L’apertura delle consultazioni
del presidente della Repubblica ha inaugurato ieri l’ennesimo atto
dell’eterna commedia politica nostrana. Senza voler fare aride conte
aritmetiche, ci pregiamo di offrire ai nostri cari lettori un primo
consuntivo del primo mese della XVIII legislatura, con la speranza d’evitare ingiuste accuse di sadismo: la realtà è questa, e tanto ci tocca.
Partiamo, per umanità, dagli sconfitti. Né il Partito Democratico né tanto meno la variopinta galassia moderata poteva osare di pensare- attività invero assai poco praticata a quelle latitudini- ad un risultato diverso da quello del 4 marzo. Un vecchio adagio popolare a chi semina vento consegna tempesta. Ora, è noto urbi et orbi che l’ultimo replicante del fu pci risulta essere un’espressione miserabile di una classe in completo delirio monomaniacale, a cui in poco meno d’un anno è crollato il mondo addosso e che non vuole né riesce accorgersene.
L’alta borghesia cosmopolita e provincialissima del PD, compiuto lo sterminio sociale dei sozzi italiani incapaci a divenire euro-idioti, ha avuto politicamente ciò che meritava: primeggiare a via Montenapoleone e ai Parioli per scomparire dal resto della cartina elettorale d’Italia e coprirsi di ridicolo. Fino ad oggi, in effetti, il tentativo propugnato dai vettori tradizionali del culturame liberale nostrano- altra meravigliosa e meritoria filiazione della classe di cui sopra- di screditare la democrazia pro bono élite e, al contempo, convincere il gregge a votare i propri aguzzini per essere massacrati ancora e di più non pare aver funzionato: ai sogni, specie europeisti, l’italiano pelandrone e affamato non vuol proprio credere. Basta l’incubo quotidiano a smentire i soloni e i retori.
Abbandonata la dresda fumante del Nazareno, superiamo per misericordia post-pasquale gli amici di Soros– la cui capacità di tappezzare l’Italia ha raggiunto vette paragonabili soltanto alla nota e umana simpatia della loro leader- e copriamo con un velo pietoso i vari carrozzoni rosa alla “sinistra” del pd, squallide stampelle costruite a tavolino e nell’urna colpite e affondate. Un qualcosa che si chiama “Liberi e Uguali” cosa poteva mai volere, se non l’irrilevanza?
La sciarada degli sconfitti si conclude sulla soglia di Palazzo Grazioli. Non perché riteniamo B. uno dei perdenti della tornata elettorale, da lui magistralmente condotta- quando mai l’ha cannata?- e attraversata da navigato showman, per carità. Bensì perché, anche nel caso di Silvio, il leader non fa il partito: FI non è che un fantasma, animato da un istrione ultraottantenne e senza uno straccio di programma. Purtroppo non siamo più nel 1994, e insieme a Van Basten è finita per sempre l’esperienza di un partito-azienda formato in una notte da quadri e yesmen. Il risultato ottenuto, seppur incoraggiante, costituisce soltanto la conta di un nucleo di aficionados irriducibili, fermi all’eterna promessa delle pensioni aumentate e ai contratti di carta straccia. Soprattutto, l’Italia di oggi non è che l’ombra di quella della prima ora berlusconiana, e certi bluff hanno l’odore stantio dei trucchi andati a male.
Nella stessa coalizione, Salvini appare come uno dei pochi vincitori del 4 marzo. Seppur con molte titubanze, imboccare la strada del “sovranismo” ha condotto un partito quasi morto al primato nella coalizione di centrodestra, diffondendo in territori tradizionalmente ostili un notevole consenso attorno alla nuova Lega. Salvini ha agito da politico di spessore, sapendo scegliere le candidature- Toni Iwobi e Alberto Bagnai per fare due nomi- e calibrando ogni mossa, dalla campagna elettorale ai primi giochi d’aula. La scomoda compagnia di B. è un punto chiave da risolvere, così come i rapporti con l’UE prima o poi chiederanno scelte radicali: le consultazioni saranno in tal senso decisive.
Altrettanto esiziali, infine, appaiono le posizioni di Gigino di Maio, leaderissimo dei 5stelle sazi di voti. Abbiamo già scritto la nostra opinione sull’ex vicepresidente della Camera. La disperazione di cui i pentastellati sono espressione elettorale è sincera, popolare e dolorosa; non altrettanto oneste appaiono invero le intenzioni del Movimento, imborghesitosi in fretta tra una corsa in autobus e un pranzo con la Trilaterale. Rispetto a cinque anni fa, la carica eversiva ha lasciato il posto all’aplomb forzato dei parvenus in cerca di legittimazione, pronti ad accogliere la staffetta del declinante quinquennio piddino senza aver risolto alcuna delle tare storiche dei grillini. Non basta infatti raccogliere il malessere per poter ipso facto formare un esecutivo: servono programmi, prospettive e idee. Tra il taglio dello stipendio e l’azione di governo esiste un divario ad oggi insormontabile per Di Maio e soci.
Ciononostante riteniamo auspicabile– e perciò improbabile…- un governo di scopo Di Maio-Salvini. Ad oggi, infatti, il massimo ricavabile consiste in un alleanza tra le due forze “populiste” basata su dei punti programmatici comuni: minibot, abolizione della infame riforma Fornero, severo intervento sui flussi migratori, deciso cambio di passo nei confronti dei falchi di Bruxelles e di Berlino. Altro, purtroppo, non possiamo chiedere. A livello di struttura, infatti, sia la Lega che i Cinquestelle sono intimamente forze liberali, antikeynesiane, lontane anni luce dal modello di sviluppo e di giustizia sociale imposto dalla nostra carta costituzionale. Se la politica è l’arte del possibile, riteniamo necessario hic et nunc una soluzione di continuità con le conventicole reazionarie e i loro manutengoli, anche se- ribadiamo- le ipoteche su Di Maio sono tante, forse troppe e il caravanserraglio del centrodestra può riservare più d’un grattacapo a Salvini.
Certo è, comunque, che i boati gastrici e gli isterismi da zitelle del nostro culturame legittimano di per sé la soluzione populista da essi sommamente disprezzata. Nell’attesa che maturino forze genuinamente popolari (quindi socialiste) e ritorni a brillare la stella dell’indipendenza nazionale, tanto è il massimo che possiamo ottenere. Quale miglior conferma, in tal senso, dei miasmi di fogna spaventati giunti da Bruxelles? Finire la processione dei camerieri al servizio di Francia e Germania costituirebbe già un buon primo passo, una fine dell’inizio. Un Monti-Letta-Renzi-Gentiloni non v’è bastato?
Partiamo, per umanità, dagli sconfitti. Né il Partito Democratico né tanto meno la variopinta galassia moderata poteva osare di pensare- attività invero assai poco praticata a quelle latitudini- ad un risultato diverso da quello del 4 marzo. Un vecchio adagio popolare a chi semina vento consegna tempesta. Ora, è noto urbi et orbi che l’ultimo replicante del fu pci risulta essere un’espressione miserabile di una classe in completo delirio monomaniacale, a cui in poco meno d’un anno è crollato il mondo addosso e che non vuole né riesce accorgersene.
L’alta borghesia cosmopolita e provincialissima del PD, compiuto lo sterminio sociale dei sozzi italiani incapaci a divenire euro-idioti, ha avuto politicamente ciò che meritava: primeggiare a via Montenapoleone e ai Parioli per scomparire dal resto della cartina elettorale d’Italia e coprirsi di ridicolo. Fino ad oggi, in effetti, il tentativo propugnato dai vettori tradizionali del culturame liberale nostrano- altra meravigliosa e meritoria filiazione della classe di cui sopra- di screditare la democrazia pro bono élite e, al contempo, convincere il gregge a votare i propri aguzzini per essere massacrati ancora e di più non pare aver funzionato: ai sogni, specie europeisti, l’italiano pelandrone e affamato non vuol proprio credere. Basta l’incubo quotidiano a smentire i soloni e i retori.
Abbandonata la dresda fumante del Nazareno, superiamo per misericordia post-pasquale gli amici di Soros– la cui capacità di tappezzare l’Italia ha raggiunto vette paragonabili soltanto alla nota e umana simpatia della loro leader- e copriamo con un velo pietoso i vari carrozzoni rosa alla “sinistra” del pd, squallide stampelle costruite a tavolino e nell’urna colpite e affondate. Un qualcosa che si chiama “Liberi e Uguali” cosa poteva mai volere, se non l’irrilevanza?
La sciarada degli sconfitti si conclude sulla soglia di Palazzo Grazioli. Non perché riteniamo B. uno dei perdenti della tornata elettorale, da lui magistralmente condotta- quando mai l’ha cannata?- e attraversata da navigato showman, per carità. Bensì perché, anche nel caso di Silvio, il leader non fa il partito: FI non è che un fantasma, animato da un istrione ultraottantenne e senza uno straccio di programma. Purtroppo non siamo più nel 1994, e insieme a Van Basten è finita per sempre l’esperienza di un partito-azienda formato in una notte da quadri e yesmen. Il risultato ottenuto, seppur incoraggiante, costituisce soltanto la conta di un nucleo di aficionados irriducibili, fermi all’eterna promessa delle pensioni aumentate e ai contratti di carta straccia. Soprattutto, l’Italia di oggi non è che l’ombra di quella della prima ora berlusconiana, e certi bluff hanno l’odore stantio dei trucchi andati a male.
Nella stessa coalizione, Salvini appare come uno dei pochi vincitori del 4 marzo. Seppur con molte titubanze, imboccare la strada del “sovranismo” ha condotto un partito quasi morto al primato nella coalizione di centrodestra, diffondendo in territori tradizionalmente ostili un notevole consenso attorno alla nuova Lega. Salvini ha agito da politico di spessore, sapendo scegliere le candidature- Toni Iwobi e Alberto Bagnai per fare due nomi- e calibrando ogni mossa, dalla campagna elettorale ai primi giochi d’aula. La scomoda compagnia di B. è un punto chiave da risolvere, così come i rapporti con l’UE prima o poi chiederanno scelte radicali: le consultazioni saranno in tal senso decisive.
Altrettanto esiziali, infine, appaiono le posizioni di Gigino di Maio, leaderissimo dei 5stelle sazi di voti. Abbiamo già scritto la nostra opinione sull’ex vicepresidente della Camera. La disperazione di cui i pentastellati sono espressione elettorale è sincera, popolare e dolorosa; non altrettanto oneste appaiono invero le intenzioni del Movimento, imborghesitosi in fretta tra una corsa in autobus e un pranzo con la Trilaterale. Rispetto a cinque anni fa, la carica eversiva ha lasciato il posto all’aplomb forzato dei parvenus in cerca di legittimazione, pronti ad accogliere la staffetta del declinante quinquennio piddino senza aver risolto alcuna delle tare storiche dei grillini. Non basta infatti raccogliere il malessere per poter ipso facto formare un esecutivo: servono programmi, prospettive e idee. Tra il taglio dello stipendio e l’azione di governo esiste un divario ad oggi insormontabile per Di Maio e soci.
Ciononostante riteniamo auspicabile– e perciò improbabile…- un governo di scopo Di Maio-Salvini. Ad oggi, infatti, il massimo ricavabile consiste in un alleanza tra le due forze “populiste” basata su dei punti programmatici comuni: minibot, abolizione della infame riforma Fornero, severo intervento sui flussi migratori, deciso cambio di passo nei confronti dei falchi di Bruxelles e di Berlino. Altro, purtroppo, non possiamo chiedere. A livello di struttura, infatti, sia la Lega che i Cinquestelle sono intimamente forze liberali, antikeynesiane, lontane anni luce dal modello di sviluppo e di giustizia sociale imposto dalla nostra carta costituzionale. Se la politica è l’arte del possibile, riteniamo necessario hic et nunc una soluzione di continuità con le conventicole reazionarie e i loro manutengoli, anche se- ribadiamo- le ipoteche su Di Maio sono tante, forse troppe e il caravanserraglio del centrodestra può riservare più d’un grattacapo a Salvini.
Certo è, comunque, che i boati gastrici e gli isterismi da zitelle del nostro culturame legittimano di per sé la soluzione populista da essi sommamente disprezzata. Nell’attesa che maturino forze genuinamente popolari (quindi socialiste) e ritorni a brillare la stella dell’indipendenza nazionale, tanto è il massimo che possiamo ottenere. Quale miglior conferma, in tal senso, dei miasmi di fogna spaventati giunti da Bruxelles? Finire la processione dei camerieri al servizio di Francia e Germania costituirebbe già un buon primo passo, una fine dell’inizio. Un Monti-Letta-Renzi-Gentiloni non v’è bastato?
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