Uno dei tratti caratteristici della recessione
che continua ad attanagliare il Vecchio Continente è l’assuefazione
generale rispetto alle misure straordinarie che periodicamente adotta la
BCE ed alla tendenza di queste a tradursi in poco più che palliativi di breve periodo.
La prima asta di liquidità della Banca Centrale, con la quale ha preso il via, a distanza di due anni dalla prima, la nuova campagna anti crisi e anti deflazione di Mario Draghi, ha avuto un esito deludente. A fronte delle ottimistiche previsioni degli analisti (Bloomberg prevedeva un valore mediano di domanda da parte delle banche europee pari a 170 miliardi di euro) la richiesta degli operatori si è fermata a 82,6 miliardi (il ministro Pier Carlo Padoan si attendeva una domanda da parte delle banche italiane pari a 37 miliardi mentre il dato finale è stato di soli 23 miliardi di euro richiesti). Non sembra, dunque, che la prospettiva di finanziare imprese che mettono in fila esclusivamente previsioni fosche o famiglie terrorizzate dal quotidiano peggioramento delle condizioni economiche generali alletti particolarmente le banche europee.
La geografia delle banche che hanno scelto di partecipare attivamente all’asta della BCE (su 382 istituti aventi diritto alla partecipazione ben 127 si sono astenuti scegliendo di rimanere alla finestra) ha visto una prevalenza degli istituti italiani e spagnoli. Una plausibile giustificazione dell’attendismo delle banche del centro e del nord Europa è legata alla loro abbondante dotazione di liquidità che, in questa fase, le rende poco interessate all’acquisizione di nuovi fondi. Quest’ultimo elemento è una rappresentazione plastica della polarizzazione che non accenna a ridursi in Europa fra un centro, imperniato sulla Germania, forte dei surplus accumulati e del potere politico che questi le stanno garantendo, ed una periferia economicamente, socialmente e politicamente fragilissima.
La politica monetaria espansiva della BCE dovrebbe, in condizioni normali, rappresentare un occasione allettante per gli istituti finanziari europei. Tuttavia, il governatore Draghi si muove in un contesto che Keynes avrebbe definito di “trappola della liquidità”, una tipica situazione in cui “il cavallo non beve pur se condotto in riva al fiume”. Sembrerebbe, dunque, che la natura strutturale della crisi e degli squilibri che stanno asfissiando l’Europa renda risibile l’effetto degli interventi di politica monetaria per quanto straordinari essi siano.
In questo quadro, due sono le domande alle quali val la pena provare a dare una risposta.
La prima riguarda l’uso dei fondi che, seppur limitati, sono stati acquisiti da alcuni istituti di credito europei. In particolare, per quel che riguarda le banche italiane e spagnole, queste si trovano di fronte al seguente dilemma. Tentare la strada rischiosa e piena di incognite del finanziamento di un sistema imprenditoriale stremato da un continuo calo della domanda o proseguire nella più sicura e tranquillizzante azione di ripianamento dei propri bilanci in sofferenza? Appare evidente come la propensione verso la seconda ipotesi potrebbe rivelarsi la scelta maggioritaria tra coloro che hanno ottenuto parte dei fondi BCE. Oltre a ciò va ricordato che a fine anno giungeranno in scadenza i precedenti prestiti straordinari operati dalla BCE. Molti commentatori sospettano che una buona parte dei fondi acquisiti, e acquisibili da qui a Dicembre, saranno usati dalle banche per ripagare i prestiti precedenti in un gioco paradossale che non sembra aver molto a che vedere con l’auspicata ripresa dell’economia reale.
La seconda domanda riguarda l’adeguatezza generale della politica monetaria della Banca Centrale Europea di fronte alla crisi originata dagli squilibri interni alla zona euro. L’attuale ondata deflazionistica non accenna a diminuire e si sta materializzando in un contesto di politica monetaria incredibilmente espansiva. Questo dato, assieme al fatto che il tasso di interesse obiettivo della Banca Centrale, se calcolato con i dati macroeconomici più recenti, è ormai entrato in territorio negativo, sta palesando l’evidente inefficacia della stesse politiche BCE. Il quantitative easing , ultimo strappo verso l’ormai il celebre “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi potrebbe, entro breve, divenire l’ultima e obbligata cartuccia da sparare per il governatore italiano della banca di Francoforte. Sempre che convincere la componente tedesca del board della Banca si riveli una missione possibile.
Dunque, se per i commentatori ufficiali l’esito dell’asta BCE ha rappresentato al tempo stesso una sorpresa ed una delusione, per chi giudica negativamente l’intero impianto di politica economica della Unione Europea, come il premio Nobel Paul Krugman, si è trattato di un amara conferma delle proprie previsioni. Il continuo stupore per una altresì prevedibile inefficacia delle misure espansive della BCE, così come la stridente contraddizione di quest’ultime con la pesante austerità imposta dalla Commissione ai paesi del Sud, continuano a evidenziare come quella culturale sia una delle componenti più profonde della crisi che affligge l’Unione Europea.
La prima asta di liquidità della Banca Centrale, con la quale ha preso il via, a distanza di due anni dalla prima, la nuova campagna anti crisi e anti deflazione di Mario Draghi, ha avuto un esito deludente. A fronte delle ottimistiche previsioni degli analisti (Bloomberg prevedeva un valore mediano di domanda da parte delle banche europee pari a 170 miliardi di euro) la richiesta degli operatori si è fermata a 82,6 miliardi (il ministro Pier Carlo Padoan si attendeva una domanda da parte delle banche italiane pari a 37 miliardi mentre il dato finale è stato di soli 23 miliardi di euro richiesti). Non sembra, dunque, che la prospettiva di finanziare imprese che mettono in fila esclusivamente previsioni fosche o famiglie terrorizzate dal quotidiano peggioramento delle condizioni economiche generali alletti particolarmente le banche europee.
La geografia delle banche che hanno scelto di partecipare attivamente all’asta della BCE (su 382 istituti aventi diritto alla partecipazione ben 127 si sono astenuti scegliendo di rimanere alla finestra) ha visto una prevalenza degli istituti italiani e spagnoli. Una plausibile giustificazione dell’attendismo delle banche del centro e del nord Europa è legata alla loro abbondante dotazione di liquidità che, in questa fase, le rende poco interessate all’acquisizione di nuovi fondi. Quest’ultimo elemento è una rappresentazione plastica della polarizzazione che non accenna a ridursi in Europa fra un centro, imperniato sulla Germania, forte dei surplus accumulati e del potere politico che questi le stanno garantendo, ed una periferia economicamente, socialmente e politicamente fragilissima.
La politica monetaria espansiva della BCE dovrebbe, in condizioni normali, rappresentare un occasione allettante per gli istituti finanziari europei. Tuttavia, il governatore Draghi si muove in un contesto che Keynes avrebbe definito di “trappola della liquidità”, una tipica situazione in cui “il cavallo non beve pur se condotto in riva al fiume”. Sembrerebbe, dunque, che la natura strutturale della crisi e degli squilibri che stanno asfissiando l’Europa renda risibile l’effetto degli interventi di politica monetaria per quanto straordinari essi siano.
In questo quadro, due sono le domande alle quali val la pena provare a dare una risposta.
La prima riguarda l’uso dei fondi che, seppur limitati, sono stati acquisiti da alcuni istituti di credito europei. In particolare, per quel che riguarda le banche italiane e spagnole, queste si trovano di fronte al seguente dilemma. Tentare la strada rischiosa e piena di incognite del finanziamento di un sistema imprenditoriale stremato da un continuo calo della domanda o proseguire nella più sicura e tranquillizzante azione di ripianamento dei propri bilanci in sofferenza? Appare evidente come la propensione verso la seconda ipotesi potrebbe rivelarsi la scelta maggioritaria tra coloro che hanno ottenuto parte dei fondi BCE. Oltre a ciò va ricordato che a fine anno giungeranno in scadenza i precedenti prestiti straordinari operati dalla BCE. Molti commentatori sospettano che una buona parte dei fondi acquisiti, e acquisibili da qui a Dicembre, saranno usati dalle banche per ripagare i prestiti precedenti in un gioco paradossale che non sembra aver molto a che vedere con l’auspicata ripresa dell’economia reale.
La seconda domanda riguarda l’adeguatezza generale della politica monetaria della Banca Centrale Europea di fronte alla crisi originata dagli squilibri interni alla zona euro. L’attuale ondata deflazionistica non accenna a diminuire e si sta materializzando in un contesto di politica monetaria incredibilmente espansiva. Questo dato, assieme al fatto che il tasso di interesse obiettivo della Banca Centrale, se calcolato con i dati macroeconomici più recenti, è ormai entrato in territorio negativo, sta palesando l’evidente inefficacia della stesse politiche BCE. Il quantitative easing , ultimo strappo verso l’ormai il celebre “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi potrebbe, entro breve, divenire l’ultima e obbligata cartuccia da sparare per il governatore italiano della banca di Francoforte. Sempre che convincere la componente tedesca del board della Banca si riveli una missione possibile.
Dunque, se per i commentatori ufficiali l’esito dell’asta BCE ha rappresentato al tempo stesso una sorpresa ed una delusione, per chi giudica negativamente l’intero impianto di politica economica della Unione Europea, come il premio Nobel Paul Krugman, si è trattato di un amara conferma delle proprie previsioni. Il continuo stupore per una altresì prevedibile inefficacia delle misure espansive della BCE, così come la stridente contraddizione di quest’ultime con la pesante austerità imposta dalla Commissione ai paesi del Sud, continuano a evidenziare come quella culturale sia una delle componenti più profonde della crisi che affligge l’Unione Europea.
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