per l’ennesimo attacco ai lavoratori tra i più deboli e ai redditi tra i più bassi? Ha senso negare che questo risentimento nasce anche da una classe politica che oggi pretende di colpire l’assenteismo altrui con il licenziamento, ma ieri non è stata in grado di arginare il proprio assenteismo nemmeno con delle semplici sanzioni morali, che avrebbero evitato di affidare il governo del Paese al sindaco più assenteista d’Italia?
A tutte queste domande solo il tempo potrà dare risposta. Nel frattempo si apra pure il dibattito sulle sorti del pubblico impiego, anche se postumo e con decisioni già prese altrove.