venerdì 1 marzo 2019

Washington passa da fallimento a fallimento

Lo scorso fine settimana è stato terribile per la Casa Bianca e i suoi impresentabili capisquadra del sud del Rio Bravo, quello che in maniera molto appropriata è chiamato “Cartello” di Lima dado lo stretto vincolo che alcuni dei governi che lo compongono mantengono con il narcotraffico, specialmente quello colombiano e, prima dell’avvento di López Obrador, quello di Peña Nieto in Messico. Sabato gli strateghi statunitensi hanno deciso di organizzare, per il 23 febbraio, un concerto con alcune delle celebrità consacrate dall’industria musicale di Miami. L’evento ha attirato circa 25.000 persone, la decima parte di quanto speravano, divise gerarchicamente in due categorie chiaramente demarcate. Il settore VIP dove stavano i presidenti –Duque, Piñera, Abdo Benítez-  ministri e gerarchi del Cartello e, duecento metri più indietro (sic!) il resto del pubblico.  L’organizzatore e finanziatore dello spettacolo è stato il magnate britannico Richard Branson, un noto evasore fiscale  e molestatore sessuale che ha ingaggiato una serie di cantanti e gruppi di destra tra i quali Reymar Perdomo, “El Puma” Rodríguez,  Chino, Ricardo Montaner, Diego Torres, Miguel Bosé, Maluma, Nacho, Luis Fonsi, Carlos Vives, Juan Luis Guerra, Juanes, Maná e Alejandro Sanz, che hanno gareggiato con fierezza a chi si aggiudicava l’Oscar del maggior lecchino nei confronti dell’impero.
Si presupponeva che questo concerto avrebbe creato il clima necessario a facilitare l’ingresso degli “aiuti umanitari” preparati a Cúcuta dagli statunitensei e dai loro inservienti del governo colombiano. Però non è stato così, e per varie ragioni. Prima, perché, come aveva detto la Croce Rossa, si possono inviare quel tipo di aiuti, attentamente controllati (cosa che, peraltro, non è stata fatta) se il governo del paese che riceverà il carico lo richiede. Nello stesso senso si è espresso il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Gutérrez. E, secondo, perché il governo bolivariano non l’ha fatto perché sapeva molto bene che gli Stati Uniti utilizzano quegli “aiuti” per introdurre spie, agenti sotto copertura mascherati da medici e assistenti sociali e para-militari nel territorio dei loro nemici e, naturalmente,  non avrebbe consentito quella mossa. Inoltre, se effettivamente la Casa Bianca avesse un interesse genuino nell’offrire un aiuto per alleviare le sofferenze della popolazione venezuelana ha in mano uno strumento molto più semplice e fattivo: togliere le sanzioni con le quali ha schiacciato la Repubblica Bolivariana; o abolire il veto che impone sulle relazioni commerciali internazionali; o restituire le enormi quantità di divise delle imprese pubbliche di quel paese confiscate mediante un’azione che si può definire solo come un furto, per decisione del governo di Donald Trump o delle autorità come quelle della Banca d’Inghilterra che si è appropriata dell’oro venezuelano depositato nel suo tesoro e valutato in oltre 1.700 milioni di dollari. La rabbiosa reazione della destra di fronte al fallimento dell’operazione “aiuti umanitari” è stata tremenda. Lo stesso narco-presidente Iván Duque salutava dall’alto del ponte internazionale le bande dei delinquenti assoldati per causare tumulti mentre preparavano le loro bombe molotov e oliavano le loro armi. Quando, di fronte alla decisa resistenza di civili e militari bolivariani si è consumato il fallimento dell’operativo nordamericano, il sottoproletariato, protetto dalla Polizia Nazionale della Colombia, ha preso d’assalto il ponte e ha proceduto a incendiare i camion che portavano gli “aiuti umanitari”. Com’era prevedibile, la stampa ha dato la colpa del fatto al governo venezuelano: ci sono le foto pubblicate da tutta la canaglia mediatica mondiale con i corrispondenti titoli che demonizzano la barbarie chavista e nascondono i veri responsabili della barbarie. (vedere video sull’argomento in: https://youtu.be/fxTDm11_rmE). Intanto,  in perfetto coordinamento, gli occupanti di un blindato della polizia bolivariana attaccano le recinzioni che erano sul ponte per facilitare la “spontanea” diserzione di tre poliziotti che cercano asilo nella tranquilla e prospera Colombia. La stampa, tuttavia, non ha detto niente sugli attenti “direttori di scena” che, dal lato colombiano del ponte, indicavano ai disertori come dovevano agire, da dove entrare, e che dire del fatto che gli gridavano “solleva l’arma, solleva l’arma!” per mettere in evidenza che erano poliziotti o militari bolivariani che fuggivano dalla “dittatura” di Maduro. Tutto questo è abbondantemente documentato in un video che, naturalmente, la “stampa seria” si è guardata molto bene dal far vedere.
Riassumendo, un fiasco diplomatico enorme e inoccultabile che, per disgrazia della truppa comandata da Trump, sarebbe stato appena il preludio di un altro ancora peggiore.
Ci riferiamo alla tanto pubblicizzata riunione del Cartello di Lima a Bogotá, che per il suo eterno disonore è stato presieduto dal Vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, cosa che fa capire molto bene quale sia la natura patriottica e democratica dell’opposizione venezuelana. Il vice di Trump è arrivato a Bogotá per riunirsi, in una patetica dimostrazione del vertiginoso declino dell’un tempo enorme potere statunitense nella regione, con un gruppo di soggetti di secondo ordine.
In altri tempi, l’arrivo di un emissario di altissimo livello della Casa Bianca avrebbe fatto esplodere un travolgente “effetto mandria” e uno dopo l’altro i nefasti presidenti neocoloniali sarebbero corsi in drappello per arrivare il prima possibile al baciamano ufficiale. Ma i tempi sono cambiati e Pence ha potuto stringere solo le mani del suo screditato anfitrione e del comico buffone del magnate di New York, l’autoproclamato “Presidente Incaricato”  Juan Guaidó. Gli altri erano persone di rango inferiore: cancellieri e persino vice-cancellieri che con le migliori facce da circostanza hanno ascoltato, con simulata solennità, la lettura dell’atto di morte del piano golpista statunitense e, quasi sicuramente, dello stesso Cartello di Lima, avendone ormai comprovata l’inutilità. Il documento, letto svogliatamente e in mezzo a un clima deprimente, azzerava tutto e rinviava la questione al labirinto senza uscita del Consiglio dei Sicurezza dell’ONU. Un fallimento gigantesco del governo degli Stati Uniti in un’area che un troglodita del nord ha denominato non solo il loro “cortile di casa” ma addirittura la “porta di servizio”.
I termini per “l’uscita” di Maduro (prima stabiliti da Pedro Sánchez, da Madrid e poi reiterati da Trump, Pompeo, Pence, Bolton e tutti i teppisti che oggi si riparano sotto le ali del presidente nordamericano) si sono dissipati come una vaporosa nebbia mattutina sotto il sole ardente dei Caraibi venezuelani. Non solo questo, di fronte agli evidenti segnali del declino del potere imperiale, i lacchè neocoloniali hanno optato per mettersi in salvo dal disastro e con un gesto inatteso hanno dichiarato la loro opposizione a un intervento militare in Venezuela. I coraggiosi guerrieri del sud hanno percepito che anche nei loro stessi paesi un intervento gringo in Venezuela -anche se operato sotto l’infruttuosa copertura di un’operazione di “forze congiunte” con militari colombiani o di qualsiasi altro paese- sarebbe impopolare e potrebbe causare loro seri costi politici e hanno optato per salvare la loro pellacce e lasciare che Washington si occupasse della faccenda.
Che cosa può fare ora Trump? Vittima della sua logorrea e della brutalità dei torvi gangster che lo circondano e consigliano, tirerà fuori l’ultima carta del mazzo, l’opzione militare, quella che sempre è stata sul tavolo? Difficile che un personaggio come lui ammetta tale impressionante sconfitta diplomatica e politica senza un gesto violento, una pugnalata subdola. Pertanto, non si potrebbe scartare quella possibilità anche se credo che la probabilità di un’invasione stile Santo Domingo 1965 o Panama 1989 sia molto bassa. Il Pentagono sa che il Venezuela non è disarmato e che un’incursione nelle terre di Bolívar e Chávez non sarebbe la stessa cosa che l’invasione dell’inerme Granada del 1983 e causerebbe numerose vittime tra gli invasori.
Scenari alternativi: (a) provocare scaramucce o realizzare bombardamenti tattici nella lunga e incontrollabile  frontiera colombo-venezuelana; (b) salire uno scalino e attaccare obiettivi militari dentro il territorio venezuelano, sfidando così una rappresaglia bolivariana che potrebbe essere molto distruttiva e raggiungere, persino, le basi che gli USA hanno in Colombia o quelle che la NATO ha ad Aruba e Curazao; o (c) sacrificare Juan Guaidó, disfarsene, vista l’inutilità di tutta la manovra, e incolpare dell’omicidio il governo bolivariano. Così cercherebbe di creare un clima mondiale di ripudio che giustificherebbe, con l’aiuto della stampa canaglia, un’operazione militare di vasta portata. Certo che questa sarebbe una giocata di altissimo costo politico perché la credibilità che avrebbe il governo degli Stati Uniti davanti a un fatto di questo tipo è pari a zero. Se Washington ha fatto esplodere la corazzata Maine nella Bahia de La Habana nel 1898 (inviando alla morte 254 marinai) per giustificare la dichiarazione di guerra contro la Spagna e prendersi Cuba; se per entrare nella Seconda Guerra Mondiale il presidente Franklin D. Roosevelt ha acconsentito a dare il permesso che l’Armata Imperiale Giapponese attaccasse “a sorpresa” Pearl Harbor nel dicembre del 1941 causando la morte di circa 2500 marines e altri 1300 feriti,  chi potrebbe credere che se succedesse qualcosa di male a Guaidó, cosa che nessuno desidera, il colpevole potrebbe essere qualcun altro che non sia il governo degli Stati Uniti? Nei prossimi giorni comincerà a svelarsi questa incognita. Quel che è certo, indubbiamente, è che, per ora, tutta l’operazione golpista architettata dai teppisti di Washington è andata di fallimento in fallimento.

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