Si discute molto, in questi giorni, della cosiddetta autonomia differenziata.
Quest’ultima dovrebbe rappresentare il fiore all’occhiello
dell’avventura leghista al governo con il Movimento 5 Stelle. Al momento
(e questa dovrebbe essere una buona notizia, come vedremo a breve), il
governo giallo-verde sembra non riuscire a trovare la quadra
sull’argomento. Ciò avviene, questo è certo, non per le preoccupazioni
del Movimento 5 Stelle sulla tenuta dell’unità nazionale o sul destino
dei cittadini del Mezzogiorno, ma semplicemente per il tornaconto
elettorale di un movimento politico che ha tratto gran parte del suo
consenso dalle regioni del Sud e che, adesso, una volta che il bluff giallo-verde è stato svelato,
sta assistendo a un inesorabile smottamento nella sua popolarità
proprio in quelle regioni che ne avevano favorito l’ascesa. La riforma,
però, sembra soltanto rinviata, probabilmente a dopo le
imminenti elezioni europee. Vale, dunque, la pena di soffermarsi sulla
questione, allo scopo di metterne in luce i contenuti e le implicazioni.
Prima
di tutto, dobbiamo chiederci cosa sia l’autonomia differenziata. In
generale, è possibile asserire che lo Stato tassa i cittadini e
‘accentra’ la quasi totalità delle risorse: in altre parole, le tasse
pagate dai cittadini finiscono quasi integralmente all’erario, ossia
nelle casse dello Stato. L’autonomia differenziata romperebbe questo
meccanismo, permettendo ad enti più periferici, come le Regioni, di
trattenere una quota rilevante (più o meno elevata a seconda della
portata dell’eventuale riforma, ma comunque maggiore di quella attuale,
davvero minima) delle tasse pagate dai cittadini.
Per comprendere al meglio gli aspetti normativi di questo concetto, occorre, inoltre, ricorrere ad un noioso (ma breve) excursus
nel campo del diritto costituzionale. L’istituto dell’autonomia
differenziata (o rafforzata) è previsto esplicitamente dalla
Costituzione, così come modificata dalla riforma del titolo V del 2001
(la legge costituzionale 3/2001, proposta nel 1999 dall’allora
Presidente del Consiglio D’Alema e da Amato, all’epoca Ministro per le
riforme istituzionali). L’articolo 116 della Costituzione risultante da
tale riforma, recita, al terzo comma:
«Ulteriori
forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di
cui al terzo comma dell’articolo 117 [ovvero quelle in cui lo Stato e le
Regioni esercitano la cosiddetta legislazione concorrente, NdR]
possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su
iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel
rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata
dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa
fra lo Stato e la Regione interessate».
Le materie in questione sono le più svariate (qui quelle di legislazione concorrente).
Ne riportiamo soltanto alcune: tutela e sicurezza del lavoro,
istruzione, ricerca, salute, protezione civile, porti e aeroporti
civili, grandi reti di trasporto, previdenza complementare e
integrativa, beni culturali.
Ciò
a cui stiamo assistendo è, dunque, l’applicazione concreta
dell’articolo 116. Tre Regioni, infatti, ovvero Emilia-Romagna,
Lombardia e Veneto, hanno formalmente iniziato, a seguito, in alcuni
casi, di referendum consultivi, l’iter per
l’ottenimento delle ulteriori forme di autonomia di cui sopra. In altre
parole, hanno iniziato a trattare, prima con il governo Gentiloni (le cosiddette pre-intese del febbraio 2018) e, successivamente, con il governo Conte, i contenuti delle intese che dovranno essere sottoposte al vaglio delle Camere.
Allo
stato attuale, è molto difficile dire in cosa consisteranno tali
intese. Esse, infatti, non sono ancora pubbliche e, per molti aspetti,
non sono state ancora definite. Le bozze che circolano, non definitive,
possono cambiare da un giorno all’altro in base alla trattativa in
corso. Sorvoliamo, qui, sulla particolare procedura prevista per l’esame
di queste intese da parte delle Camere, le quali, secondo
l’interpretazione più diffusa, potranno semplicemente accettare o
rifiutare in blocco le intese, senza la possibilità di emendarle, come
invece accadrebbe con un normale disegno di legge (una garanzia, a dire
il vero, alquanto priva di significato date le intenzioni della
maggioranza e la malleabilità dei grillini).
Su
alcuni aspetti, però, si può già dire qualcosa. L’attuazione delle
intese implicherà un trasferimento di risorse economiche dallo Stato
alle Regioni che otterranno l’autonomia rafforzata (vedi, al riguardo,
anche il saggio di Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei Ricchi?, scaricabile gratuitamente).
Dalle bozze che circolano attualmente, in realtà, è impossibile
quantificare con sufficiente precisione le risorse che saranno
trasferite alle Regioni. Non sono chiare le materie che saranno oggetto
di decentramento rafforzato, né quali saranno i criteri attraverso i
quali le risorse economiche saranno assegnate. Quel che è certo, però,
è, da un lato, che le Regioni non si limiteranno a chiedere quanto
necessario per l’espletamento delle funzioni che saranno decentrate (per
capire le intenzioni delle regioni, soprattutto di Lombardia e Veneto,
basti pensare che in un referendum, poi ritenuto illegittimo e, per
questo, mai tenutosi, il Veneto faceva richiesta del 90% del gettito
maturato nella regione). Dall’altro, è certo che il trasferimento in
questione provocherà una riduzione del gettito fiscale per lo Stato, che
dovrà intervenire tagliando la spesa delle amministrazioni centrali o
quella che effettua nelle altre regioni. E questo avverrà per la ragione
che la ministra leghista per le autonomie regionali, Erika Stefani, assurdamente adduce per spiegare che le risorse non saranno sottratte alle altre regioni: l’inserimento della cosiddetta clausola di invarianza finanziaria.
Quest’ultima prevede che le intese non debbano comportare nuovi o
maggiori oneri per le finanze pubbliche. In altri termini, vuol dire che
ciò che lo Stato perderà, in termini di gettito, per l’implementazione
dell’autonomia differenziata, dovrà recuperarlo attraverso una riduzione
della spesa pubblica. E ciò in ottemperanza alle previsioni dei
trattati europei, che prevedono la possibilità dell’inserimento in
Costituzione del pareggio di bilancio (il famoso articolo 81, così come modificato nel 2012).
In
altri termini, le tre regioni in questione (e le altre che
richiederanno l’autonomia), che sono, non a caso, tra quelle più ricche,
ed essendo le tasse proporzionali al reddito anche quelle con i più
alti gettiti fiscali, vogliono tenere per sé gran parte di tale gettito.
Ma questo significa l’inasprimento di un processo già in corso, volto a
ridurre sempre di più l’intervento dello Stato nell’economia. E questo
in totale contrasto con ciò che è richiesto nelle aree economicamente depresse,
ovvero un pesante intervento dello Stato, anche in deficit, per il
sostegno alla domanda aggregata e, dunque, al reddito di tali aree. In
contrasto con esigenze redistributive ed espansive della spesa pubblica,
dunque, ma in ossequio a quelle di quello che rappresenta lo zoccolo
duro della Lega al nord: la grande e media borghesia che sempre di più
vuole mano libera nelle regole che disciplinano il mercato del lavoro,
il minor prelievo fiscale possibile e, se investimenti pubblici devono
esserci, che siano localizzati nelle regioni dove esse operano e,
possibilmente, pensati e implementati al loro servizio.
A
ciò si aggiunga il fatto che se le regioni riusciranno a trattenere
gran parte del proprio gettito e le funzioni che abbiamo citato
tenderanno sempre di più a essere decentrate, è chiaro che i cittadini
delle regioni più ricche potranno godere di servizi migliori rispetto ai
cittadini di quelle economicamente svantaggiate. Un fenomeno non nuovo,
certo, ma che andrà ad accentuarsi in misura sempre maggiore, anche
‘grazie’ ai trattati europei, che impongono vincoli stringenti sia per quel che riguarda la spesa pubblica in deficit,
sia per quel che riguarda gli ambiti di intervento a sostegno di
determinati territori (politica industriale, creazione di posti di
lavoro, realizzazione delle infrastrutture necessarie).
Siamo
circondati, dunque, dai bracci di una tenaglia: da un lato, l’austerità
dei trattati, che impone dannosi freni all’espansione della spesa
pubblica proprio laddove ce ne sarebbe più bisogno; dall’altro, la
voracità dei capitalisti, rappresentati, in questo caso come in altri,
dalla Lega, che hanno tutto l’interesse a vedersi tassare di meno, a
concentrare le risorse pubbliche laddove sono necessarie ai propri
interessi e ad avere a disposizione manodopera disperata e, per questo, a buon mercato. Un’ulteriore dimostrazione che dobbiamo rompere sia con la gabbia europea sia con la falsa alternativa del governo penta-leghista.
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